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Pleniluni e quarti di luna

Dame e cavalieri

Radici medievali della sensibilità moderna

ottobre 1997- aprile 1998

 

8 Versi d’amore

8.1 Guy d’Ussel

8.1.1 La canso:Estat aurai de chantar

8.1.2 Tenzone con Marie de Ventadorn

8.1.3 La pastorela

8.3 Thibaut de Champagne

8.3.1 “Sono come il liocorno”

8.3.2 “Una canzone voglio ancora”

8.3.3 Pastorella

8.4 Giacomo da Lentini

8.4.1 “Guiderdone aspetto avere”

8.4.2 “A l’aire claro ho visto piog[g]ia dare”

8.5 Castra Fiorentino

8.6 Johan Garcia de Guilhade

8.7 Pero Garcia Burgales

8.8 Don Denis

 

 

Cos’è stato il Medioevo?

Su questa domanda si stanno affaccendando gli storici da tre secoli a questa parte o quasi, e ne sta emergendo un’immagine complessa, variegata, frammentaria.

Cos’è il Medioevo? Potrei rispondere una mitologia: quella, per capire che produce il castello della Bella Addormentata di Disneyland. I contenuti di questa mitologia si sono cristallizzati nei secoli, e formano un substrato complesso e importante della nostra cultura; a volte si presentano con la loro connotazione “vera”, a volte sono semplicemente la radice di fenomeni letterari e culturali apparentemente autonomi: il mondo fantasy dei romanzi di Tolkien, e tutto il repertorio di giochi di ruolo elettronici o cartacei che ne derivano, sono un prodotto di questa mitologia (è noto che Tolkien era un medievalista, e certo ha tratto molto della sua personale mitologia da frequentazioni letterarie).

Chi ha fondato questa mitologia?

La risposta è abbastanza semplice: gli stessi uomini del medioevo, quei letterati che, allo spirare di esso, hanno costruito un mondo ideale, in buona parte smentito dalla ricerca storica ma che a lungo è stato ritenuto vero, fatto di castelli, dame, draghi, cavalieri, maghi, amori e odi, fedeltà e tradimenti, palafreni e destrieri, preti e principi, principesse caste e vedove dissolute. Al tempo in cui Dante Alighieri scriveva la Commedia questo complesso letterario era perfettamente delineato, nel suo complesso, tant’è vero che il divino Poeta, nel XXVI del Purgatorio (v. 118), ha l’agio di definirlo in modo esauriente: è un patrimonio formato da «versi d’amore e prose di romanzi», scritto nei diversi volgari nazionali, con soggetti precisi, l’amore, appunto, e la vita libera e combattente dei cavalieri erranti, la quale pure s’intreccia, e strettamente, alle tematiche d’amore.

Vi è chi ha osservato che l’amore è un’invenzione dell’XI secolo. Con questo intendeva dire che le strutture del discorso amoroso quale è compreso e praticato fino a questo epilogo di millennio furono messe a punto in quel giro d’anni, in modo particolare nelle corti signorili della Provenza e del Limosino. È comunque certo che alcuni temi allora elaborati sono poi circolati a lungo, in tut­ta Europa.

Per individuarli, ci riferiremo intanto ad alcune esperienze liriche, nelle diverse tradizioni volgari.

 

8.1 Guy d’Ussel

Cominciamo con un poeta di Provenza, non della prima generazione, né fra i più noti: Guy d’Ussel. Una sua vida dice che «Gui d’Ussel fu dal Limosino, lui, i suoi fratelli e il suo cugino Elia erano signori d’Ussel, che è un castello ricco. E i suoi due fratelli si chiamavano uno ser Eble, l’altro Ser Pietro, e il cugino si chiamava ser Elia. E tutti e quattro erano trovatori.» Poi però prevalse un’ispirazione religiosa: «Ser Gui era canonico di Brioude e di Montferrand, ciò che non gli impedì di essere a lungo amante di Madama Malgarita d’Aubuisson e della contessa di Montferrand, della quale fece molte buone canzoni. Ma il legato deI papa gli fece giurare che non avrebbe fatto più canzoni.» Queste notizie sono interessanti perché mostrano (non è il solo caso, basti pensare a Folchetto di Marsiglia) la vicinanza della poesia amorosa con il mondo ecclesiastico; il che basta a spiegare molte contaminazioni.

Nel canzoniere di Gui d’Ussel, che morì verso il 1255, sono presenti diversi generi della poesia occitanica, ormai sufficientemente cristallizzati da essere quasi un luogo comune.

 

8.1.1 La canso: Estat aurai de chantar

Mi sarei trattenuto dal cantare

per mancanza di causa,

non ho potuto trovarne

per farne buona canzone.

Ma ho voglia ora di provare

a far buoni versi su musica gaia

          perché e cosa buona

saper lodare in poche parole

colei cui si è obbedienti.

 

Posso certo lodarla

colei che ha il mio cuore nel suo

ché non puoi trovarne di più nobili

di viso o di portamento

nessuna più ch’ella ci fa

né procura gioia sì grande

          - proprio non si può -

di diletto e letizia;

sa scegliere i migliori d’ogni bene.

 

Quando guardo il suo caro dolce corpo.

e so che non mi toccherà

il suo amore, né a me né a eguale mio,

tant’è di condizione alta e gentile,

- né ce n’è un’altra che tanto mi piaccia –

questa volontà mi opprime

        - perché non ho

tanto ardire da osare dirle

di che cuore io l’ami e la voglia.

