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Pleniluni e quarti di luna
Dame e cavalieri
Radici medievali
della sensibilità moderna
ottobre 1997- aprile 1998
9. Prose (e ritmi) di romanzi
9.1. Disparità fra amante e amato
9.2. Iniziativa delegata al meno importante
9.3. L’amore è desiderio e frustrazione
9.4. La speranza di essere sottomesso all’amato
9.5. L’amante canta le lodi dell’amata
9.6. L’amore è un’esperienza di natura intellettuale, con qualche venatura religiosa
Quando, nel passo già citato
del Purgatorio (XXV1, 113), Dante riassume la letteratura
volgare neolatina nella dicotomia “versi d’amore e
prose di romanzi”, la seconda parte va presa con una certa
larghezza: la distinzione vera è fra poesia lirica e letteratura narrativa,
che ai tempi del sommo poeta era per lo più in prosa, ma aveva avuto una
lunga introduzione di verseggiatori. Dentro questo secondo genere, nel corso
dei secoli dal XII al XIV troviamo di tutto: poemi narrativi, forme più brevi
come il lais e il fabliau,il
quale si distingue per la sua natura comica spesso oscena, testi in
prosa di varia lunghezza (anche migliaia di pagine). Senza contare le canzoni
di gesta in versi, che raccontano vicende di guerra, come la grande Chanson
de Roland, che qui non interessano, ma la cui materia si intreccerà, in
seguito, a quella da noi approfondita.
Per la materia amorosa, troviamo essenzialmente due ambiti:
quello cavalleresco, legato alle complicatissime vicende dei cavalieri della
Tavola rotonda (storie originarie d’Inghilterra, narrate e rinarrate
distesamente Francia, e poi circolanti per tutta l’Europa
occidentale), a cui sono legate le opere di Chrétien de Troyes, il maggiore di
questi autori e un versante più realistico, in cui si narrano vicende legate
alla quotidianità, che dànno magari il destro a lambiccati giochi letterari: è il caso del romanzo provenzale Flamenca,
del poema della Chastelane de Vergi, della
chantefable di Aucassin
et Nicolette, delle grandi costruzioni allegoriche di cui
possiamo ricordare per il nostro tema almeno il Bestiaire d’amour di
Richard de Fournival, il grande Roman de
Grande varietà, dunque, di forme, di ambientazioni, di personaggi. Si passa dalle foreste del Nord a scenografie vaste, che fanno percorrere mezzo mondo ai loro eroi, a castelli del tutto contemporanei, dove vivono dame e cavalieri, in corti che nulla hanno da invidiare, per l’ammasso di cinismo, cattiveria, volontà di sopraffazione e intrigo, al mondo di certi romanzi moderni, Ci possono essere maghi e sapienti, uomini valorosi e strani malati, donzelle e dame dai costumi più vari. Chi volesse cercare in questo enorme coacervo una dimensione unitaria, giungerebbe ben presto alla conclusione che la quête è assai più improbabile che quella per il Santo Graal, più difficile da affrontare che la traversata della Foresta Perigliosa.
Dunque inutile sarà cercare di. risolvere il problema di cosa sia l’amore in questi testi: inafferrabile, come forse per i cavalieri il Santo Graal. Che però costoro si ostinavano a cercare: un po’ di testardaggine sia però concessa anche a noi; e si conceda pure che alcuni principi generalissimi si possono rintracciare, a patto di non pretendere da ciò che ci accingiamo a dire troppa forza esplicativa.
Il mio assunto è che ci sia una relazione fra la concezione d’amore che troviamo in questi libri e quella della poesia lirica, ma che sì tratti di una relazione di esclusione e opposizione piuttosto che di similarità.
Nella poesia cortese si ha:
1. disparità fra amante e amato, con l’amante inferiore;
2. conseguente iniziativa delegata al meno importante;
3. l’amore è desiderio che deve restare tale: frustrazione, perciò;
4. la speranza è quella di poter essere sottomesso all’amato;
5. l’amante canta le lodi dell’amata;
6. l’amore è un’esperienza di. natura intellettuale con qualche venatura religiosa.
Data la quasi contemporaneità e la limitrofia geografica si potrebbe supporre una congruenza fra la letteratura cortese e quella cavalleresca: cosa si può ricavare dai testi narrativi in questa materia? andiamo per ordine.
9.1. Disparità fra amante e amato
In alcune delle vicende narrative prese in esame questa
regola della poesia cortese, il cui contenuto banalizzato è che si ama la
moglie del proprio signore, è senza dubbio osservata: fra le altre nelle
storie, fra le più importanti di tutte, relative a Tristano (in quanto amante
di Isotta
In generale non si può dunque dire che la regola cortese venga osservata in questi testi.
Da La première continuation de Perceval
Mentre procede all’ambio assorto nei propri pensieri, vede un padiglione sontuoso drizzato su una radura, accanto a una fonte: ha i teli di diversi colori con decorazioni di animali, uccelli e fiori applicati su ricchi drappi di seta, e un’aquila d’oro lucente sormonta il globo in cima al pennone. A Galvano quella tenda sembra straordinariamente insolita e bella. Che dirvi di più, se non che tutt’attorno ci sono ripari di frasche e logge gallesi. All’interno, il padiglione è giuncato di fiori freschi dalla fragranza delicata. Dopo averla ammirata da lontano, monsignor Galvano si avvicina alla tenda per la via più diretta, smonta di sella, appende lo scudo a una giovane quercia, vi appoggia la lancia e vi lega il cavallo per le redini. L’elmo allacciato e rivestito dell’armatura, entra nel padiglione dalla porta che ha trovato aperta e vede un letto coperto da una grande coltre di sciamito. Su quel giaciglio, intenta a confezionare un laccio d’elmo, sedeva una pulzella di tale squisita bellezza che in tutto il mondo non si sarebbe trovata l’eguale.
Stupito da tanta bellezza, monsignor Galvano la osservò con attenzione, poi le fu subito vicino e le parlò con cortesia.
«Mia dolce signora» le disse «vi protegga il Re glorioso che non è mai mendace!»
La fanciulla abbassa il capo senza pronunciare una sola parola, e Galvano non tarda a rendersi conto che si è sbagliato nel chiamarla “signora”. Così le si rivolge nuovamente con grande franchezza.
«Dio che vi ha creato così gentile e bella vi salvi e vi protegga, damigella! »
«Signore, Colui che fece il giorno e la notte protegga monsignor Galvano, e benedica voi pure!»
«Per l’amor di Dio, mia dolce e amabile amica! Non nascondetemelo: perché avete indirizzato il saluto a monsignor Galvano prima ancora che a me?»
