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Pleniluni e quarti di luna

 

Dame e cavalieri

Radici medievali della sensibilità moderna

ottobre 1997- aprile 1998

 

6 La quarta giornata del Decameron

6.1. La novella delle papere

6.2  La novella di Ghismonda

 

6.1. La novella delle papere

Questa storia può cominciare come una fiaba: c’era una volta un re. Anzi, un imperatore: Federico II di Svevia, amante del sole mediterraneo, politico, scienziato e poeta, legislatore, forse un po’ mago, forse un po’ eretico.

Di certo, era affascinato dagli Arabi e dalla loro scienza, quella che faceva credere di saper fare prodigi, come trasportare un viaggiatore attraverso il Mediterraneo oppure tener sollevati i sepolcri, sia pure con l’uso sapiente delle calamite.

La prima grande raccolta di novelle (nota con vari nomi: Fiore di parlar gentile, Le ciento novelle antike, Novellino) dell’Europa, seppure non nasce alla sua corte (è probabile che sia stata redatta qualche decennio dopo la morte del principe) lo ricorda cori nostalgia, attribuendogli grandi doti umane e politiche. Non a lui, ma a un generico sovrano si riferisce la seguente novella tratta da quella silloge. C’era una volta un re, dunque.

dal “Novellino”

XIV

Come uno re fece nodrire uno suo figliuolo diece anni in luogo tenebroso, e poi li mostrò tutte cose, e più li piacque le femine.

A uno re nacque uno figliuolo. I savi strologi providero che s’elli non stesse anni diece che non vedesse il sole, [che perderebbe lo vedere]. Allora [il re] il fece notricare e guardare in tenebrose spelonche.

Dopo il tempo detto lo fece trarre fuori, e innanzi lui fece mettere molte belle gioie e di molte belle donzelle, tutte cose nominando per nome. E dettoli le donzelle essere dimonî, e poi li domandaro qual d’esse li fosse più graziosa, rispuose: - I domoni. - Allora lo re di ciò si maravigliò molto, dicendo: - Che cosa tirànnia è bellore di donna!

Non era la prima volta che si raccontava questa storia: gli eruditi hanno notato che, simile, appare nell’antica raccolta di novelle indiane, il Ramayana, nella storia antica di Earlaam e Josaphat, in autentici best seller del Medioevo come gli Exempla di Jacques de Vitry, la Legenda aurea di Jacopo da Varagine, lo Speculum di Vincenzo di Beauvais; più tardi sarà riportata dalle maggiori raccolte volgari, italiane (ad esempio il Fiore di virtù e le Vite dei santi padri di Domenico Cavalca) e straniere.

La storia non poteva sfuggire a Giovanni Boccaccio, che l’ha di certo incontra­ta nelle sue letture e forse sentita raccontare, magari da qualche predicatore. Con questo racconto, l’unico della raccolta che narra con la sua voce, non at­traverso le ragazze e i giovani che in tutto il libro gli fanno da controfigura, inizia la quarta giornata del Decameron, quella in cui sono presentate vicende tragiche (con questo il grande fiorentino prende due piccioni con una fava: mostra che l’amore è materia elevata, come quella della tragedia, non solo gli scherzi grassocci dei fabliaux, e che anche la prosa volgare è capace di tragedia). Ecco la sua versione:

Nella nostra città, già è buon tempo passato, fu un cittadino il quale fu nominato Filippo Balducci, uomo di condizioni assai leggiere, ma ricco e bene inviato e esperto nelle cose quanto lo stato suo richiedea; e aveva una donna moglie, la quale egli sommamente amava, e ella lui, e insieme in riposata vita si stavano, a niuna altra cosa tanto studio ponendo quanto in piacere interamente l’uno all’altro. Ora avvenne, sì come di tutti avviene, che la buona donna passò di questa vita, né altro di sé a Filippo lasciò che un solo figliuolo di lui conceputo, il quale forse d’età di due anni era. Costui per la morte della sua donna tanto sconsolato rimase, quanto mai alcuno altro amata cosa perdendo rimanesse; e veggendosi di quella compagnia, la quale egli più amava, rimaso solo, del tutto si dispose di non volere più essere al mondo ma di darsi, al servigio di Dio e il simigliante fare del suo piccol figliuolo. Per che, data ogni cosa per Dio, senza indugio se ne andò sopra Monte Asinaio, e quivi in una piccola celletta se mise col suo figliuolo, col quale di limosine in digiuni e in orazioni vivendo, sommamente si guardava di non ragionare, là dove egli fosse, d’alcuna temporal cosa né di lasciarnegli alcuna vedere, acciò che esse da co­sì fatto servigio non traessero, ma sempre della gloria di vita eterna e di Dio e de' santi gli ragionava, nulla altro che sante orazioni insegnandogli. E in questa vita molti anni il tenne, mai della cella non lasciandolo uscire né alcuna altra cosa di sé dimostrandogli.

Era usato il valente uomo di venire alcuna volta a Firenze: e quivi secondo le sue oportunità dagli amici di Dio sovenuto, alla sua cella tornava.

Ora avvenne che, essendo già il garzone d’età di diciotto anni e Filippo vecchio, un dì il domandò ov’egli andava. Filippo gliele disse; al quale il garzon disse: “Padre mio, voi siete oggimai vecchio e potete male durar fatica; perché non mi menate voi una volta a Firenze, acciò chè, faccendomi cognoscere gli amici e divoti di Dio e vostri, io, che son giovine e posso meglio faticar di voi, possa poscia pe' nostri bisogni a Firenze andare quando vi piacerà, e voi rimanervi qui?”

Il   valente uomo, pensando che già questo suo figliolo era grande e era si abituato al servigio di Dio, che malagevolmente le cose del mondo a sé il dovrebbono omai poter trarre, seco stesso disse: “Costui dice bene”; per che, avendovi ad andare, seco il menò.

Quivi il giovane veggendo i palagi, le case, le chiese e tutte l’altre cose delle quali, tutta la città piena si vede, sì come colui che mai più per ricordanza vedute no’ n’ avea, si cominciò forte a maravigliare e di molte domandava il padre che fossero e come si chiamassero. Il padre gliele diceva; e egli, avendola udito, rimaneva contento e domandava d’un’altra. E così domandando il figliuolo e il padre rispondendo, per avventura si scontrarono in una brigata di belle giovani donne e ornate, che da un paio di nozze venieno: le quali come il giovane vide, così domandò il padre che cosa quelle fossero.

A cui il padre disse: “Figliuol mio, bassa gli occhi in terza, non le guatare, ch’elle san màla cosa”.