 

Nobile signora, con un dolce sguardo

con cui mi colpì il vostro occhio bandito

siete venuta a rubare il mio cuore

né mai ho mancato verso di voi:

e poiché voi tenete là il mio cuore

non penso che l’ucciderete mai:

          so bene però

che se lo voleste uccidere

non può morire di più nobil martirio.

 

Come colui che si sforza ad agire

quando sente avvicinar la morte 

o quando vuole arndar pellegrino 

dove ha da fare orazione, 

io mi do a lei per sempre 

e tutti i miei amici con me,

            se mai sarà

che colei che tanto desidero

voglia alleviare un po’ il mio soffrire.

 

Non mi piace che il signore Eremita

sia preso di signora Emozione

           e mi pare più

           non poter gioire

di quella che spesso mi fa piangere e ridere.

 

Nella canzone appaiono press’a poco tutti gli elementi essenziali della fin’amor, o amore cortese: quella concezione che costituisce il supporto “teorico” della poesia d’amore medievale e non solo. Per ordine:

- l’amore è prodotto dallo sguardo: solamente quando si vede un oggetto amabile può effettivamente nascere l’amore; a rigore, sostiene il massimo teorico medievale della materia, Andrea Cappellano, il cieco non può nutrire amore;

- fra amante e amata vi è disparità; più precisamente l’amante è inadeguato, inferiore; il desiderio dell’amante è perciò desiderio di un innalzamento sociale attraverso di lei (qualcuno ha spiegato questo fenomeno con una sorta di mimesi del sistema feudale: l’amante si dava all’amata come il cavaliere al suo signore);

- l’inferiorità dell’amante produce un desiderio che non può avere una speranza corrispondente: la fin’amor è per definizione disperata;

- la “speranza” unica che può avere l’amante è di darsi all’amata: una dedizione di tipo servile, che implica una sorta tu annullamento della volontà;

- questa dedizione porta all’assoluta obbedienza all’oggetto amato, nella quale l’amante trova una forma di piacere; si può dire che l’amante coltivi una specie di vocazione al martirio, che è sicuramente di provenienza religiosa e segnatamente cristiana;

- all’amante resta comunque un privilegio: cantare le lodi dell’amata, riconoscere nella poesia l’unicità eccelsa dell’oggetto amato;

- da questi elementi nasce la gioia (il termine centrale nel vocabolario cortese, ha un significato molto esteso e una grande quantità di risonanze): il cavaliere la ottiene quando ha fatto il proprio dovere; l’amore è uno dei suoi doveri sociali.

Questo è l’orizzonte teorico dell’amore cortese; non si può dire che sia, come spesso si è detto, l’unica forma d’amore del Medioevo; è però la forma che ha attraversato i secoli per arrivare fino a noi.

 

8.1.2 Tenzone con Marie de Ventadorn

[Marie]

Guy d’Ussel, ho pena per voi,

perché avete smesso di cantare;

e poiché vorrei che riprendeste

perché ne sapete tantissime;

voglio che mi diciate se deve far uguale

la donna che, sincera, prega il suo amante,

com’egli fa con lei. in ciò che è amore,

secondo le regole proprie dì chi ama.

 

[Guy]

Signora Donna Maria, pensavo

di abbandonare tenzoni e tutti canti;

ma non può essere ora

che non canti al vostro volere;

e in breve rispondo che la donna

debba fare pel drudo suo

com’egli per lei, senza riguardo alla lor condizione:

non dev’esserci maggiore tra due amici.

 

[Marie]

Guido, tutto ciò che desidera

l’amante chieder deve per la pietà

e la donna concedere lo può,

e può a sua volta pregarlo;

l’amante deve pregare e accordare

come per amica e per donna, uguale,

e la donna deve onorare il suo amante

come amico, non come signore.

 

[Guy]

Donna, si dice tra di noi

che, poiché la donna vuol amare,

deve ugualmente onorare il suo amante,

perché sono ugualmente innamorati;

e se l’ama più perfettamente,

deve farlo vedere facendo e parlando,

e se ha cuore falso o imbroglione,

deve capire la sua follia col bel sembiante.

 

[Marie]

Guy d’Ussel, gente di tal fatta

non sono gli amanti esordienti;

anzi, quando vanno a supplicare, ognuno dice,

inginocchiato e con le mani giunte:

“Donna, vogliate che sinceramente vi serva,

come vostro uomo” e lei così li prende.

Così io lo giudico come traditore

colui che da servitore vuol rendersi eguale.

 

(Guy] Donna, è vergognosa querela

da parte di donna, sostenere

che non può tener per eguale

colui col quale, di due cuori, ne ha fatto uno solo;

o voi direte, e non sarà bello da parte vostra,

che l’amante debba più rettamente amare,

o direte che fra loro son pari;

perché l’amante nulla deve se non per amore.

 

È caratteristico trovare in componimenti dello stesso autore delle forme diverse d’amore: in questo sì trova che, mentre nella versione fin’amor i ruoli erano chiari (cavaliere amante, donna amata), qui si ammette che sia la donna ad amare (Boccaccio si ricorderà di queste idee, un secolo dopo); inoltre questo genere d’amore presuppone uno stato di uguaglianza tra gli amanti, rendendosi perciò simile a un rapporto più d’amicizia che d’amore. Fra l’amore delle poesie e quello della pratica si istituisce la tensione che esiste fra ideale e realtà, tant’è vero che il desiderio, istituzionalmente insoddisfatto, della fin’amor, qui dà luogo a uno scambio, anzi: l’amore deve essere ricambiato, come ricorderà la Francesca di Dante (Inf. V, 103):

Amor ch’a nullo amato amar perdona...