«Perché? In fede mia, signore, vi rispondo come farei con mio padre o con il mio caro fratello, un cavaliere molto valoroso.»
«Dolce amica, ascolterò volentieri il vero motivo di tanto amore.»
«Bel signore, ve lo dirò senza mentirvi in nulla. Sono passati ormai tre anni e anche più, credo, dacché ho inteso parlare per la prima volta di Galvano e ho sentito lodare i suoi grandi meriti: vi sono in lui più prodezza, onore, cortesia e generosità che in alcun altro cavaliere vivente. Per questo lo saluto prima del mio stesso padre o di qualsiasi altro.»
«Nobile damigella, non fui mai io il primo a rivelare il mio nome, a meno che non me ne venisse fatta richiesta. Né mai lo nascosi a chi volesse conoscerlo! »
«Bel signore, vi prego: abbiate la cortesia di non tacermelo. Vorrei saperlo.»
«Damigella, sappiate per certo che sono Galvano.»
«Galvano!» grida la fanciulla. «Non vi credo!»
«Tuttavia è la pura verità: sono proprio io, mia bell’amica! »
«Allora toglietevi l’armatura, signore. Voglio vedere allo scoperto il vostro viso e il vostro aspetto.»
«Lo farò volentieri, dolce amica. Non perderò per questo una così bella avventura!»
Si disarma in fretta, e la fanciulla gli dice con grande amabilità:
«Bel signore, ora mi ritirerò nella mia camera, ma tornerò presto. Allora saprò dirvi se siete o no Galvano.»
Si allontana con il consenso del cavaliere, solleva una stoffa preziosa stesa tutt’attorno e, passandovi sotto, entra nella camera dove c’era una Saracena che aveva servito negli appartamenti privati della regina Ginevra. Molto saggia e cortese, aveva eseguito con mani esperte un ricamo alla moda saracena che raffigurava monsignor Galvano. Non l’aveva rappresentato né curvo né contraffatto ma del tutto conforme al suo vero aspetto, intento a mettersi o a togliersi le armi. La somiglianza era così perfetta che sarebbe stato impossibile non riconoscerlo quando si fossero visti insieme l’immagine e il modello. Appena la fanciulla ebbe osservato il ricamo, lasciò la camera e tornò dal cavaliere che si era avvolto nel mantello. Lo scrutò con attenzione e, dal viso e dall’aspetto si rese conto che si trattava proprio di Galvano, al di là di ogni dubbio. Allora corse ad abbracciarlo, e gli baciò gli occhi e la bocca più di cento volte filate.
«Amico, la mia persona vi appartiene» gli dice. «In tutta lealtà, vi faccio dono del mio amore perenne »
«E io ricevo lo splendido dono con grande gioia e senza oltraggio. In cambio, vi accordo il mio amore privo di falsità, se vi piacerà accettarlo »
Sigillato l’accordo con un bacio, ragionano insieme dei giochi d’amore, per poi passare amabilmente ai fatti, sì che la fanciulla della tenda perde il nome di pulzella. D’ora in avanti potrà essere chiamata solo amica o damigella. Prima di separarsi da lei, Galvano le rende noto il termine entro il quale ritornerà per condurla via con sé. Poi, preso congedo, si arma e si allontana in sella al cavallo che procede al piccolo trotto.
Qui le eccezioni alla regola sono ancora più evidenti anche in storie della tradizione più importante: il caso più sintomatico è quello di Ginevra che incoraggia Lancillotto in maniera certo eccessiva perché sia solo un penchant di simpatia. In più dì un caso troviamo Galvano che viene concupito da damigelle o signore di alta condizione; nei lais ci sono testimonianze di storie del genere; simile è il già citato caso di Blanchefleur e Perceval, per quanto costei sia giustificata dalla necessità di ingraziarsi il forte cavaliere.
Un aspetto non secondario è il ruolo attivo assegnato alle
donne: nonostante l’impegno profuso da signore come Alienor d’Aquitaine o
Chrétien de Troyes
da Perceval
Si avvicina la donzella più graziosa, più elegante e più viva di sparviero o pappagallo. Portava un mantello ed una tunica d'un tessuto color di porpora scura, ornato di vaio e, siatene ben certi, la guarnizione d'ermellino non era spelata. Una banda di zibellino nero e bianco, né troppo lunga né troppo larga, orlava il collo del mantello.
Se ho mai descritto la bellezza che Dio mise su corpo o viso di donna, voglio provarmici ancora una volta e non mentire di una sola parola. I capelli le fluttuavano per le spalle e chi li avesse veduti avrebbe sicuramente creduto che fossero d'oro tanto eran lucenti e soffici; la fronte bianca, alta, unita, come tagliata nel marmo, nell'avorio o in legno prezioso, le sopracciglia, brune, spazioso l'intervallo tra gli occhi, gli occhi ben tagliati e chiari, sorridenti e mutevoli, il naso franco e diritto, e in quel viso il vermiglio sul bianco stava meglio di quanto non stia la sinopia sull'argento d'un blasone. Affinché incantasse i sensi e i cuori della gente, Dio l'aveva fatta meraviglia delle meraviglie, perché mai prima d'allora aveva creato simile cosa né mai più doveva crearne
Quando il cavaliere la vede, la saluta, ed ella ricambia, ed anche i due cavalieri lo salutano. La damigella lo prende cortesemente per mano e dice:
«Bel sire, il nostro tetto questa notte non sarà quale lo meriterebbe un valentuomo. Se io vi dicessi fin da ora a che cosa siamo ridotti pensereste forse che io lo dica per malizia e perché desidero che ve ne andiate. Ma venite, ve ne prego, accettate la nostra casa così com'è, e che Dio vi conceda un domani migliore!»
Per mano essa lo conduce in una stanza bella, lunga e larga, adorna di un soffitto scolpito. Su un'imbottita di sciamito distesa su un letto, si siedono entrambi. Intorno a loro, piccoli gruppi di cavalieri stavano in silenzio, gli occhi fissi su colui che accanto alla lor dama rimaneva muto. Se egli non parla, è perché non ha dimenticato il consiglio del valentuomo. A bassa voce, i cavalieri esprimono il loro stupore:
«Gran Dio,» ognuno diceva, «mi stupisco assai che questo cavaliere sia muto. Gran peccato sarebbe se lo fosse, perché mai più bel cavaliere nacque da donna. Come sta bene accanto alla mia dama, e come è bella la mia dama a vedersi accanto a lui! Se soltanto non volessero rimanere così silenziosi! Ah, son così belli, lui e lei, che mai cavaliere e donzella si completarono in modo così perfetto. Sembra che Dio li abbia creati l'uno per l'altra e per unirli.»