Disse allora il figliuolo: “O come si chiamano?”

Il   padre, per non destare nel concupiscibile appetito del giovane alcuno inchinevole desiderio men che utile, non le volle nominare per lo proprio nome, cioè femine, ma disse: “Elle si chiamano papere”.

Maravigliosa cosa a udire! Colui che mai più alcuna veduta non avea, non curatosi de' palagi, non del bue, non del cavallo, non dell’asino, non de' denari né d’altra cosa che veduta avesse, subitamente disse: «Padre mio, io vi priego che voi facciate che io abbia una di quelle papere”.

“Oimè, figliuol mio,” disse il padre «taci: elle son mala cosa”.

A cui il giovane domandando disse: «O son così fatte le male cose?” “Sì” disse il padre.

E egli allora disse: “Io non so che voi vi dite, né perché queste sieno mala cosa: quanto è, a me non è ancora paruta vedere alcuna cosa bella né così piacevole come queste sono. Elle son più belle che gli agnoli dipinti che voi m’avete più volte mostrati. Deh! se vi cal di me, fate che noi ce ne meniamo una colà sù di queste papere, e io le darò beccare”.

Disse il padre: “Io non voglia; tu non sai donde elle s’imbeccano!” e sentì incontamente più aver di forza la natura che il suo ingegno; e pentessi d’averlo menato a Firenze.

A questa storia di solito si assegna un valore esplicito: l’amore appartiene alla natura umana, e non è eludibile. Lo afferma lo stesso Boccaccio; i commentatori osservano che è uno degli indizi - degli inizi - della sensibilità moderna, che vede la natura come cosa buona e giusta, mentre lo spirito medievale assegnava questa perfezione solo a Dio. Con Boccaccio sì costruirebbe una specie di diarchia che sovrintende al comportamento umano: da un lato la legge morale, che ha il vantaggio di poter venire osservata o meno; dall’altro la legge naturale, l’istinto, che non lascia scampo. Quando c’è conflitto tra legge morale e l’istinto, sarà il secondo a prevalere, e ciò non può essere in alcun modo ripreso sul piano morale. Filippo non ha alcun argomento da opporre al figlio: sa benissimo che comunque perderebbe.

Questa versione appare forse un po’ semplicistica. Non è infatti in discussione la naturalità dell’istinto d’amore, quanto il suo contenuto. Già Platone riteneva, in modo assai più contorto di quanto abbiamo qui visto, che amare fosse cosa normale e degna per gli uomini, anzi necessaria, poiché la natura prevede e pretende la generazione, e questa può avvenire solo nell’amore.

È davvero questo il contenuto dell’amore che troviamo in Boccaccio? il desiderio di un rapporto fisico con l’altro sesso?

Certo, c’è anche questo, ma non è l’aspetto più importante. Prendiamo il testo che segue immediatamente la novella delle papere. Ser Giovanni vi racconta una storia lacrimevole, quella di Tancredi, principe di Salerno, e di sua figlia Ghismonda.

 

6. 2 La novella di Ghismonda

IV, 1

Tancredi, prenze di Salerno, uccide l’amante della figliuola e mandale il cuore in una coppa d’oro; la quale, messa sopr’ acqua avvelenata, quella si bee e così muore.

- Fiera materia di ragionare n’ha oggi il nostro re data, pensando che, dove per rallegrarci venuti siamo, ci convenga raccontar l’altrui lagrime, le quali dir non si possono che chi le dice e chi l’ode non abbia compassione. Forse per temperare alquanto la letizia avuta li giorni passati l’ha fatto: ma che che se l’abbia mosso, poi che a me non si conviene di mutare il suo piacere, un pietoso accidente, anzi sventurato e degno delle nostre lagrime, racconterò.

Tancredi, prencipe di Salerno, fu signore assai umano e di benigno ingegno, se egli nell’amoroso sangue nella sua vecchiezza non s’avesse le mani bruttate; il quale in tutto lo spazio della sua vita non ebbe che una figliuola, e più felice sarebbe stato se quella avuta non avesse. Costei fu dal padre tanto teneramente amata, quanto alcuna altra figliuola da padre fosse giammai: e per questo tenero amore, avendo ella di molti anni avanzata l’età del dovere avere avuto marito, non sappiendola da sé partire, non la maritava: poi alla fine a un figliuolo del duca di Capova datala, poco tempo dimorata con lui, rimase vedova e al padre tornossi.  

La novella, benché ambientata in un luogo familiare a Boccaccio - Salerno è vicina a Napoli - resta sospesa in una dimensione fiabesca e fantastica: i personaggi citati non sono storici, gli eventi inventati (per quanto i nomi siano legati all’ambiente normanno di Salerno: Tancredi e Guiscardo si chiamarono diversi Altavilla; una di loro, Costanza, fu madre di Federico II).

Inoltre, non si conoscono antecedenti di questa storia: è stata inventata da Boccaccio. È la prima di argomento tragico del Centonovelle, e segue immediatamente la giustificazione dell’amore. Nell’economia della raccolta, ciò può significare che l’autore voglia suggerire intanto che la materia amorosa, certo adatta alla lingua volgare, può essere trattata in tale idioma anche nelle sfumature tragiche; inoltre, il racconto indica cosa succeda quando venga negata le legge di natura che vuole gli uomini indirizzati all’amore.

Infine, un merito di questa storia è di sollevare (non è l’unica volta del Deca­meron) il problema del ruolo femminile nelle logiche d’amore: per Boccaccio, le donne possono amare come gli uomini, possono essere soggetto e non solo oggetto, sia pure angelicato.

Nelle prime righe si mostra la descrizione di un rapporto di stampo feudale. Tancredi “ama” la figlia come una sua proprietà, come un terreno in cui si può passare piacevolmente del tempo, e da questa proprietà non si vuole distaccare; se ne separa solo per darla in proprietà (meglio, in concessione) ad un altro uomo. È una concessione provvisoria: quando costui muore, essa ritorna al padre, che su di lei detiene diritti inalienabili e imprescrivibili.

Era costei bellissima del corpo e del viso quanto alcuna altra femina fosse mai, e giovane e gagliarda e savia più che a donna per avventura non si richiedea. E dimorando col tenero padre, si come gran donna, in molte dilicatezze, e veggendo che il padre, per l’amor che egli le portava, poca cura si dava di più maritarla, nè a lei onesta cosa pareva il richiedernelo, si pensò di volere avere, se esser potesse, occultamente un valoroso amante. E veggendo molti uomini. nella corte del padre usare, gentili e altri, sì come noi veggiamo nelle corti, e considerate le maniere e’ costumi di molti, tra gli altri un giovane valletto del padre, il cui nome era Guiscardo, uom di nazione assai umile ma per vertù e per costumi nobile, più che altro le piacque, e di lui tacitamente, spesso vedendolo, fieramente s’accese, ognora più lodando i modi suoi. E il giovane, il quale ancora non era poco avveduto, essendosi di lei accorto, l’aveva per si fatta maniera nel cuor ricevuta, che da ogni altra cosa quasi che da amar lei aveva la mente rimossa.