La prospettiva cambia radicalmente, da concezione del mondo l’amore diventa gioco galante che mima il sentimento; la fin’amor svela la sua natura di ideologia: l’amante si finge inferiore, recita una parte ben definita di questa commedia, e l’amata sa che non deve prendere troppo sul serio i suoi turbamenti e i suoi tormenti; d’altro canto, l’amante si aspetta che l’amore, per quanto abbia come attributo l’assenza di speranza, permetta un esito ben concreto.

Resta un problema: quale ruolo ha la fin’amor per davvero? ha una sua autonomia e validità? Cercheremo più avanti di rispondere a questa domanda cruciale.

 

8.1.3 La pastorela

L’altrieri cavalcavo

sul mio palafreno,

tempo chiaro e sereno,

vidi davanti a me

una pastorella

di color fresca e novella

e cantava dolcemente,

e diceva piangente

«Ahìmè! vive male chi non ha gioia!»

 

Là dove cantava

subito mi diressi,

lei si alzò

per grazia di sé,

rapida venne

verso di me,

cosa certo bella e buona.

Rapido scesi anch’io,

per darle l’amore

che meritava la sua bella accoglienza.

 

Fanciulla di sì bell’aria,

le dissi, non aver paura,

ti prego di dirmi il vero,

se ne hai desiderio,

quale canzone fosse

quella che dicevi or ora,

quando sono arrivato;

perché non ho mai sentito, affè mia,

una pastora sì ben cantare.

 

«Signore, non è molto

ch’ero solita avere

a mio pieno volere

quello che mi fa soffrire

e ora non l’ho più

e mi dimentica e si parte,

per un’altra, da me.

Per questo piango, e inoltre

per dimenticare il dolore che mi spegne».

 

«Ragazza, non mentire,

ti assicuro

che piaga cotale

come ha fatto a te

quello che sì t’oblia

mi ha fatto una sleale

che tanto amavo.

Ora mi scorda, dannazione,

per un altro, che vorrei aver ucciso.

 

- «Signore, consolazione

troverete dallo sgarbo

che tanto odioso vi ha fatto

questa malvagia frivola;

sono a vostra disposizione

perché vi amerò per sempre,

se voi lo vorrete.

Cambierò lo sconforto

che abbiamo avuto in gioia e sollazzi.

 

- «Dolce cara creatura,

se acconsenti

tosto è fatta. la mia volontà.

Mi fai venire a buon porto,

gioioso, al riparo dì ogni pericolo.»

 

- «Signore, sinceramente,

il vostro amore mi ha

salvata e guarita, tanto

che non mi ricordo alcun male

tanto gentilmente m’avete strappato ogni afflizione.»

 

Nella pastorela, che è un genere diffusissimo, si parla di altre cose rispetto alla fin’amor: di un desiderio decisamente sensuale; con gradazioni diverse: se qui, tutto sommato esso si esprime in modo tenero e “romantico”, in altri testi troviamo opzioni più pesanti e brutali. Anche in questo caso registriamo una dissimetria: il cavaliere ama una sua inferiore, una che gli è per definizione serva e di cui può, lei volente o nolente, godere. In questo testo, infatti, il nostro cavaliere pensa di essere ricambiato, per quanto la ragazza appaia, almeno all’inizio, restia.

Diventa abbastanza chiaro, a questo punto, che in Guy (e come in lui in questi poeti) coesistono tre versioni della dottrina d’amore: la fin’amor, in cui si definisce il rapporto fra un amante e un’amata a lui superiore; un gioco galante “cortese”, in cui i due amanti hanno lo stesso livello sociale; un gioco piuttosto pesante, in cui l’amante è superiore all’amata e ha il diritto di pretenderne l’acquiescenza. Non si comprende adeguatamente l’amore medievale né, probabilmente, quello moderno, se non si tiene conto di questa tripartizione.

 

8.3 Thibaut de Champagne

I medesimi temi vengono affrontati nella letteratura cortese in lingua d’oil, che fiorisce subito dopo quella provenzale. Fra i molti lirici di questa stagione, ai nostri finì equivalenti ci riferiremo a Thibaut di Champagne, il più famoso dei trovieri, noto anche come Thibaut le Chansonnier o come il Re di Navarra. Egli era un nobile conte (quarto di quel nome) di Champagne e di Brie, figlio di Bianca, erede di  Sancio VI re di Navarra; alla morte di costui divenne sovrano del piccolo dominio pirenaico. Gli è attribuito un amore appassionato con Bianca di Castiglia, la madre di Luigi IX il Santo, ma si tratta di una leggenda: Thibaut non andò mai oltre un’ammirazione rispettosa venata di una sorta di tenerezza che si sarebbe potuta dire figliale. Si narra anche di lui che «poiché i suoi pensieri profondi lo rendevano incline alla malinconia, gli fu consigliato, da certi saggi, che studiasse i bei suoni della ribeca (vieille) e i dolci piacevoli canti. Fra lui e Gace Brulé (l’altro grande troviero) ci fu gara per le canzoni più belle e dilettevoli e melodiose che mai siano state sentite né per quanto riguarda il canto né per quanto riguarda la ribeca. Queste canzoni le fece scrivere nella sala di Provins e in quella di Troyes, e sono dette le canzoni del Re di Navarra.» Di lui si sa che prese parte alla crociata del 1239 e che tornò in Francia l’anno successivo, per morire nel 1253.

 

8.3.1 Sono come il liocorno

Sono come il liocorno,

che s’incanta mentre guarda,

se contempla la pulzella;

così contento della sua disgrazia

svenuto cade sul suo grembo;

l’uccidono allora a tradimento.