Così conversano tra di loro, e la damigella attendeva dal cavaliere un segno, per quanto lieve. Ma capì che egli non avrebbe detto verbo se non fosse stata lei a chiamarlo e allora, assai dolcemente, disse:
«Sire,» disse, «donde venite oggi?»
«Damigella,» disse lui, «ho passato la notte da un valentuomo in un castello dove ho trovato la più generosa delle accoglienze. Vi sono cinque torri fortificate, magnificamente costruite, una grande, e quattro piccole. Non saprei descrivervi l'aspetto dell'insieme, né dirvi il nome del castello. So solamente che ne è signore Gornemant de Goorn.»
«Ah! bell'amico, belle son le vostre parole e cortesemente avete parlato. Che Dio re del cielo vi ricompensi per averlo chiamato valentuomo! Mai diceste parole più vere, ché è veramente un valentuomo e questo posso ben affermare io. Sappiate che io sono sua nipote, benché sia molto tempo che non lo vedo. Certamente, da quando avete lasciato casa vostra, mai avete conosciuto cavaliere più compito. Vi ha ricevuto con gioia ed allegrezza, com'è abitudine sua, quel cavaliere nobile e gentile, potente agiato e ricco. Ma da noi le pagnotte non abbondano: appena sei che un pio e sant'uomo di priore, che è mio zio, mi mandò per la cena di stasera, e vi aggiunse una botticella di vino cotto. Nessun'altra vivanda, salvo un cerbiatto, che uno dei miei sergenti uccise questa mattina con una freccia.»
E immediatamente ordina di mettere le tavole e tutti si siedono a cena. Mangiano di buon appetito, ma il pasto non è lungo. Coloro che debbono vegliare la notte, e sono cinquanta, tanto sergenti quanto cavalieri, vanno al castello. Gli altri, che avevano vegliato la notte precedente, che dormiranno questa notte, si danno premura intorno all'ospite. Drappi belli bianchi, ricca copertura e origliere per la testa, gli preparano tutto quel che ci vuole per un delizioso letto. Non vi manca che piacere di donzella, se così egli volesse, o di dama, se gli fosse lecito. Ma queste son cose che non conosce e perciò vi dico che si addormentò subito e non se ne diede affatto pensiero.
Ma colei che l'ha ospitato, chiusa in camera sua non riposa molto. Se il cavaliere dorme d'un sonno tranquillo essa pensa che non ha difesa nella battaglia che la minaccia: trasalisce e si agita, si gira e si rigira. Improvvisamente si butta sulla camicia un mantellino di seta scarlatta e così affronta l'avventura, da donna ardita e coraggiosa. Non è cosa da poco: ha deciso infatti di andare dal suo ospite e confidargli una parte delle sue angosce. Quando ha abbandonato il letto ed è uscita dalla camera, prova una paura tale che trema in tutte le membra e ne ha il corpo bagnato di sudore. In lacrime va al letto dove dorme il cavaliere. Singhiozza, sospira, non osa andare più oltre e piange così forte che gli bagna tutta la faccia con le sue lacrime. Si china, s'inginocchia. La donzella ha pianto tanto ch'egli si sveglia. Meravigliandosi di sentirsi il viso bagnato, scorge la donzella in ginocchio davanti al letto, che lo teneva abbracciato stretto al collo. Egli ha la cortesia di stringerla a sua volta nelle braccia e di dirle, attirandola a sé:
«Bella, che c'è? Perché siete venuta qui?»
«Ah! cortese cavaliere, pietà! In nome di Dio e del Figlio Suo, vi prego di non tenermi a vile perché son quasi nuda. Se son vestita così, non ho pensato male neppure un momento, né vi vidi cattiveria o villania. Non vi è creatura triste e disperata della quale io non soffra di più. Nulla di quel che ho può contentare il mio cuore; giorno non passa che la disgrazia non si accanisca contro di me. Son cosi infelice che non vedrò altra notte dopo di questa, e non altro giorno che quello che sta per spuntare, perché mi ucciderò di mia propria mano. Dei trecento dieci cavalieri che eran di guarnigione in questo castello, non ne restano più che cinquanta. Quanto agli altri, Anguingueron, il siniscalco di Clamadeu delle Isole e un perfido cavaliere li han trascinati via per ucciderli o per gettarli in prigione. Piango la sorte di coloro che sono imprigionati così come la sorte degli uccisi, perché so bene che morranno e non potranno mai uscirne. Per me tanti valorosi son morti: è dunque giusto che me ne disperi. È or mai un inverno ed un'estate che Anguingueron ci tiene assediati, senza mai allontanarsi d'un passo. Di giorno in giorno le sue forze sono aumentate e diminuite le nostre e le vettovaglie sono finite: ne rimane soltanto più quanto basta per sfamare un'ape. Domani, se Dio non si oppone, cediamo il castello che non può più difendersi. Questa è la legge che siamo stati costretti a subire. E anch'io sarò data insieme al castello, infelice che sono. Ma non mi prenderanno viva perché mi ucciderò. Lascerò loro soltanto il mio cadavere, e che importa? Clamadeu che vuole avermi non avrà che un corpo senz'anima e senza vita. In uno scrigno conservo un coltello con una sottile lama d'acciaio: saprò adoperarlo. Ecco quanto volevo dirvi. E ora torno nella mia stanza e vi lascio riposare.»
Presto il cavaliere potrà farle conoscere il suo valore, se oserà farlo, perché la donzella non aveva altra ragione per venire a piangere sul suo viso: qualunque cosa essa abbia detto, voleva soltanto ispirargli nel cuore il desiderio di intraprendere la battaglia, per difendere lei e la sua terra. Ed egli le dice:
«Amica cara non è l'ora di fare il viso triste. Rimettetevi, asciugate il pianto e venite più vicino. Ve ne prego, non spargete più lacrime: Dio, se così vuole, può concedervi un domani migliore di quanto non crediate. Venite a stendervi in questo letto accanto a me, è abbastanza largo per entrambi. Non è giusto che mi lasciate così.»
«Verrò, se così vi piace.»
Ed egli la tiene stretta contro di sé e la bacia, mentre la fa entrare dolcemente e gentilmente sotto la coperta. La donzella sopporta i suoi baci e non credo che le costasse molta fatica. Così riposarono tutta la notte, fianco a fianco bocca contro bocca, fino al mattino che porta il giorno.