Tre cose essenziali in questo passo:

1. Amore è cosa naturale, che non può essere messa in discussione nemmeno dalle convenzioni sociali, o dalle convenienze familiari. Qui viene ripreso in modo meno scherzoso il tema della novella delle papere; viene inoltre implicitamente giustificato il comportamento successivo di Ghismonda, che, cercandosi un amante, non fa altro che dare applicazione alla legge naturale.

2. Amore va oltre le convenzioni, e le classificazioni sociali: ciò che conta non è la nobiltà di casta o la ricchezza di beni materiali, quanto la nobiltà di spirito e la ricchezza di virtù. Qui Boccaccio si rifà alla ormai tradizionale posizione degli stilnovisti che, per la prima volta, assegnano alla capacità di amare la funzione di metro per la nobiltà e dunque la capacità anche politica e sociale. Molti hanno visto in questo il superamento dell’ideologia feudale; tale opinione ha, per il nostro punto di vista, il limite di non avere per davvero interesse all’amore in quanto tale, per farne invece una sorta di passpartout simbolico.

3. Amore è vero (questo contro le estreme argomentazioni di Dante, per il quale amore è vero quando è per se stesso, un po’ alla maniera del Convito platonico) solo quando è ricambiato. Non vi è qui tenerezza per le idee che emergevano fra i trovatori (qualcuno diceva che quando amore veniva ricambiato era tutto finito, perché veniva meno il desiderio). Sarebbe interessante indagare i motivi psicologici per cui l’amato si avvede di esserlo e decide di trasformarsi in amante, nonché le manifestazioni sociali di questa trasformazione. Boccaccio è uno dei primi scrittori ad avere attenzione per questi fenomeni psicologici (è stato notato che l’Elegia di Madonna Fiammetta ha dato il primo esempio di romanzo psicologico della letteratura europea).

In cotal guisa adunque amando l’un l’altro segretamente, niuna altra cosa tanto disiderando la giovane quanto di ritrovarsi con lui, né vogliendosi di questo amore in alcuna persona fidare, a dovergli significare il modo seco pensò una nuova malizia. Essa scrisse una lettera, e in quella ciò che a fare il dì seguente per esser con lei gli mostrò; e poi quella messa in un bucciuolo di canna, sollazzando la diede a Guiscardo e dicendo: «Fara’ne questa sera un soffione alla tua servente, col quale ella raccenda il fuoco”.

Guiscardo il prese, e avvisando costei non senza cagione dovergliele aver donato e così. detto, partitosi, con esso se ne tornò alla sua casa: e guar­dando la canna e quella vedendo fessa, l’aperse, e dentro trovata la lettera di lei e lettala e ben compreso ciò che a fare avea, il più contendo uom fu che fosse già mai e diedesi a dare opera di dovere a lei andare secondo il modo da lei dimostratogli.

Vi è qui una trasformazione del motivo tradizionale che vuole l’amore segreto: con due modifiche rispetto alla versione cortese (primo, la segretezza è giustificata con un motivo esterno: se questo amore fosse rivelato, sarebbe facilmente messo in forse; secondo1 non si tratta in questo caso del timido ritrarsi dell’amante che vive il suo desiderio struggente in intimo corde, e lo affida al massimo a un canto che disloca l’oggetto amato in un anonimo senhal, ma la segretezza si nutre di una rivelazione reciproca. Amore è per Boccaccio essenzialmente scambio).

Appare un altro tema, che aveva avuto e avrà in seguito moltissime riproposi­zioni: l’amore rende scaltri e intelligenti. (L’argomento è stato affrontato infinite volte, con due varianti: quella in cui è l’innamorato a farsi furbo - come ad es. in Marivaux, Arlequin poli par l’amour - e in quella più tipica, in cui il protagonista trova degli aiutanti, ad es. dei servi - questo secondo genere è proprio della commedia classica e moderna; un esempio in Molière, Les fourberies de Scapin) Ghismonda e Guiscardo non avrebbero mai pensato il modo ingegnoso di comunicare che escogitano, se non avessero avuto necessità di dare sfogo a un amore altrimenti ostacolato.

Era allato al palagio del prenze una grotta cavata nel monte, di lunghis­simi tempi davanti fatta, nella qual grotta dava alquanto lume uno spiraglio fatto per forza nel monte, il quale, per ciò che abbandonata era la grotta, quasi da pruni e da erbe di sopra natevi era riturato; e in questa grotta per una segreta scala, la quale era in una delle camere terrene del palagio la quale la donna teneva, si poteva andare, come che da uno fortissimo uscio serrata fosse. E era sì fuori delle menti di tutti questa scala, per ciò che di grandissimi tempi davanti usata non s’era, che quasi niuno che ella vi fosse si ricordava: ma Amore, agli occhi del quale niuna cosa è sì segreta che non pervenga, l’aveva nella memoria tornata alla in­namorata donna. La quale, acciò che niuno di ciò accorger si potesse, molti dì con suoi ingegni penato avea anzi che venir fatto le potesse d’aprir quello uscio: il quale aperto e sola nella grotta discesa e lo spiraglio veduto, per quello aveva a Guiscardo mandato a dire che di venir s’ingegnasse, avendogli disegnata l’altezza che da quello infino in terra esser poteva. Alla qual cosa fornire Guiscardo prestamente ordinata una fune con certi nodi e cappi da potere scendere e salire per essa e sé vestito d’un cuoio che da’ pruni il difendesse, senza farne alcuna cosa sentire a alcuno, la seguente notte allo spiraglio n’andò, e accomandato bene l’uno de’ capi della fune a un forte bronco che nella bocca dello spiraglio era nato, per quella si collò nella grotta e attese la donna.

Viene ancora sottolineata la grande forza dell’amore - Amor vincit omnia. Questo amore è un itinerario, per concludere il quale l’amante deve mostrare il proprio ardimento, superando prove e pericoli, il che significa che deve avere coraggio e “virtù”, nell’accezione medievale di questo termine, che comprende la capacità innata e l’impegno.