E io egualmente son stato ucciso

da Amore e Madonna, davvero:

essi hanno il mio cuore, né posso riaverlo.

 

Donna, quando vi fui dinanzi,

la prima volta che vi vidi,

trasalì allora il mio cuore, così forte

che rimase con voi, quand’io partii.

Quando fui portato senza riscatto

prigioniero nella dolce cella

i cui pilastri sono di Desiderio,

le porte di Belvedere

e le catene di Buona Speranza.

 

Amore ha la chiave della cella,

e vi ha messo tre portinai:

Belsembiante è il nome del primo;

a Bellezza ha dato il comando;

ha messo alla porta d’entrata Pericolo,

schifoso, fellone, villano, putente,

il   quale molto è cattivo e malvagio.

Svelti sono ed arditi quei tre;

ci vuoi nulla che arrestino un uomo.

 

Chi potrebbe soffrire i gran torti

e gli assalti di quei guardiani?

Orlando giammai né Oliviero

vinsero in scontri sì duri;

vinsero combattendo,

ma quelli là, li si batte umiliandosi!

Patimento è il portabandiera.

In questo scontro di cui vo dicendo

solo soccorso è chieder pietà.

 

Donna, nient’altro non temo

che di cessare, ahimé, d’amarvi.

Ho tanto imparato a sopportare

che sono vostro per abitudine;

anche se molto vi desse fastidio,

non posso allontanarmi tanto

che non mi sovvenga il ricordo

e che il mio cuore non sia sempre

dentro la cella e insieme con me.

 

Signora, dacché non vi potrei ingannare,

giusto sarebbe di farmi la grazia

di sopportare un fardello sì grave.

 

Questa splendida canzone usa una formula retorica che avrà per tutto il Medioevo una fortuna straordinaria: l’allegoria. Una grande allegoria d’amore fu per esempio il Roman de la rose, ma se ne possono annoverare altre, ad esempio, nel ‘300, il prosimetro di Renato d’Angiò Livre de coeur d’amour épris; un’allegoria è anche il massimo  libro del Medioevo, la Commedia di Dante Alighieri, il quale è, fra l’altro, probabile autore di un adattamento toscano del Roman de la rose, noto col titolo de Il Fiore.

L’immagine portante dell’allegoria è che l’amante è prigioniero, e molte cure vengono prodigate da Thibaut per descrivere la prigione che è l’amore, popolata di personificazioni (la Bellezza , primo carceriere, e gli altri due secondini Belsembiante e Pericolo); gli elementi dell’edificio sono anch’essi allegorici (Desiderio fornisce i pilastri, perché esso è la fondazione dell’amore; Belvedere è la porta e in effetti amore nasce dallo sguardo, se si posa sulla bellezza; le catene sono di Buona Speranza, perché è essa che tiene legato l’amante: se mancasse egli cesserebbe, disperato, di amare. Non manca un bel gioco si sim­metria numerologica (tre personaggi, tre elementi ambientali, il tutto sotto la guida di Amore: tre più tre più uno uguale sette, numeri rilevanti sul piano teologico; e neppure è assente un richiamo a un’altra tradizione, quella delle favole cavalleresche di ambiente carolingio, con la citazione dì Orlando e Oliviero.

Nucleo tematico della canzone è l’idea che in questa guerra si possa vincere solo essendo sconfitti: tema caro alla dottrina cristiana (il cristiano vince la vita eterna nei momento in cui si umilia, sconfitto, di fronte a Dio). Soprattutto, il tema cristologico (Amante = Gesù) è impiegato con dovizia di mezzi nella prima strofa: l’unicorno è tradizionalmente immagine di Gesù, perché è selvaggio e potente, ma si lascia ammansire solo da una vergine (Gesù in una vergine s’incarnò) e in questo caso si lascia facilmente fare prigioniero e mettere a morte. È, questo testo, uno dei più espliciti nell’unire la tradizione religiosa a quella erotica.

 

8.3.2 Una canzone voglio ancora

Una canzone voglio ancora

fare per riconfortarmi;

per colei per cui mi dolgo

alzo un canto novello.

E desidero cantare

poiché, se non canto, gli occhi

spesso tornano a piangere.

 

Pura e schietta e senza orgoglio

la mia donna io credevo.

Bell’accoglienza mi fece

solo per farmi vieppiù patire.

Son per lei i pensier miei

tanto che, nel sonno notturno,

il mio cuor chiede mercè.

 

Dormendo e vegliando,

il mio cuor tutto è per lei,

e le impetra dolcemente,

come a donna sua, pietà.

Tanto ho fede in sua mercè

che, se ci penso intensamente,

tutto scordo per la gioia.

 

Spesso ha insieme gioia e duolo

chi il mio male istesso prova.

Ho il cuor che piange, ed io canto;

così m hanno tradito gli occhi.

Amore, come rapido afferrate!

ma quali ricompense date!

Nondimeno per me vi prego.

 

Ohimé! se non si ricorda

di me, senza fallo sarà morto.

Se sapesse dove venga il mio male,

bene dovrebbe ricordarsene.

Questo male mi farà morire,

se Madonna non ne sostiene

una parte per il suo piacere.

 

Canzone, dille senza mentire

che mi ha preso il cuore con lo sguardo

che ha diretto su di me al suo partire.

 

Il tema, che abbiamo già visto, è che la poesia può dare sollievo dal male d’amore; qui però non è, a far male, un desiderio per definizione irrealizzabile; piuttosto la disillusione: l’amata non era degna d’amore (in questo ci sono delle somiglianze con alcune pastorelle). La canzone è tutta giocata su questo equivoco: la donna ha dato motivi di dubbio all’amante, tuttavia egli continua a sperare, non si sa mai. Non è possibile risanare la ferita che ella gli ha fatto con il suo sguardo, e dunque l’amante è costretto inevitabilmente a soffrire e sperare. Solo il canto riuscirà a calmarne, in parte, la pena.