9.3. L’amore è desiderio e frustrazione
Qui. la distanza fra la tradizione lirica e quella narrativa è abissale, e non è neanche il caso di compilare un inventario, che sarebbe troppo lungo. La finalità dell’amore è l’accoppiamento, che non causa certo la fine del desiderio. Spesso, anzi, il tragitto è proprio l’inverso dì quello proposto dai lirici e anche dal trattato di Andrea Cappellano (è il caso di molti lais, o della ormai fin troppo citata storia di Perceval e Blanchefleur): la seduzione, fine a se stessa, o comunque non finalizzata ad amore, porta alla nascita del desiderio, all’accoppiamento e di seguito all’amore. Di qui la rivalutazione dell’amore coniugale (Erec) o la considerazione, che viene suggerita dalla storia di Tristano e Isotta, che sarebbe meglio se i due amanti avessero potuto unirsi in matrimonio.
È un aspetto interessante e forse non molto studiato; di solito si preferisce sottolineare che il mondo feudale non prevede la scelta del partner da parte dei giovani. Nei romanzi si nota almeno una contestazione di questa posizione, la stessa che abbiamo trovato, a Trecento inoltrato, nella storia di Ghismonda.
La mancata osservanza di questa regola porta all’esito tragico della Castellana del Vergi, che venne raccontata in un cantare italiano del Trecento:
La donna del Vergìù
[Guarnieri, duca di Borgogna,
ha un cavaliere, innamorato
di una dama,
con cui comunica per mezzo di una cagnetta, la quale
assicurava anche che non ci
fossero estranei nel giardino (il «Vergi» del titolo) della dama]
v. 105-243
Or segue qui la leggenda e la storia
della donna del gran duca Guernieri.
L’alta duchessa credea in sua memoria
che ‘1 buon Guglielmo, nobil cavalieri,
per lei facessi cotal festa e gloria
ed armeggiando montasse a destrieri,
e ch’egli fusse del suo bel piacere
presa d’amore e tutto al suo potere.
Ella, che ha messo in lui ogni sua speme
e celato l’amore oltr’a misura,
sì che el disio dolce nel cor li prieme,
in gelosia ne vive ed in paura,
e lagrime degli occhi il viso geme.
Sovente quella nobil creatura
diceva: «Amor, perché m’hai così arso
di costui, che d’amor m’è così scarso?»
E volgeva sì spesso gli occhi sui
come fa chi d’amor forte si duole,
e, quando si trovava a sol con lui,
sì gli diceva amorose parole.
Messer Guglielmo, ch’era dato altrui,
vedendo ciò che la duchessa vuole,
no gliel negava e no l’acconsentìa
per celar quella che l’avea in balìa.
Un giorno er’ito el duca a suo diletto
e cavalcato a un nobile palazzo,
e la duchessa, sanza ignun sospetto,
prese messer Guglielmo per lo brazzo
e menosselo in zambra a lato al letto
ragionandosi insieme con sollazzo,
e per giuocar la donna e ‘1 cavaliere
fece venir gli scacchi e lo scacchiere.
Da poi ch’egli ebbon tre giuochi giuocato,
la duchessa, ch’amor sovente sprona,
disse: « Messere, avete disïato
già gran tempo d’avere mia persona:
or prendete di me ciò che v’è a grato. »
E abbracciandol gli baciò la gola,
poi gli baciò ben cento volte il viso
prima che ‘1 suo dal suo fosse divisa.
E abbracciandol gli dicea: « Amor mio,
perché mi fate d’amor tanta noia?
Deh, contentate ‘l vostro e mio disio!
Prendiamo insieme dilettosa gioia:
io ve ne prego pell’amor di Dio,
o dolce amico mio, prima ch’ i’ muoia!
Se mi lasciate così innamorata,
ohimè lassa, in mal punto fui nata!»
Messer Guglielmo disse con rampogna
vedendo alla duchessa tanto ardire:
«Chi mi donasse tutta
tal fallo io non farei al mio sire.
Prima che gli facessi tal vergogna,
certo mi lascerei prima morire.
E voi, madonna, prego in cortesia
che giammai non pensiate tal follia.»
E la duchessa si tenne schernita
e disse a lui: «Malvagio traditore,
dunque m’avete voi d’amor tradita
e fattomi così gran disonore?
Per certo io vi farò torre la vita
e farovvi morir con gran dolore;
e a destrier mia persona mai non monta,
se vendetta non fo di cotal onta.»
Partissi il cavalier doglioso e gramo
veggendo la duchessa piena d’ira,
e quasi di pazzia menava ramo
sì dolorosamente ne sospira;
e di partirsi quindi egli era bramo.
E la duchessa tai parole spira
che giammai non l’amò per tal follia:
uscì di zambra ed andossene via.
Come ‘l barone uscì dalla duchessa
andossene alla Dama del Verzùe,
in cui avea la sua speranza messa,
e raccontogli il fatto come fue,
e tutto ciò che ‘nteso avea da essa
e come pose ogni vergogna giùe,
e siccome nolla volle servire,
e come disse di farlo morire.
Di ciò la donna si facea gran risa,
e disse: « La duchessa è forte errata,
che pensa nostra fede aver divisa;
e voi, messer, se m’avessi ingannata,
sì retrovata m’aresti conquisa
di mala morte, in terra trangosciata.
Ma ‘l nostro amor celato ha tanto effetto,
che dura e durerà sempre perfetto.»
Parlando el cavaliere alla donzella,
torna in quel punto il duca dalla caccia
con la sua compagnia chiarita e bella,
e smontò dal cavallo con bonaccia.
In quello venne la duchessa fella,
piangendo fece croce delle braccia,
graffiata el volto con molta malizia,
gli disse: « Signor mio, fammi giustizia! »
Turbato el duca con maninconia
udendo la duchessa sì parlare,
e sì le disse: « Dolce vita mia,
perché vi fate sì gran lamentare?
Fecevi oltraggio niun uomo che sia?
Dimmelo, ché non è di qua dal mare
re nè baron, che, s’e’ v’ha fatto oltraggio,
ch’io non faccia mia l’onta e mio ‘1 dannaggio.»
Allora la duchessa fraudolente,
per dare alla malizia più colore,
trasse el duca da parte della gente
e cominciogli a dir questo tinore:
«Messer Guglielmo, falso e sconoscente,
mi richiese oggi del villano amore;
ond’io ti priego, Maestà gradita,
che a tale offesa non campi la vita.
Ancor m’ha fatto più oltraggio assai:
contra mia voglia mi volle sforzare,
stracciommi e drappi e fregi e vai,
e poco mi valea merzé chiamare;
ond’io per questo non sarò giammai
allegra, se io nol veggio squartare,
farne far quattro parti a’ palafreni
dall’inforcata insino alle reni.»