Questo itinerario appartiene alla notte, all’oscurità, al mondo ctonio, si configura come una sorta di discesa agli inferi: il godimento implica, non ultima prova, il passaggio per un mondo senza luce. Viene alla mente l’oltretomba dantesco, con il pertugio, la natural burella che conduce il pellegrino dall’oscurità infernale alla luce già quasi gioiosa del purgatorio.

La quale il seguente di, faccendo sembianti di voler dormire, mandate via le sue damigelle e sola serratasi nella camera, aperto l’uscio nella grotta discese, dove, trovato Guiscardo, insieme maravigliosa festa si fecero; e nella sua camera insieme venutine, con grandissimo piacere gran parte di quel giorno si dimorarono; e dato discreto ordine alli loro amori acciò che segreti fossero, tornatosi nella grotta Guiscardo, e ella, serrato l’uscio, alle sue damigelle se ne venne fuori. Guiscardo poi la notte vegnente, sù per la sua fune sagliendo, per lo spiraglio donde era entrato se n’usci fuori e tornossi a casa; e avendo questo cammino appreso più volte poi in processo di tempo vi ritornò.

Emergono qui alcune caratteristiche dell’amore “giusto”, che, in parte, coincidono con quelle dell’amore matrimoniale: la fedeltà, l’ordine, l’assenza di scandalo.

La necessità di osservare queste regole è sintomo di una tensione fra due ordini conflittuali: quello economico-politico dei possesso, che qui vedremo incarnato da Tancredi, e quello naturale-sentimentale, proprio a Ghismonda.

Ma la fortuna, invidiosa di così lungo e di così gran diletto, con doloroso avvenimento la letizia de’ due amanti rivolse in tristo pianto.

Era usato Tancredi di venirsene alcuna volta tutto solo nella camera della figliuola e quivi con lei dimorarsi e ragionare alquanto e poi partirsi. Il quale un giorno dietro mangiare là giù venutone, essendo la donna, la quale Ghismonda avea nome, in un suo giardino con tutte le sue damigelle, in quella senza essere stato da alcuno veduto o sentito entratosene, non volendo lei torre dal suo diletto, trovando le finestre della camera chiuse e le cortine del letto abbattute, a più di quello in un canto sopra un carello si pose a sedere, e appoggiato il capo al letto e tirata sopra sé la cortina, quasi come se studiosamente si fosse nascoso, quivi s’adormentò. E così. dormendo egli, Ghismonda, che per isventura quel dì fatto avea venir Guiscardo, lasciate le sue damigelle nel giardino, pianamente se ne entrò nella camera: e quella serrata, senza accorgersi che alcuna persona vi fosse, aperto l’uscio a Guiscardo che l’attendeva e andatisene in su il letto, sì come usati erano, e insieme scherzando e sollazzandosi, avvenne che Tancredi si svegliò e senti e vide ciò che Guiscardo e la figliuola facevano. E dolente di ciò oltre modo, prima gli volle sgridare, poi prese partito di tacersi e di starsi nascoso, s’egli potesse, per potere più cautamente fare e con minor sua vergogna quello che già gli era caduto nell’animo di dover fare. I due amanti stettero per lungo spazio insieme, sì come usati erano, senza accorgersi di Tancredi; e quando tempo lor parve discesi del letto, Guiscardo se ne tornò nella grotta e ella s’uscì della camera. Della quale Tancredi, ancora che vecchio fosse, da una finestra di quella si calò nel giardino e senza essere da alcun veduto, dolente a morte, alla sua camera si tornò.

Tancredi fa irruzione nella storia come un vilain da teatro, violando una regola tipica della società moderna: la privacy. Egli si sente nei pieno diritto di togliere ai suoi sottoposti ogni autonomia, non ha rispetto della loro intimità perché nemmeno la concepisce. Ghismonda, al contrario, riserva a sé degli spazi: la sua camera, il suo cuore. La novità dei suo approccio all’amore è parallela alla sua concezione dello spazio.

La curiosità di Tancredi è deleteria, perché porta alla gelosia. Dal punto di vista dell’autore, essa è inaccettabile, poiché si iscrive nella logica del possesso (una figura che troveremo più tardi nelle commedie è quella del vecchio geloso, che pure identifica indebitamente amore e proprietà economica). La figlia, il servo, si sono sottratti alla potestà del signore (in effetti, Tancredi non provava particolare gelosia in occasione del matrimonio di Ghismonda a Capua). Questo non chiedere permesso al signore, nel vecchio ordine chiede vendetta.

Il principe può però trovare una qualche giustificazione: egli prova dolore per la sua gelosia, è il nuovo ordine d’amore secondo cui agisce la figlia, perverso, a suscitargli sofferenza.

E per ordine da lui dato, all’uscir dello spiraglio la seguente notte in sul primo sonno Guiscardo, così come era nel vestimento del cuoio impacciato, fu preso da due e segretamente a Tancredi menato; il quale, come il vide, quasi piagnendo disse: “Guiscardo, la mia benignità verso te non avea meritato l’oltraggio e la vergogna la quale nelle mie cose fatta m’hai, sì come io oggi vidi con gli occhi miei”.

Al quale Guiscardo niuna altra cosa disse se non questo: «Amor può troppo più che né voi né io possiamo”.

Comandò adunque Tancredi che egli chetamente in alcuna camera di là entro guardato fosse; e così fu fatto.

Viene precisata la natura della forza d’amore: esso è un dio onnipotente, la stessa cosa del destino; quando si presenta opera senza che niente possa fermarlo, come un fiume in piena o un vento impetuoso; d’altro canto, esso è pure perfettamente casuale: non esiste un motivo prevedibile per cui ci si innamori necessariamente; non si capirebbe altrimenti come la stessa bellezza faccia in­namorare certuni e certi altri no.

Venuto il dì seguente, non sappiendo Ghismunda nulla di queste cose, avendo seco Tancredi varie e diverse novità pensate, appresso mangiare secondo la sua usanza nella camera n’andò della figliuola: dove fattalasi chiamare e serratosi dentro con lei, piangendo le cominciò a dire: «Ghismunda, parendomi conoscere la tua vertù e la tua onestà, mai non mi sarebbe potuto cader nell’animo, quantunque mi fosse stato detto, se io co’ miei occhi non l’avessi veduto, che tu di sottoporti a alcuno uomo, se tuo marito stato non fosse, avessi, non che fatto, ma pur pensato; di che io, in questo poco di rimanente di vita che la mia vecchiezza mi serba, sempre sarà dolente di ciò ricordandomi. E or volesse Idio che, poi che a tanta disonestà conducer ti dovevi, avessi preso uomo che alla tua nobiltà decevole fosse stato; ma tra tanti che nella mia corte n’usano eleggesti Guiscardo, giovane di vilissima condizione, nella nostra corte quasi come per Dio da piccol fanciullo infino a questo dì allevato; di che tu in grandissimo affanno d’animo messo m’hai, non sappiendo io che partito di te mi pigliare. Di Guiscardo, il quale io feci stanotte prendere quando dallo spiraglio usciva, e hollo in prigione, ho io già meco preso partito di che farne; ma di te sallo Idio che io non so che farmi. Dall’una parte mi trae l’amore il quale io t’ho sempre più portato che alcun padre portasse a figliuola, e d’altra mi trae giustissimo sdegno preso per la tua gran follia: quegli vuole che io ti perdoni e questi vuole che io contro a mia natura in te incrudelisca: ma prima che io partito prenda, disidero d’udire quello che tu a questo dei dire». E questo detto bassò il viso, piagnendo sì forte come farebbe un fanciul ben battuto.