 

8.3.3 Pastorella

L’altro giorno andavo errando,

          solo, senza compagno,

sul palafreno mio, pensando

          di fare una canzone,

quando udii, né saprei come,

          da presso un boschetto,

la voce della fanciulla più bella,

          che un uomo mai abbia visto;

non era così bimba da non avere

quindici anni e mezzo,

e nessuno ne vide mai

          di sì nobile fatta.

 

Verso di lei subito vado,

          e mi metto a discorrere:

«Bella, ditemi quale,

         per Dio, sia il vostro nome!»

Salta subito lei

         e si prende il bastone:

«Se venite più avanti

         mi metto a gridare.

Signore, andate via di qua!

Di uno come voi non mi curo,

ché l’ho scelto più bello,

e si chiama Bertuccio.»

Come la vidi agitarsi

         con tanta durezza

e non volere guardarmi

         né fare altro gesto,

cominciai allora a pensare

        in quale modo mai

lei mi potesse amare

        e cambiar la sua voglia.

Mi sedetti per terra, lì presso.

Quanto più le vedevo il chiaro viso,

tanto più è preso il mio cuore,

        e raddoppia il mio desiderio.

 

Allora iniziai a chiederle

        con molta dolcezza,

che si degnasse guardarmi

        e farmi altri cenni.

Ella comincia a piangere,

        e dice così:

«Non voglio ascoltar più,

        non so cosa chiedete.»

La trassi verso di me, le dissi:

«Mia bella, grazia per Dio!»

Rise, e rispose:

        «Smettetela, c’è gente!»

 

La feci salire allora

        davanti a me

e dritto dritto me ne andai

        in un boschetto verdeggiante.

Guardai attraverso il prato,

        s’udivano gridare

due pastori in mezzo al grano,

        che venivano urlando,

facendo un gran frastuono.

Certo feci più di quel che dissi.

La lasciai e me ne andai:

        non mi curo di gente cotale.

 

L’inizio di questa pastorella. mostra come meglio non si potrebbe la compresenza di diverse specie d’amore nello stesso amante e nello stesso tempo: mentre Thibaut sta pensando a comporre canzoni (a cantare cioè in termini elevati di fin’amor, al modo che abbiamo visto per esempio nella canzone del liocorno), viene attratto, in modo molto più terreno e banale, da una fanciulla che, come sì e visto, deve essere disponibile per la sua inferiorità sociale ed è desiderabile per la sua bellezza straordinaria e la sua età. A questo inizio di desiderio segue un contrasto dall’esito prevedibile: la ragazza protesta di avere un fidanzato, ma il cavaliere se la carica sul cavallo e succede quel che deve succedere, nonostante arrivino certi pastori che vorrebbero intervenire. Finito tutto, la ragazza viene scaricata, con buona pace del ruolo elevato, quasi divino che dovrebbe essere assegnato alla donna nella fin’amor. Non c’è forse uno componimento più cinico di questo, a smascherare la natura ideologica di ciò che viene illustrato come amore.

 

8.4 Giacomo da Lentini

Giacomo da Lentini (1210 ca. - 1260 ca.) è stato il primo grande poeta lirico italiano, colui a cui si deve la codificazione di alcune forme metriche, la canzone e il sonetto fra l’altro, che poi furono impiegate per secoli. Fu attivo, come notaio, nell’entourage di Federico II. Le storie della letteratura gli ascrivono profondità di analisi psicologica e grande rigore compositivo.

 

8.4.1 Guiderdone aspetto avere

Guiderdone aspetto avere

da voi, donna, cui servire

non m’è noia.

Ancor che mi siate altera,

sempre spero avere intera

d’amor gioia.

Non vivo in disperanza,

ancor che mi diffidi

la vostra disdegnanza:

ca spesse volte vidi, - ed è provato,

omo di poco affare

pervenire in gran loco;

se lo sape avanzare

moltiplicar lo poco - c’ha ‘quistato.

 

In disperanza no mi getto,

ch’io medesmo m’imprometto

d’aver bene.

Di bon cor’ è la leanza

ch’i’ vi porto, e la speranza

mi mantene.

Però no mi scoraggio

d’Amor che m’ha distretto:

sì com’omo salvaggio

faraggio, com’è detto - ch’ello face:

per lo reo tempo ride,

sperando che poi pèra

lo laido aire che vede;

da donna troppo fera - aspetto pace.

 

S’io pur ispero in allegranza,

fina donna, pïetanza

in voi si mova.

Fina donna, no mi siate

fera, poi tanta bieltate

in voi si trova:

ca donna c’ha bellezze

ed è senza pietade,

com’omo [è] c’ha ricchezze

ed usa scarsitade - di ciò c’ave;

se non è bene apreso,

nodruto ed insegnato,

da ogn’omo ‘ndè ripreso,

orruto e dispresiato - e posto a grave.

 

Fina donna, ch’eo non perisca:

s’eo vi prego, no vi ‘ncresca

mia preghiera.

La bellezza che ‘n voi pare

mi distringe, e lo sguardare

de la cera.

La figura piacente

lo core mi diranca:

quando voi tegno mente,

lo spirito mi manca - e torna in ghiaccio.

Né-mica mi spaventa

l’amoroso volere

di ciò che m’atalenta.

ch’eo no lo posso avere: - und’eo mi sfaccio.