Ma ‘l duca savio chiaramente vede,
come si vede chiaro el bianco e ‘l nero,
che la duchessa mente, e non le crede
e ben conosce che non dice il vero;
ma pur le disse: «Donna, in buona fede
a voi prometto, come sire intero,
che d’esta offesa fia alta vendetta;
ma non v’incresca s’io non la fo in fretta.»
La duchessa rispuose con superba,
e disse: «Fate ciò che vi diletta.
L’offesa è mia, e pure a voi si serba
di chi m’oltraggia di farne vendetta.
Lo ‘ndugiar sì mi induce pena acerba;
ma giurovi alla croce benedetta
di giammai non parlarvi di buon cuore,
se primamente el traditor non muore. »
Partissi el duca da quel parlamento,
secondo che raccontan le leggende,
col cor gravato con tanto tormento
che ‘n verità di Dio assai l’offende;
e nella mente e nel proponimento
el credere e ‘l discredere contende:
over che la duchessa gli mentisse,
o che messer Guglielmo lo tradisse.
(Guglielmo rifiuta di dire il nome della sua amata:
Guarnieri lo minaccia d’esilio,
per cui il cavaliere decide di farlo assistere,
nascosto, a un convegno amoroso. Il duca riferisce la vicenda alla
moglie, abbondando di particolari sulla cagnolina. La donna dei Vergiù per la vergogna si uccide; Guglielmo, per il dolore,
ne seguel i’esempio; Guarnieri ammazza la mogli e si fa seguace di un
ordine combattente.]
9.4. La speranza di essere sottomesso all’amato
Anche questo aspetto nei romanzi cavallereschi è più simile a concezioni moderne: i partner godono in genere di una condizione di parità come nelle storie maggiori già citate; se c’è un atteggiamento diverso, è quello «ovidiano» che consiste nel tentativo di sottomettere l’essere amato. In Flamenca, che per molti aspetti ricorda più il procedere dei lirici (il romanzo è in versi provenzali), man mano che si procede nella storia (la vicenda di una donna sposa a uno zoticone, amata da un cavaliere elegante, che con tenacia la conquista) si passa da uno scherzo cortese a uno «borghese», in cui l’adulterio è visto, «cortesemente» in verità, come rimedio a un matrimonio mal riuscito.
da Flamenca
La domenica, quando giunge il momento di prendere la «pace», Flamenca, prima di toccare il libro, non esita a domandare: «Per chi? »
Nell’udire «per chi?» Guglielmo esulta. Quando si ritrova solo continua a ripetere: «Bel Signore Iddio, ha voluto scherzare chiedendomi “per chi?” Dubita che io non l’ami di perfetto amore? Può ben capire che l’amo sinceramente e che non mi rivolgo a lei, alludendo ad un’altra e che sono completamente dedicato a lei e da lei vinto; ma dal momento che ella vuole che io le sveli chiaramente le mie intenzioni, mi sarà facile dirle tutto. Per lei io sopporto questo martirio; per lei Amore mi tormenta con un dolce male che mi alletta; tanto più mi piace, quanto più ne soffro e non voglio a nessun costo esserne guarito.» Flamenca e le sue ancelle, che non sono né stupide né sciocche, s’intrattengono spesso quando possono in piacevoli conversari. Ricordano e ripetono le parole scambiate e alimentano così il fuoco d’amore.
Il giorno stesso di Pentecoste, Guglielmo porge la «pace» e, prima di tornare presso il sacerdote, dice trepidante alla sua dama: «Per voi».
Ed ella pensa in cuor suo: «Questo nobile signore, che in tal modo mi prega d’amore, ha oltrepassato i limiti del vassallaggio; io credo di essere la prima donna richiesta in un modo così insolito. Dopo una breve conversazione, dopo esserci appena visti, è passato dall’amore alle preghiere. Pazzo e sciocco è il mio signore, che mi tiene prigioniera, sotto chiave! Ora ho trovato qualcuno che, se m’aggrada, mi libererà dalla prigione e nessuna sorveglianza potrà impedirlo.»
Tutto questo ripete Flamenca alle sue ancelle, quando si ritrovano con lei in camera. Poi chiede sospirando: «Ed ora cosa dovrò dirgli? Domani so che sarà il momento di rispondere e se da parte mia s’interromperà questo gioco, non me ne verrà bene né onore.»
Con prontezza Margherita risponde: «Signora, se vi degnaste di aprirci il vostro cuore, sapremmo consigliarvi meglio. Ma che cosa intendete fare e che cosa ve ne pare? Volete forse impedire a questo nobile signore, che Amore vi manda per soggiogare il vostro cuore, di continuare ad amarvi ed a corteggiarvi? Un tale amante inviato da Amore dovrebbe piacervi molto, poiché egli s’impegna con tutto il suo cuore per guarirvi e liberarvi.»
Alice non riesce ad ascoltare oltre e interrompe: «Signora, portare le cose troppo per le lunghe desta l’attenzione dei calunniatori e un corteggiamento che si protrae senza frutto raggela il cuore del più ardente amante. L’attesa prolungata genera malintesi. Perciò il consiglio che vi do apertamente è che non gli nascondiate più a lungo il vostro cuore. Fategli sapere che accetterete il suo amore, apprezzerete il suo valore e la sua amicizia, perché è un gentiluomo cortese: tanto è saggio, acuto e innamorato che saprà ben salvaguardare nello stesso tempo voi e se stesso, così che nessuno potrà supporre che vi amiate. E vi assicuro che quando sarete insieme, non ci sarà al mondo una coppia come voi, non esclusi il sole e la luna. Egli è il sole che v’illumina di sé e, poiché Amore vi unisce, ciò ch’egli fa non sia disfatto da troppi calcoli, per Dio! Sarebbe la cosa più insensata che un così splendido gioco fallisse per colpa vostra! Rispondetegli con una parola ambigua, che all’udirla lo conforti e gli induca insieme amore e timore.»
«Mia cara amica, se vi sta bene, gli chiederei soltanto: “Che posso?”, perché questa frase è così oscura ch’egli non sarà ancora certo che io l’ami, ma neppure rimarrà senza speranza.»
«Per Dio — esclama Margherita — non dimenticate questa frase: è la migliore di tutte!»
«Non la scorderò, amica, e se Dio vuole, gliela dirò domani.»
E mantiene il suo proposito: l’indomani, quando Guglielmo le porge la «pace», gli chiede con dolcezza: «Che posso?»