La scena della novella è, quasi completamente, questa camera, dove si manifestano gli istinti primari degli uomini, mangiare, dormire, amare.

Il discorso di Tancredi mostra una personalità complessa: quando egli parla di virtù e onestà di Ghismonda, mostra un mondo di valori a cui egli ritiene ci si debba comunque attenere. Il fatto che la figlia li trasgredisca gli comporta vera sofferenza. D’altro canto, in questo mondo lui è colui al quale si deve rispetto. Egli è convinto che si tratti di una funzione, di star svolgendo il com­pito cui è chiamato; perciò intende il proprio comportamento come obbligato, come dovere, non come potere: non potrebbe fare altrimenti. Contemporaneamente, non gli è estraneo il ricorso all’autorità, se non come piacere, almeno come propria realizzazione personale: il principe non si pone mai nel punto di vista del servo, non può nemmeno ipotizzare che la nobiltà gli sia estranea. Essa gli è dovuta, e comprende il diritto assoluto sulle sue proprietà; servi e donne di casa gli appartengono, dunque non possono avere una volontà diver­sa dalla sua: a rigore, non possono nemmeno avere volontà. Qui si pone un problema, perché dal punto di vista di Tancredi amore appartiene a volontà, non si può amare senza volere. In Guiscardo, lo abbiamo appena visto, l’atteggiamento è l’opposto: amore è destino, casualità, potenza a noi ignota e irresistibile; i due discorsi. degli uomini sono in rotta di collisione frontale. L’idea di Ghismonda è più complessa:

- vi è un elemento di necessità naturale: la legge per cui tutti gli uomini sono soggetti ad amare;

- un elemento di casualità c’è certamente, perché non si può amare se non qualcuno che si conosce;

- non manca una componente di volontà, duplice per di più: l’adesione alla legge naturale e la scelta dell’oggetto amato, che lei compie razionalmente nel suo entourage.

V’è nel discorso di Tancredi un’interessante spia semantica: il darsi di Ghismonda a Guiscardo vien detto da lui sottoporti. Nel lessico amoroso, questa parola ha un significato duplice, fisico e morale, e in ambedue i casi denota una condizione di debolezza, di passività. “Sottoporsi” è verbo che tradizionalmente si. assegnava all’oggetto amato che cedeva, lasciando campo alla volontà dell’amante. Si dovrà ritornare su questo elemento ideologico leggendo alcuni scrittori dell’antichità classica.

Tancredi non conosce altro amore che la riduzione allo stato di servitù, cioè il sottoporre qualcun altro, con la motivazione che è l’oggetto amato. Qualcuno di cui impadronirsi.

L’amore di Ghismonda e Guiscardo non è questo, perché opera in esso il principio mercantile dello scambio (“Amor è merce che con amor si merca” dirà Torquato Tasso), un dare e avere.

Ghismunda, udendo il padre e conoscendo non solamente il suo segreto amore esser discoperto ma ancora preso Guiscardo, dolore inestimabile sentì e a mostrarlo con romore e con lagrime, come il più le femine fanno, fu assai volte vicina: ma pur questa viltà vincendo il suo animo altiero, il viso suo con maravigliosa forza fermò, e seco, avanti che a dovere alcun priego per sé porgere, di più non stare in vita dispose, avvisando già esser morto il suo Guiscardo.

C’è in Ghismonda un elemento di ambiguità, che la fa essere una specie di donna-uomo: almeno, come vedremo, per i modelli erotici che Boccaccio utilizza e insieme contesta nella sua novella. È lei ad amare, assumendo l’iniziativa di provocare esplicitamente l’amore (manda messaggi come fanno gli amanti, in genere per mezzo di vecchiette e mezzane) nell’oggetto amato, di portarlo sul suo terreno. Qui, addirittura, non piange, evita cioè il comportamento che viene assunto come tipico del suo sesso. Tancredi, di converso, si femminilizza (“quasi piagnendo”).

Ancora più importante, Ghismonda pretende di “dare un senso” alla propria vita - lei che è una donna, e che dovrebbe darsi come solo scopo quello di vivere per un signore; il senso della sua vita sta nell’amare: si vedrà che amore è un titolo di nobiltà.