 

PARAFRASI

  1. Donna, mi aspetto di avere da voi, alla quale presto un servizio (è il servizio d’amore) che non mi pesa, una ricompensa. Nonostante siate altera, affettate cioè nei miei confronti una superiorità eccessiva e ingiustificata, continuo a sperare di ottenere da voi quella gioia che proviene dall’amore; per questo non sono disperato, per quanto il vostro disdegno (termine che sarà a lungo tecnico nelle poesie e trattazioni erotiche: «indifferenza») mi impedisca di confidare troppo nella realizzazione del mio desiderio. Se continuo a sperare, è perché ho visto molte volte, me l’ha provato insomma l’esperienza, che anche un uomo di scarsa nobiltà e ricchezza (poco affare) può fare carriera e arrivare a un grado molto alto, purché sappia, per proseguire la sua strada, aumentare i pochi averi che aveva acquistato.

  2. Non voglio cadere nella disperazione, anzi, mi riprometto di aver bene. La lealtà che mi lega a voi è coraggiosa, e mantiene viva la speranza (c’è bisogno di coraggio per sperare!) Né mi scoraggio perché amore mi ha preso prigioniero; farò come l’uomo selvatico, come dicono che egli faccia, che ride quando fa maltempo, sperando a questo modo di esorcizzare il maltempo, facendogli paura: con questo coraggio, spero di ottenere pietà dalla mia donna che troppo è fera, selvatica e dunque inaccessibile nei miei confronti.

  3. Dunque, mia donna amata, se spero e sono felice di questo mio amore fatto solo di speranza, dovete avere pietà di me (lo diceva anche Guy d’Ussel). Donna nobile e fiera, non siate disdegnosa nei miei confronti: avete tanta bellezza; una donna bella, ma non pietosa, è come un ricco che viva da povero, e non goda ciò che possiede. Se qualcuno non gli insegna la «larghezza» della tradizione cortese, sarà rimproverato, aborrito e disprezzato, ognuno lo riterrà molesto.

  4. Donna nobile e bella, non lasciatemi morire. Non vi sia fastidiosa la mia preghiera, se io prego. Mi hanno fatto prigioniero la vostra bellezza e gli occhi del vostro viso (lo sguardo che innamora, centrale nella fin’amor, è particolarmente caro a Giacomo). Il bel viso di Madonna mi strappa il cuore: quando mi ricordo di voi, mi manca lo spirito, quasi svenissi o fossi morto, e il cuore diventa freddo come ghiaccio. Il fatto che io non possa ottenere ciò che desidero non porta per niente alla conseguenza che io abbandoni il mio desiderio amoroso: il mio logorarmi, il mio sfiorire deriva proprio dalla tensione fra l’insuccesso amoroso e la persistenza del desiderio.

Come si vede, il senso generale della canzone è quello, tipicamente cortese, della sofferenza provocata dall’amore; essa non deve distrarre l’amante dalla speranza; egli deve restare fedele e leale, e in questo sta la ricompensa che gli porta la gioia, una ricompensa che scende dritta dritta dalla sofferenza.

8.4.2  A l’aire claro ho visto piog[g]ia dare

 

A l’aire claro ho visto piog[g]ia dare,

ed a lo scuro rendere clarore;

e foco arzente ghiaccia diventare,

e fredda neve rendere calore;

 

e dolze cose molto amareare,

e de l’amare rendere dolzore;

e dui guerrieri in fina pace stare,

e ‘ntra dui amici nascereci errore.

 

Ed ho vista d’Amore cosa più forte:

ch’era feruto e sanòmi ferendo;

lo foco donde ardea stutò con foco.

 

La vita che mi dè fue la mia morte;

lo foco che mi stinse, ora ne ‘ncendo;

ché sì mi trasse Amor, non trovo loco.

 

PARAFRASI

Ho visto talvolta che dal cielo sereno è caduta la pioggia, e che in un giorno luminoso s’è fatta poi luce; del fuoco ardente ho visto, che poi si è fatto ghiaccio, e la neve gelata far caldo;

ho visto cose dolci che si sono trasformate in amaritudine, e altre, che invece erano amare, produrre della dolcezza; ho visto due guerrieri disporsi alla pace fra di loro, e nascere invece discordia fra due amici.

Per quanto riguarda l’amore, ho visto una cosa ancora più incredibile, che mi guarì colpendomi, quando io stavo male perché ero ferito; e mi spense con il fuoco (l’amore dell’amata riamante) il fuoco di cui bruciavo.

La vita che mi diede si trasformò nella mia morte; ora brucio del medesimo fuoco che mi spense; non riesco a tranquillizzarmi, tanto Amore mi ha trascinato.

(Riflessione sulla sofferenza procurata dall’amore, tale anche se l’amore stesso è ricambiato. Siamo perciò nel regno dell’incertezza.)

 

8.5 Castra Fiorentino

 

    Una fermana iscoppai da Cascioli:

cetto cetto sa gia in grand’aina

e cocino portava in pignoli

saïmato di buona saina.

Disse: «A te dare’ rossi trec[c]ioli

e operata cinta samartina

    se comeco ti dài ne la cab[b]a;

se mi viva, mai e boni scarponi».

«Soca i è, mal [lo] fai [l’om] che cab[b]a

la fantilla di Cencio Guidoni.

 

    K’ad onto meo me l’ài comannato,

ca là i’ le ne vada a le rote,

i[n] qual so’, co lo vitto ferato

a li scotitori, che non me’ n cote,

e con un truffo di vin misticato,

e non mi scordassero le gote

    e li scat[t]oni per ben minestrare

la farfiata de lo bono farfione.