Egli sente e capisce bene, perché vuole ben sentire e capire. Senza perdere tempo s’allontana e fra sé dice: «Questa frase da una parte mi dà speranza, dall’altra mi spaventa: non so quale incoraggiamento mi venga da un “che posso?” che non dice né sì né no. Tuttavia, a pensarci bene, mi sembra che l’incertezza inclini più verso il sì che verso il no. Ha proprio scovato una frase ambigua! È davvero una dama regale, che riesce a trovare lì per lì, in risposta alle mie, parole azzeccate con naturalezza. Bel Signore Iddio, sentite cosa vi dico: riguardo al paradiso che mi dovete donare, potrete stringere con me un buon accordo: io farò stipulare i preliminari patti di donazione con la garanzia degli apostoli e dei profeti; m’impegno cioè di consacrare alla costruzione di chiese e di ponti tutte le rendite che ho in Francia, se voi mi promettete che avrò la mia donna, col suo pieno consenso e piacere; altrimenti non accetterei né lei né tutto ciò che voi possedete e neppure voi stesso . . . . [lacuna] o quanto possiate fare, anche se di tutto ciò io fossi imperatore.»
Quella fu una gran bella settimana.
La frase «Che posso?» gli rianima e risana il cuore ed egli ne è assai soddisfatto. Senza lasciarsi illudere o ingannare, la interpreta in tanti possibili modi, ma l’interpretazione è sempre favorevole.
«Dio mi protegga — esclama — quando ella ha pronunciato “Che posso?” è come se avesse detto “Farò quello che potrò”. Non mancano dunque il volere e il sapere: ora occorre, come terza cosa, il potere.»
All’ottava di Pentecoste si celebrò la festa dell’apostolo San Barnaba, di minore solennità. Flamenca non avrebbe messo i piedi fuori della torre, trattandosi di un santo confessore, per cui non è festa comandata, se questa ricorrenza non avesse coinciso con la domenica: altrimenti non avrebbe potuto né osato né le sarebbe stato concesso. Quel giorno, come prova sincera del suo amore, secondo l’ispirazione di Perfetto Amore, Guglielmo dice alla sua dama: «Guarire».
Flamenca riflette e pensa in cuor suo: «Come posso sanare il male d’amore che affligge un altro? Non so come intervenire. Più ci penso e me ne preoccupo e meno trovo l’occasione e la possibilità di rimediare al male che, secondo quanto egli ha detto — ed io gli credo — soffre per me. L’ardire che ha dimostrato in questa circostanza è prova certa che egli vive in pena d’amore. Anche se non me l’ha detto, io credo che il suo amore sia per me, perché se soffrisse per un’altra, non sarebbe certo venuto a lamentarsi con me.»
Tutte queste considerazioni fatte in chiesa, Flamenca ripete alle sue donzelle: esse sono dello stesso avviso e lodano vivamente l’audacia di Guglielmo e infine consigliano alla loro signora di domandare: «Come?», visto che non sanno trovare il mezzo per guarire d’amore chi lo chiede. E aggiungono: «Dal momento ch’egli ha tanto osato, troverà certo qualche astuzia per rendere felici entrambi.»
«Dio lo voglia nella sua misericordia! — esclama Flamenca — proprio non vedo come possa accadere che io goda di lui e lui di me, più di quanto abbia fatto fino ad oggi.»
«In brev’ora Dio lavora—soggiunge Alice—e un energico sforzo vince la mala sorte. S’egli riesce ad evitare che monsignore scopra questa faccenda, saprà rendere guerci tutti gli altri. Guerci! lui? sì, per Dio, ciechi addirittura! Tutti li rende ciechi con la sua aria di sempliciotto, con le sue maniere discrete e innocenti. E poiché sa essere tanto scaltro da riuscire a parlarvi in presenza di tutti, senz’essere inteso che da voi, per cui egli sta lì, troverà presto un altro espediente per potervi incontrare, se glielo concederete.»
Esse continuano a ripetere questo consiglio fino alla festa di S. Giovanni, che cadde di sabato.
Quel giorno Guglielmo non porge inutilmente la «pace» alla sua dama perché, come aveva stabilito, ella gli dice con grande dolcezza:
«Come?», e quasi gli sfiora le dita con le sue, quando afferra il salterio. San Giovanni avrebbe dato prova di grande cortesia, se fosse stato lui a consentire che quel giorno Guglielmo ricevesse un segno così palese, e Guglielmo più che mai ne avrebbe apprezzato le virtù. Ma in poco mancò il Santo, perché realizzò con quella parola quanto di meglio si poteva e colpi lui dritto nel cuore. Colmo di felicità Guglielmo rientra nel coro: avrebbe voluto che il sacerdote avesse già recitato la preghiera del mezzogiorno, per non dover restare ad ascoltarla.
Quando hanno assolto le loro mansioni, Guglielmo se ne torna tutto gioioso all’albergo, conducendo con sé i compagni, cioè l’oste e don Justi. Dopo pranzo non s’addormenta, ma si stende sul letto e riposa, ripetendo tra sé tutte le parole pronunciate da Flamenca e quando arriva a «Come?» si mette a cantare per la gioia ed esclama: «Mia dolce signora, assai presto, purché voi mi diate fiducia, troverò un valido espediente per cui saremo liberati, voi dalla prigione di un marito malvagio, io dalle pene d’amore che per voi ogni giorno mi tormentano.
Ma se Pietà mi prende sotto la sua protezione e voi la riconoscete come vostra Signora — come fate e come dovete fare — presto dimenticheremo i nostri affanni, tanto la nostra felicità sarà comune. Dico “comune” perché di due ne faremo una sola e potremo dire: «Tutta questa felicità è nostra, perché è tutta mia ed è tutta vostra! E ognuno la terrà per sé: io avrò la vostra e voi la mia. Così si addice a buoni compagni: ciò che è dell’uno sia dell’altro.”»
La domenica dopo la festa di San Giovanni, Guglielmo non tralascia di attendere alle sue mansioni. Si avvicina alla sua dama col cuore esultante per darle la «pace» e non esita a dirle sussurrando: «Con l’astuzia».
Flamenca riferisce tutto alle sue care donzelle e le prega di darle un consiglio in buona fede, perché è giunto il momento in cui ne ha bisogno.
Alice risponde: «Non esiterò a dirvi quel che penso, come già ho fatto. Dal momento che Dio vi ha inviato questo giovane, ritengo che egli abbia immaginato un valido mezzo per liberarvi. Al posto vostro, risponderei: “Trovala”; infatti, se non ci riesce lui, non sarete certo voi a farlo.»
Margherita approva pienamente. «Un uomo — dice — che sa così bene corteggiare, non può non escogitare tutto ciò che agevoli il suo amore: accortezze, raggiri, sotterfugi. Vi assicuro che se fossimo nei tempi antichi e m’imbattessi in un simile amante, crederei che si trattasse di Giove o di qualche dio innamorato.