Per che, non come dolente femina o ripresa del suo fallo, ma come non curante e valorosa, con asciutto viso e aperto e da niuna parte turbato così al padre disse: “Tancredi, né a negare né a pregare son disposta, per ciò che né l’un mi varrebbe né l’altro voglio che mi vaglia; e oltre a ciò in niuno atto intendo di rendermi benevola la tua mansuetudine e ‘l tuo amore: ma, il vero confessando, prima con vere ragioni difender la fama mia e poi con fatti fortissimamente seguire la grandezza dell’animo mio. Egli è il vero che io ho amato e amo Guiscardo, e quanto io viverò, che sarà poco, l’amerò, e se appresso la morte s’ama, non mi rimarrò d’amarlo: ma a questo non m’indusse tanto la mia feminile fragilità, quanto la tua poca sollecitudine del maritarmi e la virtù di lui. Esser ti dové, Tancredi, manifesto, essendo tu di carne, aver generata figliuola di carne e non di pietra o di ferro; e ricordar ti dovevi e dei, quantunque tu ora sie vecchio, chenti e quali e con che forza vengano le leggi della giovanezza: e come che tu, uomo, in parte ne’ tuoi migliori anni nell’armi essercitato ti sii, non dovevi di meno conoscere quello che gli ozii e le dilicatezze possano ne’ vecchi non che ne’ giovani. Sono adunque, sì come da te generata, di carne, e si poco vivuta, che ancor son giovane, e per l’una cosa e per l’altra piena di concupiscibile disidero, al quale maravigliosissime forze hanno date l’aver già, per essere stata maritata, conosciuto qual piacer sia a così fatto disidero dar compimento. Alle quali forze non potendo io resistere, a seguito quello a che elle mi tiravano, sì come giovane e femina, mi disposi e innamora’mi. E certo in questo opposì ogni mia vertù di non volere a te né a me di quello a che natural peccato mi tirava, in quanto per me si potesse operare, vergogna fare. Alla qual cosa e pietoso Amore e benigna fortuna assai occulta via m’avea trovata e mostrata, per la quale, senza sentirlo alcuno, io a’ miei disideri perveniva: e questo, chi che ti se l’abbia mostrato o come che tu il sappi, io nol nego. Guiscardo non per accidente tolsi, come molte fanno, ma con diliberato consiglio elessi innanzi a ogni altro e con avveduto pensiero a me lo ‘ntrodussi e con savia perseveranza di me e di lui lungamente goduta sono del mio disio. Di che egli pare, oltre all’amorosamente aver peccato, che tu, più la volgare opinione che la verità seguitando, con più amaritudine mi riprenda, dicendo, quasi turbato, esser non ti dovessi se io nobile uo­mo avessi a questo eletto, che io con uomo di bassa condizion mi san posta: in che non t’accorgi che non il mio peccato ma quello della fortuna riprendi, la quale assai sovente li non degni a alto leva, abbasso lasciando i degnissimi. Ma lasciamo or questo, e riguarda alquanto a’ principi delle cose: tu vedrai noi d’una massa di carne tutti la carne avere e da uno medesimo Creatore tutte l’anime con iguali forze, con iguali potenze, con iguali vertù create. La vertù primieramente noi, che tutti nascemmo e nasciamo iguali, ne distinse; e quegli che di lei maggior parte avevano e adoperavano nobili furon detti, e il rimanente rimase non nobile. E benché contraria usanza abbia poi questa legge nascosa, ella non è ancor tolta via né guasta dalla natura né da buon costumi; e per ciò colui che virtuosamente adopera, apertamente sé mostra gentile, e chi altramenti il chiama, non colui che è chiamato ma colui che chiama commette difetto. Raguarda tra tutti i tuoi nobili uomini e essamina la lor vita, i lor costumi e le loro maniere, e d’altra parte quelle di Guiscardo riguarda: se tu vorrai senza animosità giudicare, tu dirai lui nobilissimo e questi tuoi nobili tutti esser villani. Delle virtù e del valor di Guiscardo io non credetti al giudicio d’alcuna altra persona che a quello delle tue parole e de’ miei occhi. Chi il commendò mai tanto quanto tu commendavi in tutte quelle cose laudevoli che valoroso uomo dea essere commendato? E certo non a torto: ché, se’ miei, occhi non m’ingannarono, niuna laude da te data gli fu che io lui operarla, e più mirabilmente che le tue parole non poteano esprimere, non vedessi: e se pure in ciò alcuno inganno ricevuto avessi, da te sarei stata ingannata, Dirai dunque che io con uomo di bassa condizion mi sia posta? Tu non dirai il vero: ma per avventura se tu dicessi con povero, con tua vergogna si potrebbe concedere, ché così hai saputo un valente uomo tuo servidore mettere in buono stato; ma la povertà non toglie gentilezza a alcuno ma sì avere. Molti re, molti gran prencipi furon già poveri, e molti di quegli che la terra zappano e guardan le pecore già ricchissimi furono e sonne. L’ultimo dubbio che tu movevi, cioè che di me far ti dovessi, caccial del tutto via: se tu nella tua estrema vecchiezza a far quello che giovane non usasti, cioè ad incrudelir, se’ disposto, usa in me la tua crudeltà, la quale a alcun priego porgerti disposta non sono, sì come in prima cagion di questo peccato, se peccato è; per ciò che io t’acerto che quello che di Guiscardo fatto avrai o farai, se di me non fai il simigliante, le mie mani medesime il faranno. Or via, va con le femine a spander le lagrime, e incrudelendo, con un medesimo colpo, se così ti par che meritato abbiamo, uccidi”.

Il discorso di Ghismonda è opera di grande perizia retorica, in cui vengono dispiegati molti artifici, e gli argomenti più tipici dell’argomentazione dell’epoca: la divisione, l’argomento ad personam, la dimostrazione pressoché sillogistica, quasi si trattasse di una scolastica quaestio da disputare. L’atteggiamento della donna è infatti, come in altri casi nel Decameron (un esempio tra tutti: VI,7, la divertente arringa di Monna Filippa), razionale, loico, quasi scientifico. Ciò non pregiudica una chiarissima, esemplare espressione dei sentimenti (dall’esordio: chiama il padre per nome, ponendosi risolutamente sul suo piano, per poi rivendicare il valore positivo, anche sul piano etico, del suo amore); ciò non nega però che la tonalità di fondo del discorso sia quella raziocinante. Da buona filosofa naturale, la giovane si propone di illustrare il meccanismo dell’amore, nel quale c’è una logica e una necessità, che può anche essere interpretata nel senso della carenza, di ciò che manca e di cui si ha bisogno. Il sentimento di desiderio degli amanti è questa necessità, deriva da questo mancare. È una necessità naturale, per quanto sia esaltata da un certo tipo di esperienza (Ghismonda sente in modo particolare il desiderio d’amore, poiché l’ha provato nel suo sfortunato matrimonio). Proviene da una necessità di ordine fisico, certo, ma essa si trasforma necessariamente in qualcosa di più difficile da comprendere che diremo, in mancanza di termini migliori, “spirituale”. Proprio la dimensione spirituale di questo bisogno fa sì che esso, nella logica della ragazza, si presenti come ricerca della perfezione; essa, nella logica medievale di Boccaccio, contiene in sé un elemento di durata: è perfetto ciò che dura nel suo stato di perfezione. Per questo Ghismonda aspira a un’unione duratura. L’amore non è cieco, soprattutto non lo è l’amante, che non si preclude un’oculata e volontaria gestione del suo innamoramento: Ghismonda riflette a lungo, soppesa le varie ipotesi, e decide dì conseguenza, dopo avere costruito un solido edificio di desiderio e passione. Importanza determinante hanno i criteri della scelta: poiché si tratta di cercare un amore perfetto e duraturo, è ovvio che deb­ba essere scelto il migliore, cioè quello che, secondo la terminologia medievale, ha maggiore virtù. La scelta del migliore vale anche per l’organizzazione sociale: chi ha maggiore virtù è destinato a comandare, ad avere quantomeno un ruolo più elevato. Chi si oppone, per malvagità o trascuratezza, come Tancredi che non ha “promosso” Guiscardo, a questa necessità, è da biasimare, perché, impedendo la mobilità sociale, impedisce di fatto il rafforzamento della comunità a cui il signore ha il diritto ma soprattutto l’obbligo di provvedere (questo è un elemento tipicamente medievale, feudale, qui non ancora del tutto superato). A questa “virtù” Ghismonda, secondo una lunga tradizione, dà il nome di “nobiltà”, e le contrappone una nobiltà falsa, quella del sangue, usurpazione di una nobiltà vera che apparteneva a qualche antenato, alla nobiltà d’animo, quella che appariva nel pur povero Guiscardo. Perché la società e anche l’amore possano funzionare, le due nobiltà devono andare d’accordo, e poiché non è possibile dare la nobiltà d’animo, se non ce l’hanno, ai nobili di sangue, occorre riconoscere come nobili de facto coloro che lo sono per natura. C’è un forte richiamo a Tancredi sul finire del discorso, che mostra un tratto particolarmente saliente della nobiltà: è nobile colui che è responsabile, che compie le proprie azioni con consapevolezza, senza recriminare sulle conseguenze per sé.