Leva ‘nt’esso, non m’avicinare,

ou tu semplo, milenso, mamone!»

 

    Ed io tut[t]o mi fui spaventato

per timiccio, che non asatanai.

Quando la fermana tansi ‘n costato,

quella mi diede e disse: «Ai!

O tu cret[t]o, dogliuto, crepato,

per lo volto di Dio, mal lo fai,

    che di me non puoi aver pur una cica,

se [già] non mi prend[ess]i a noscella.

Escion[n]a, non gire per la spica,

sì ti veio arlucare la mascella!»

 

    «[O] fermana, se mi t’aconsenchi,

duròti panari di profici

e morici per fare bianchi denchi:

tu∙lli à tôrte, se quisso no ‘rdici.

Se Dio mi lasci passare a lo Clenchi,

giungeròtti colori in tralici».

    «E io più non ti faccio rubusto,

poi cotanto m’ài [a]sucotata:

vienci ancoi, né sia Pirino rusto,

ed adoc[c]hia non sia stimulata».

 

    A bor[r]ito ne gìo a l’ater[r]ato,

ch’era alvato senza follena;

lo battisacco trovai be∙llavato,

e da capo mi pose la scena;

e tut[t]o quanto mi foi consolato,

ca sopra mi git[t]ò buona lena:

    e conesso mi fui apat[t]ovito

e unqua me’ non vi’ [quando] altr’ei

«Mai [lo] fai [tu] com’omo iscionito:

be’ mi pare che tu mastro èi».

 

La canzone attribuita a un non meglio noto Castra Fiorentino è stata scritta in area probabilmente toscana ma con venature forse caricaturali umbro-marchigiane, poco dopo la metà del Duecento; deve la sua notorietà a una citazione dantesca (De vulgari eloquentia), oltre che a un’indiscutibile verve. Offre però diverse difficoltà interpretative, per l’uso di una lingua molto prossima ad idiomi dialettali, con un lessico di non sempre facile comprensibilità.

 

PARAFRASI

  1. Dalle parti di Cascioli (toponimo probabilmente toscano, altrimenti ignoto), incontrai una donna che veniva da Fermo nelle Marche; se ne andava silenziosa e in gran fretta e portava del cibo dentro delle pignatte, condito con del buon lardo. Dissi: «Ti regalerei dei bei nastri e dei panni ricamati, se vieni a divertirti con me nella stradina; e, sperando che io possa aver vita, anche dei buoni scarponi, per soprammercato». «È certo uno scherzo idiota, e mal gliene incoglierà a chi cerca di gabbare la servetta di Cencio Guidoni.

  2. Perché certo mi hai detto così per farmi vergognare, perché io devo andare alle siepi, dove sono gli sterratori, con la minestra di cruschello, e con la fiasca del vino cotto e speziato, senza dimenticarmi le scodelle e le ciotole di legno dove servire la polenta fatta con la segale buona. Vattene, non avvicinarti, scemo cretino idiota!»

  3. Accidenti, come mi ritrovai spaventato, che paura mi fece! Quando la toccai sulle costole, mi percosse e disse: «Ohè! morto di fame, sempre malato, morto vivente, per Dio, queste cose le fai proprio male. Da me non avrai neanche una cicca, neanche se mi mettessi addosso una nocciola (come dire il sale sulla coda o simili). Svegliati, non andare in cerca di briciole, come mostra il fatto che vai cianciando scemenze con la bocca!»

  4. «Senti, donna di Fermo, se acconsenti ai miei desideri, ti regalerò panieri di fichi selvatici, more, che ti possono servire come dentifricio, li potrai avere se no dici niente a nessuno. Se Dio mi lascia attraversare il Chienti (forse in senso metaforico), aggiungerò drappi variegati.» «Io non ti farò più resistenza, visto che tanto mi rincorri. Viene dunque, oggi, Pierino non romperà le scatole, e tu fa attenzione che io non sia stimolata.»

  5. Quando fece buio me ne andai nella sua capanna, appena ridipinta, né sporca di fuliggine, trovai un lenzuolo ben lavato sopra il pagliericcio, e mi mise il vaso (?) vicino alla testa; ne fui molto rinfrancato, perché mi mise sopra una buona coperta di lana. Ci accordammo insieme e mai non fui meglio che con lei. «Davvero che tu non lo fai come certi scemi: mi pare che tu sia davvero maestro!»

Variante sul clima delle pastorelle (qui la protagonista è una servetta); l’esito è ovviamente il medesimo, persino con la lode finale delle capacità dell’amante.

 

Fra le letterature romanze, una delle prime a svilupparsi, per quanto abbia poi perso di importanza, è stata quella di lingua portoghese, che interessò fra la fine dell’XI e la metà del XIV secolo l’area lusitana e  la Galizia. Si tratta di un corpus notevole, circa 200 poeti, che scrissero d’amicizia, d’amore, e anche poesie dal tono più libero e “maldicente”. Alcuni di questi poeti furono grandi personaggi, nobili e re, come Dionigi (Denis) re di Portogallo. Emergono in essi diverse convergenze con i temi della poesia provenzale.

 

8.6 Johan Garcia de Guilhade

Fu attivo alla metà del ‘200, ed è ritenuto uno dei maggiori fra questi poeti, inventore di formule che poi sono divenute luoghi comuni (ad esempio, gli «oc­chi verdi» come marca di bellezza).

 

Quelli che hanno d’amore gran pena

in questo mondo, come ora io l’ho,

vorrebbero morire, questo lo so,

così trovando il solo piacere.

Eppure finché vi veda, signora,

io pur vorrei vivere sempre,

così aspettando, così aspettando!