Rispondetegli senz’altro: “trovala”. Per voi non è il caso di portar per le lunghe il corteggiamento come fanno le dame che ne hanno tutto l’agio. Queste pascono d’illusioni gli amanti sinceri fino al momento in cui essi si stancano di supplicarle per averne in cambio solo tormento, e decidono di allontanarsi, stufi delle loro fole! Allora esse si pentono, quando però pentirsi non serve più a nulla, perché chi non fa una cosa quando può, non la potrà più fare quando vorrà.»
Flamenca trae un sospiro e trascolora: Alice starnutisce e subito aggiunge: «La faccenda si mette bene! Niente poteva essere più gradito di uno starnuto in questo momento!»
«Dio ti benedica! — risponde Flamenca — per il tuo amabile incoraggiamento: tu mi rassicuri in tutto e per tutto. E se è questo che desiderate e mi consigliate in buona fede, seguirò senz’altro il vostro consiglio. Ma pronunciando questa parola, io confesso apertamente che voglio il suo amore e non so se mi torna a disonore acconsentire così facilmente ad amare quest’uomo.»
«Signora — risponde Alice — non è disonore se Amore lo esige. Se non lo amaste con cuore sincero e seguiste il nostro consiglio, non vi comportereste come si conviene. Ma là dove Amore regge le redini, insieme con buon Consiglio e buona Volontà, una follia ha la meglio su ogni buon senso. Tuttavia è saggezza e non pazzia ciò che Amore vuole: ne sono testimoni tutte le persone intelligenti, gaie e prodi e coloro che non amano i gelosi. Non conosco persone d’umor così nero che non possano dare di ciò testimonianza, neppure monsignore, se la faccenda si potesse porre in discussione con lui e gli venissero esposte tutte le nostre argomentazioni.»
9.5. L’amante canta le lodi dell’amata
È forse l’aspetto più stridente; è assai raro che ci sia qualche riferimento a canti d’amore dei cavalieri-amanti. troppo sono occupati nelle loro vicende di guerra e seduzione. Uno dei pochi esempi che si possono ricordare è quello di Tristano, al quale viene attribuita un’abilità di arpista e compositore di lais nella Chevrefeuille di Marie de France. Neanche sembra che nelle corti rappresentate in tutta quella ricca tradizione ci siano molte occasioni di sentir cantare o recitare poesie o raccontare storie con intento letterario, per quanto Chrétien (nel Cligès) sostenga che le virtù della letteratura siano ormai patrimonio della Francia, dopo esserlo state della Grecia e di Roma.
9.6. L’amore è un’esperienza di natura intellettuale, con qualche venatura religiosa
Anche questo aspetto è completamente diverso; non che nelle vicende dei romanzi manchi un aspetto più o meno religioso (la vicenda del Santo Graal ne è la manifestazione più nota: di difficile interpretazione peraltro, perché non si capisce sempre bene se si tratti di un mito al servizio della religione cristiana, oppure se la religione cristiana vi venga piegata a sostenere qualcosa di diverso, come travestito). I due ambiti vengono tenuti nettamente distinti, autonomi; ognuno ha le sue specificità, il suo linguaggio, tanto che possono persino coesistere (si veda la scena della seduzione in chiesa di Flamenca), e non vi è bisogno di ricorrere, per l’amore, a discorsi che gli forniscano un qualche status intellettuale.
In molti casi troviamo racconti di vicende quotidiane, simili agli intrecci dei romanzi più moderni. Capita che vi siano completamente espunti gli aspetti religiosi e che si insista su questioni che fornirebbero occasione all’editore moderno per un serial televisivo di successo.
Dal Lai de Graelent, vv. 195-330
[Graelent, cavaliere dai sani principi cortesi anche in amore, rifiuta
le profferte amorose della regina, che gli fa dispetti, come non fargli pagare
il soldo. Il cavaliere, ridotto al lumicino, scappa fuori città.]
C’era un verziere, fuori città, una foresta grande e folta, in mezzo alla quale scorreva un fiume. Andò per di là Graelent, pensieroso, triste e dolente. Quasi non era entrato nel bosco, e in un folto denso di rami vide una cerbiatta candida tutta, più che non fosse neve su frasca. Davanti a lui saltò la cerbiatta, lo chiamò, puntò su di lui; né mai lo raggiunse. E invece sì da presso lo segue, tanto che lo porta verso una piaggia, verso una landa che di fonte zampilla, dove l’acqua sprizzava e chiara e bella. Dentro si bagnava una pulzella; la servivano due damigelle, stavan sulla riva della fontana. Le vesti di cui s’era spogliata eran posate su di un cespuglio. Graelent la guardò e vide che stava tutta nuda nel fonte. Va verso lei a briglia sciolta, nulla più della cerva gli cale, ché ha visto la pulzella snella e sottile, bianca di freschi colori, nobile, con occhi ridenti e bella fronte: né di più belle al mondo ce n’è. E nell’acqua non la volle toccare, lascia che prenda il bagno tranquilla. Le sue vesti andò a prendere, pensa che vuol certo tenersele. Accorrono le damigelle di lei, tutte paurose di quel cavaliere. La signora, arrabbiata, l’apostrofa: «Graelent, lascia lì le mie vesti! Non potrai essere mai scusato se te le porti via, lasciandomi nuda così, sarebbe una voglia smodata. Almeno ridammi la camicia, il mantello te lo puoi tenere, ne guadagnerai dei denari, perché esso è buono.»
Graelent risponde ridendo: «Mica sono ragazzo di mercante né di borghese, che vada a vendere mantelli; neanche valesse tre castelli, te lo porterei via! Venite fuori da quell’acqua, amica mia, prendetevi le vesti, vestitevi, prima di parlarmi.»
«Non voglio» diss’ella «uscire, perché potreste impadronirvi di me; non m’importa la vostra parola, la vostra scuola non è la mia.»
Egli risponde: «Va bene. Terrò le vostre vesti fino a che non sarete qui fuori.Bella, avete un corpo bellissimo.»
Quando ella vide che avrebbe atteso, e non le avrebbe reso le sue vesti, gli domanda che non le sia fatto del male.