Un tratto di questo discorso è stato spesso sottolineato dai critici: il “femminismo” di Ghismonda. In effetti, questo elemento c’è, al di là del fatto che in amore è lei a condurre il gioco. Quello che rivendica è la propria nobiltà, nel senso dell’autonomia dì decisione; più che una parità donna/uomo, rivendicata per esempio nei confronti di Tancredi, reclama una parità di tutti i nobili, in qualunque corpo sia calata la loro virtù.

Conobbe il prenze la grandezza dell’animo della sua figliola ma non credette per ciò in tutto lei sì fortemente disposta a quello che le parole sue sonavano, come diceva; per che, da lei partitosi e da sé rimosso di volere in alcuna cosa nella persona di lei incrudelire, pensò con gli altrui danni raffredare il suo fervente amore, e comandò a’ due che Guiscardo guardavano che senza alcun romore lui la seguente notte strangolassono; e trat­togli il cuore a lui il recassero. Li quali, così come loro era stato comandato, così operarono.

Laonde, venuto il dì seguente, fattasi il prenze venire una grande e bella coppa d’oro e messo in quella il cuor di Guiscardo, per un suo segretissimo famigliare il mandò alla figliuola e imposegli che quando gliele desse dicesse: “Il tuo padre ti manda questo per consolarti di quella cosa che tu più ami, come tu hai lui consolato di ciò che egli più amava”.

Di fronte al discorso di. Ghismonda, Tancredi è inerme. Quanto è forte l’impegno vero di lei? quanto si tratta di esibizione di dottrina? Quanto, nei termini precisi in cui il principe si trova ad affrontare la questione, la trasformazione in uomo della giovane è completa? davvero sta comportandosi, e non solo parlando, come un cavaliere? A ciò si somma una confusione che è tutta di Tancredi, quella fra amore paterno e amore-passione, che lo fa animare di un sentimento ai limiti dell’incesto: amore disordinato, innaturale, che abbaglia chi ne è preso. Un tema che qui emerge con forza, e che appartiene all’imagerie erotica non solo medievale, è la sineddoche cardiaca, che sarà al centro dello sviluppo successivo della novella. Qui è utilizzato come strumento di sarcasmo, ma non tarderà a essere piegato per altre necessità. Si rammenti che la sineddoche appartiene al dominio della metonimia, e che la metonimia è legata (cfr. Frazer) a una delle modalità della magia, quella per contagio.

Ghismunda, non smossa dal suo fiero proponimento, fattesi venire erbe e radici velenose, poi che partito fu il padre, quelle stillò e in acqua redusse, per presta averla se quello di che ella temeva avvenisse. Alla quale venuto il famigliare e col presento e con le parole del prenze, con forte viso la coppa prese; e quella scoperchiata, come il cuor vide e le parole intese, così ebbe per certissimo quello essere il cuore di Guiscardo; per che, levato il viso verso il famigliare, disse: “Non si convenia sepoltura men degna che d’oro a così fatto cuore chente questo è: discretamente in ciò ha il mio padre adoperato”.

Notiamo come il discorso di Ghismonda, nel privato, pur partendo dai consueti moduli “scientifici” (la preparazione del veleno avviene secondo modalità che si legano strettamente alla medicina dell’epoca), si sviluppa in direzione assai più sentimentale: la certezza che il cuore sia quello di Guiscardo è ottenuta per via di intuizione, la forza d’amore è sentita più che dimostrata essere quella che unisce i contrari, il compianto che si avvia acquista un forma di rito funebre privato, che sarà nei capoversi seguenti l’occupazione centrale di Ghismonda.

E così detto, appressatolo alla bocca, il basciò, e poi disse: «In ogni cosa sempre e infino a questo stremo della vita mia ho verso me trovato tene­rissimo del mio padre l’amore, ma ora più che già mai; e per ciò l’ultime grazie, le quali render gli debbo già mai: di così gran presento, da mia parte gli renderai”.

Questo detto, rivolta sopra la coppa la quale stretta teneva, il cuor riguardando disse: “Ahi! dolcissimo albergo di tutti i miei piaceri, maladetta sia la crudeltà di colui che con gli occhi della fronte or mi ti fa vedere! Assai m’era con quegli della mente riguardarti a ciascuna ora. Tu hai il tuo corso fornito, e di tale chente la fortuna nel concedette ti se’ spacciato: venuto se’ alla fine alla quale ciascun corre: lasciate hai le miserie del mondo e le fatiche e dal tuo nemico medesimo quella sepoltura hai che il tuo valore ha meritata. Niuna cosa ti mancava a aver compiute essequie, se non le lagrime di colei la qual tu vivendo cotanto amasti; le quali acciò che tu l’avessi, pose Idio nell’animo al mio dispietato padre che a me ti mandasse, e io le ti darò, come che di morire con gli occhi asciutti e con viso da niuna cosa spaventato proposto avessi; e dateleti, senza alcuno indugio farò che la mia anima si congiugnerà con quella, adoperandol tu, che tu già tanto cara guardasti. E con qual compagnia ne potre’ io andar più contenta o meglio sicura a’ luoghi non conosciuti che con lei? Io son certa che ella è ancora quincentro e riguarda i luoghi de’ suoi diletti e de’ miei e, come colei che ancora son certa m’ama, aspetta la mia dalla quale sommamente è amata”.