E tuttavia non posso guarire:

gli, occhi miei si vanno accecando,

e Dio nè voi mi date soccorso.

Eppur fin quando io possa vedervi

senza mentirvi, amata signora,

io pur vorrei vivere sempre.

così aspettando, così aspettando!

Ed io ritengo che son come folli

quanti da amore attanagliati

vogliono morte, perché non ebbero

d’amor mai bene, come è per me.

Proprio per questo, amata signora,

io pur vorrei vivere sempre,

così aspettando, così aspettando!

 

Si tratta di uno dei consueti lamenti dell’amante che non trova riscontro nell’amata; rimarchevole la concezione che il nome dell’amata deve rimanere segreto. È una delle convenzioni tipiche del mondo cortese.

8.7 Pero Garcia Burgales

Anche questo poeta, attivo nella corte spagnola e in quella portoghese, opera prevalentemente come imitatore della tradizione occitanica. La sua vena più tipica è quella satirica, però non mancano testi più tipicamente d’amore, in cui spesso idee e forme vengono reinventate.

 

Giovanna cantai e Sancia e Maria

nei versi miei con gran pena d’amore,

però non dissi per chi mi morivo

di queste tre o chi amo di più,

né quale il senno mi porta a smarrire

e che per lei mi fa ora morire,

se sia Giovanna o se Sancia o Maria.

 

Di dispiacerle ebbi tale timore

che mai confessai delle tre chi era

e quella per cui m’andavo morendo

oppure chi avesse più grande beltà

di quante ne vidi ed in ogni virtù

valer di più. Io non volli dirlo,

ché di spiacerle ebbi tale timore!

 

Sebbene di più non potesse levarmi

di quanto mi leva, io ne ho timore.

Mi toglie il corpo, per cui non c’è giorno

ovvero notte in cui mi soddisfi

di me o d’altro: che può togliermi ancora?

Non vede quella che per vedere muoio,

e questo è il più che levarmi poteva.

 

Per tal motivo non volevo vivere,

in fede mia, ché in pena maggiore

del mondo io vivo, dal giorno in cui

più non la vidi, ché non fui appagato

di me né d’a1tro né vidi più gioia.

Poiché in tal pena viver mi vedo,

che Dio m’annienti, se vivere voglio!

 

Questa signora m’ha tolto la forza

d’invocar Dio e m’ha fatto svanire

timor di morte, che pur prima avevo.

 

Satira delle dottrine d’amore: il poeta, seguendole, non ha più voglia di vivere e nemmeno è più capace di avviarsi sulla strada della religione.

 

8.8 Don Denis

Il re Dionigi del Portogallo praticò un po’ tutte le forme ormai tradizionali, producendo una poesia corretta, capace di sottili e raffinate variazioni. È attivo agli inizi del XIV secolo, nella fase conclusiva quindi del periodo esaminato.

 

Una pastora di bell’aspetto

dell’amico era pensosa

e se ne stava, per quel che vidi,

assai afflitta, vi dico il vero;

e quindi disse: «Ormai non vale

che alcuna donna innamorata

dia fiducia al proprio amante,

ché il mio così mi ha ingannata».

 

Nella mano ella recava

un pappagallo tra i più belli

e, cantando piena di grazia

poiché giungeva primavera,

disse poi: «leggiadro amico,

che posso far per quest’amore?

M’ingannaste senza ragione!».

E poi svenne in mezzo ai fiori.

 

Di quel giorno il più gran tempo

giacque lì senza parlare,

ed a volte in sé tornava,

mentre altre tramortiva.

Disse poi: «Santa Maria,

che sarà di me oramai?».

E diceva il pappagallo:

«Mia signora, bene, io penso».

 

«Se tu vuoi conforto darmi,

per carità, così lei disse,

dimmi il vero, pappagallo,

ché mi è morte questa vita».

Ed egli disse: «Dama compiuta

d’ogni ben, che non piangiate!

La persona a voi devota,

gli occhi alzate e la vedrete».

 

E’ una variazione sulla forma della pastorella, che si è per così dire «civilizzata», trasformandosi in genere cortese e perdendo l’antica violenza Possiamo forse trovare qui una documentazione di come non sia stato più ritenuto accettabile, almeno in teoria, un amore basato sulla sopraffazione.

 

Si può tentare una modellizzazione: la parola amore in questa stagione medievale corrisponde ad almeno tre significati diversi, che ammettono una serie di varianti intermedie:

- la fin’amor, esperienza in sostanza intellettuale, che ricalca per l’amore gli schemi della sottomissione feudale, aggiungendovi una venatura religiosa;

- un gioco galante, che spesso poteva portare anche a esiti concreti;

- il resoconto per noi allarmante delle pastorelle,in cui dipinge un «amore» ridotto alla cronaca di una sottomissione ben concreta, con connotazioni di ceto. Il primo e il terzo senso implicano delle relazioni sociali squilibrate, di sottomissione dell’amante per la fin’amor e di brutale servitù dell’«amata» nella pastorella. Quest’ultimo caso può somigliare all’amore classico (in ambedue i casi si tratta di sottomettere, schiavizzare 1’oggetto amato) ma, mentre per Catullo e Ovidio si tratta di un processo (l’amato deve essere posto in condizione di dipendenza) che richiede comunque un gioco, un’attività seduttiva, per il clima della pastorella la servitù esiste, reale e concreta, in partenza.

Si può notare che, col tempo, la fin’amor sarà per così dire stilizzata e diventerà un mero rituale di seduzione, mentre la sopraffazione pura e semplice sottesa alla pastorella sarà ritenuta impraticabile.