Graelent la rassicura, le rende la camicia. Ella subito se ne esce, egli tiene il mantello davanti a sé, glielo butta e glielo restituisce. La prende per la mano sinistra, allontanandola dalle altre, la richiede d’amore, pregandola di essere la sua amica. Ella gli rispose: «Graelent, chiedi grande misfatto, non credo tu sia troppo saggio. Ti comporti da vero temerario, presto andrai a finire male; nessuna donna del mio lignaggio può aver a che fare con le tue genti.» Molto fiera la trova Graelent, e capisce bene che con le preghiere non arriverà a trarne piacere, ma non vuole partirsi così. Nel folto della foresta ha fatto ciò che gli è piaciuto. Quando ebbe fatto ciò che gli piaceva, le chiese per pietà assi dolcemente che non fosse troppo arrabbiata con lui, ma piuttosto generosa e ragionevole; se gli accorda il suo amore (druerie) egli farà di lei la sua amica, sarà leale e fedele nell’amore (bien l’amera), non l’abbandonerà mai.
La damigella ascoltò e comprese le parole di Graelent, e vide ch’egli era cortese e saggio, buon cavaliere, prode e generoso (larges) e capisce che, se egli se ne andrà di là, non le toccherà più un amico migliore. Gli accorda perciò il suo amore e lo bacia dolcemente. In modo cotale gli parla: «Graelent, mi avete sorpresa, vi amerò in verità, ma vi proibisco una cosa, di non dire mai parola del nostro amore. Vi regalerò con generosità denari, stoffe, oro ed argento. L’amore fra noi è buono assai. Giacerò con voi notte e giorno, mi vedrete andare e venire al vostro fianco, potrete ridere e parlare con me, ma non ci dev’essere nessuno dei vostri compagni che mi veda, né che sappia ch’io sia. Graelent, voi siete leale, prode e cortese, e bello assai; per voi sono venuta alla fonte, soffrirò grande pena per voi, conosco già quello che sarebbe capitato. Ma ora dovete essere assai prudente, fate attenzione a non vantarvi di niente, perché amo questi luoghi. Partite, dunque, è suonata nona, vi manderò il mio messaggero, che vi porterà la mia volontà.
Graelent prende congedo, l’abbraccia e la bacia...
[Lei gli fa avere ricchezze. Lui torna dal suo re. Un giorno dice al re
che c’è una donna più bella della regina. Il re decide che, se non la porta
entro un mese per fare il paragone, Graelent sarà messo a morte. Allo scadere
del tempo arrivano due donzelle, una splendida, più bella della regina. È
l’amica di Graelent. Il cavaliere è liberato e la segue, fin dentro un fiume
per cui si arriva al paese di lei, che si rivela per una fata.]
Cosa sia amore, appare chiaro in un passo della Tavola ritonda: Meliadus arriva alla fontana del Dragone,
... quivi dismontò e si riposa; e donò da bere al suo cavallo. E riposato ch’egli fue uno poco quivi, sì v’arrivò e una bella donzella; la quale dice allo re: «Sire Meliadus, Cristo nostro Sire vi si doni buona vita».
Lo re rispuose: «Dama, voi siate la ben venuta».
E quella dice: «Re Meliadus, io vi foe certo che se io credessi che voi foste tanto prode quanto altri vi tiene, io vi metterei alla più alta ventura e alla più nobile, che già mai niuno cavaliere traesse a fine».
E lo re dice: «Dama, io per me non sono prode; ma se a voi piace, io verrò con voi e, per vostro amore, sì faròe mio podere d’arme».
E la dama dice che molto le
piaceva. E allora lo re Meliadus se ne vae colla donzella; e tanto cavalcano
per uno picciolo sentiero, che a mezza notte furo arrivati a uno bello
castello, il qual era appellato
Qui Meliadus trova nell’amore il totale oblio di sé; per poter arrivare a questo esito ha però bisogno di un intervento magico, di dubbio valore morale. Questo dimenticare, questo creare un luogo artificioso isolato dal mondo sembra interessare diversi cavalieri (come pure il ricorso alla magia: es. il filtro magico in Tristano, all’efficacia del quale però certi poeti, come Thomas, credono ben poco).
L’amore diventa, a questo modo, per davvero un valore laico; a differenza che nella tradizione cortese meridionale e poi italiana, non ha nessun bisogno di mascherarsi da vicenda spirituale o prevalentemente spirituale: nessuno si nasconde che lo scopo degli amanti è trovare piacere e sostegno reciproco.
Con l’amore antico ci sono dunque delle convergenze. Altrettanto cospicue sono però le differenze:
- è scomparsa la nozione di disparità degli amanti, la dialettica servo-signore che appariva chiaramente p.es. in Ovidio; ora i due sono uguali, sullo stesso gradino, con diritti e doveri reciproci chiari e netti (paradossalmente, ciò si vede nel sostanziale diritto di adulterio assegnato anche alla donna); ci si potrebbe interrogare sull’origine di questa uguaglianza. Si può ricercarla o in un millennio di tradizione cristiana, oppure nella rielaborazione di usanze celtiche. Certo, essa pare rispondere a pratiche sociali in qualche misura concrete soprattutto per il Nord Europa; non è un caso che le fonti siano in lingua d’oil, mentre in lingua d’oc sono le teorie che pongono la donna su un piano superiore all’amante, nel tentativo di giustificarne l’irraggiungibilità e dunque l’estromissione dall’amore concreto e carnale; che, per fare un esempio marginale ma significativo, che nell’area francese e germanica troviamo diverse scrittrici, meno in quella occitanica, quasi nessuna in Italia e Spagna (l’unica poetessa italiana conosciuta per i primi tre secoli della nostra letteratura è una certa «Compiuta Donzella», di cui rimangono tre sonetti; essa è però in realtà un’anonima, della cui esistenza più d’uno ha dubitato, mentre altri hanno ritenuto si trattasse di un uomo).
- l’amore può condurre al matrimonio. Ciò era inconcepibile per Ovidio, non meno di quanto lo fosse per i provenzali, mentre Chrétien innalza, con Erec et Enide, un peana dell’amore coniugale; e il caso non è isolato, anzi, è abbastanza tipico che la storia si concluda con un matrimonio, oppure che il mancato matrimonio sia la fonte dei disastri successivi (cfr. le vicende di Tristano) oppure che la mancata fede all’amore coniugale porti a esiti nefasti (come nella vicenda della Castellana del Vergi oppure in quella di Guigliemo Rossiglione e Guiglielmo Guardastagno).
La forma d’amore che troviamo nei romanzi cavallereschi fornisce la base per la concezione di Boccaccio, come è emersa nella novella di Ghismonda. In quel testo vi sono però degli inserti cortesi evidenti, soprattutto nel tema della nobiltà che sarebbe propria di coloro che sono capaci di amare. In altre parole, quelle tradizioni non potevano essere dimenticate, poiché fornivano all’amore una giustificazione spirituale, che lo nobilita e che mandava del tutto ai tempi di Ovidio, né si nota granché nei poemi cavallereschi.