Emerge chiaro l’elemento della protesta: finora a Tancredi veniva rinfacciata l’irresponsabilità, ora è riconosciuto responsabile dell’errore, è lui ad opporsi alla storia che si sviluppa, alla nuova razionalità proposta dalla figlia. Ma il senso principale di questo passo è un altro: vi si consuma completamente la dimensione tragica della storia narrata, che, proprio come nella tradizione, si configura come contrasto fra necessità del potere politico e libertà dell’ordine morale. (Forse è proprio il canonico contrasto fra dovere politico e piacere erotico). Di suo, Ghismonda aggiunge la giustificazione razionale dell’amore, che lo fa essere necessitato, come abbiamo visto sopra. Questa metamorfosi in senso tragico fa si che si trasformi la stessa natura dell’amore, in un processo di sublimazione: ora non si tratta più di amore per il corpo, bensì. di amore per l’anima.

E così. detto, non altramenti che se un fonte d’acqua nella testa avuta avesse, senza fare alcun feminil romore, sopra la coppa chinatasi piagnendo cominciò a versare tante lagrime, che mirabile cosa furono a riguardare, basciando infinite volte il morto cuore. Le sue damigelle, che da torno le stavano, che cuore questo si fosse o che volesson dire le parole di lei non intendevano, ma da compassion vinte tutte piagnevano e lei pietosamente della cagion del suo pianto domandavano invano e molto più, come meglio sapevano e potevano, s’ingegnavano di confortarla.

La qual poi che quanto le parve ebbe pianto, alzato il capo e rasciuttisi gli occhi, disse: «O molto amato cuore, ogni mio uficio verso te è fornito, né più altro mi resta a fare se non di venire con la mia anima a fare alla tua compagnia”.

E questo detto, si fé dare l’orcioletto nel quale era l’acqua che il dì davanti aveva fatta, la quale mise nella coppa ove il cuore era da molte delle sue lagrime lavato; e senza alcuna paura postavi la bocca, tutta la bevve e bevutala con la coppa in mano se ne salì sopra il suo letto, e quanto più onestamente seppe compose il corpo suo sopra quello e al suo cuore accosto quello del morto amante: e senza dire cosa alcuna aspettava la morte.

 

Le donne della servitù hanno la funzione del coro nella tragedia. Su questo sfondo, troviamo due cose interessanti: la commistione di funerale e comunione religiosa riservata al cuore di Guiscardo, e l’utilizzazione del suicidio come strumento in qualche misura “matrimoniale” (vedremo alla fine che questo inedito metodo ha avuto efficacia).

Le damigelle sue, avendo queste cose e vedute e udite, come che esse non sapessero che acqua quella fosse la quale ella bevuta aveva, a Tancredi ogni cosa avean mandato a dire; il qual, temendo di quello che sopravenne, presto nella camera scese della figliuola, nella qual giunse in quella ora che essa sopra il suo letto si pose; e tardi con dolci, parole levatosi a suo conforto, veggendo ne’ termini ne’ quali era, cominciò dolorosamente a piagnere.

Al quale la donna disse: “Tancredi, serbati coteste lacrime a meno disiderata fortuna che questa, né a me le dare, che non le disidero. Chi vide mai alcuno altro che te piagnere di quello che egli ha voluto? Ma pure, se niente di quello amore che già mi portasti ancora in te vive, per ultimo don mi concedi, poi a grado non ti fu che io tacitamente e di nascoso con Guiscardo vivessi, che ‘l mio corpo col suo, dove che tu te l’abbi fatto gittare, morto palese stea”.

Della tragedia classica, la storia di Ghismonda, più potente perché vera, ha assunto una caratteristica centrale, almeno nei confronti di Tancredi: è uno strumento educativo; Tancredi cambia di natura, si perfeziona, sublima il suo modo di intendere nobiltà e potere, sulla via di una possibile redenzione.

L’angoscia del pianto non lasciò rispondere al prenze; laonde la giovane, al suo fine esser venuta sentendosi, strignendosi al petto il morto cuore, disse: “Rimanete con Dio, che io mi parto”. E velati gli occhi e ogni senso perduto, di questa dolente vita si dipartì.

Così doloroso fine ebbe l’amor di Guiscardo e di Ghismunda, come udito avete: li quali Tancredi dopo molto pianto e tardi pentuto della sua crudelta, con general dolore di tutti i salernetani, onorevolmente ammenduni in un medesimo sepolcro li fé sepellire”. –

Il sacrificio di Ghismonda dunque non è stato inutile: il costume di Salerno è cambiato.

Seguito questo breve itinerario, siamo in grado di avanzare qualche ipotesi interpretativa su cosa Boccaccio intenda per amore.

È cosa naturale, uomini e donne sono naturalmente inclinati ad amare; in ciò non c’è nulla di condannabile: si tratta di una legge di natura che, come tale, impone la propria necessità. Anzi, se si cerca di contraddire questa legge, oppure di condizionare il naturale stimolo ad amare, si rischiano contraccolpi pericolosi.

Se però amare appartiene alla natura, la definizione e la pratica dell’amore appartengono alla cultura e sono soggette ad evoluzione storica: il che non è esente da pericoli, perché in momenti di passaggio può creare contraddizioni anche tragiche, come fra le idee diverse di Tancredi e Ghismonda. Né si può pensare che l’amore sia un regno di totale sensibilità e intuizione arazionale: c’è razionalità in esso, specie nel momento della scelta. Ciò comporta per gli amanti delle conseguenze etiche, poiché amare vuol dire cercare l’amante/amato giusto, quello sufficientemente nobile. In questa scelta l’amante è governato da totale libertà, fatti salvi però gli aspetti morali - per esempio, si dovrà astenere dal dare scandalo, qualunque cosa ciò significhi.

Ci può essere contraddizione fra le necessità morali e quelle erotiche: nel caso di Ghismonda, ad es., sarebbe stato comprensibile che ella scappasse con Guiscardo, che facesse un matrimonio d’amore, ma ciò sarebbe negativo e scandaloso. Di qui la scelta di star nascosti, compiuta dai due amanti. È un tema di natura tragica, assai rilevante per Boccaccio e per gli scrittori a venire.

L’amore, poi, ha un significato sociale evidente, in quanto è legato al tema della nobiltà e della virtù, dunque dello sviluppo sociale; amore e nobiltà sono, si può dire, traducenti nell’ambito dei rispettivi sistemi di segni.

Infine, c’è un mistero, di fronte al quale l’autore non può che fare presa d’atto: amore è legato insieme alla vita e alla morte, è come la freccia di Achille che ha il potere di ferire e risanare.

Questi sono i risultati di una lettura sincronica di Boccaccio e del Decameron in particolare. Cercheremo, attraverso un percorso piuttosto ampio, di storicizzare questa lettura, per comprenderla in modo più approfondito.