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Pleniluni e quarti di luna

 

Dame e cavalieri

Radici medievali della sensibilità moderna

ottobre 1997- aprile 1998

 

5 La sensibilità medievale e moderna

 

5.1 Sensibilità. Alcune definizioni preliminari

5.2 Sensibilità e passione

5.3 Modernità e dominio

5.4 Tecnica

5.5 Festa

5.6 Sport

 

5.1 Sensibilità. Alcune definizioni preliminari

Il mondo esterno è per definizione non conoscibile se non in relazione al percipiente; la modalità particolare alla percezione si dice sensibilità (un esempio potrebbe essere relativo agli strumenti di misura: essi presentano appunto delle sensibilità diverse, in primo luogo al campo in cui svolgono le loro misurazioni - il galvanometro le correnti elettriche, la bilancia il peso; in secondo luogo al tipo di discriminazione che sono in grado di operare - la grande bilancia a ponte misura le decine di tonnellate ma non discrimina i chilogrammi, la bilancetta da farmacista non può pesare i quintali, però distingue i milligrammi). Nell’uomo è la stessa cosa: esso ha la capacità di percepire determinati fenomeni, e quelli soltanto, e ha la possibilità in essi di operare discriminazioni solo entro un determinato campo

La sensibilità è sempre sensibilità “a” qualcosa, non si dà assoluta se non per ellissi. Così avremo, per esempio, pellicole fotografiche sensibili al rosso, o car­tine di tornasole sensibili all’acidità di un fluido. Si parla, in effetti, di pellicola “sensibile”, ma con questo si intende semplicemente dire che è particolarmente suscettibile di essere impressionata, che è cioè sensibile alla luce in maniera assai accentuata.

La sensibilità, in ogni suo aspetto ma particolarmente in quelli cosiddetti “morali”, è soggetta a variazioni storiche, geografiche e individuali. Ci sarà chi è sensibile ai colori, e in essi distinguerà certe tonalità e altre no; chi è maggiormente sensibile ai suoni; chi percepirà certi comportamenti o certi contesti come problematici e chi no. Per esempio, noteremo che la sensibilità discriminante relativa all’azzurro e al blu è diversa nell’area linguistica anglosassone (dove è coperta tutta dall’unico vocabolo blue) e in quella neolatina (in particolare, in italiano si distinguono ceruleo, azzurro, celeste, blu, indaco). Sul piano storico, la sensibilità greca antica non aveva chiara distinzione di colori per noi diversissimi come possono essere il rosso o il giallo. Non serve qui illustrare le diverse sensibilità cromatiche individuali, anche al di là di possibili patologie (daltonismo): il turchese è verde o azzurro?

Questo genere di varietà sa presenta accentuato nel mondo morale: i fenomeni a cui gli uomini prestano attenzione sono assai vari. Si noti per esempio come diversa sia la sensibilità verso la sofferenza animale nelle civiltà primitive, nelle attuali civilizzazioni islamiche e nella moderna civiltà occidentale; nonché l’atteggiamento differente di fronte ad essa assunto dal macellaio, dal cuoco, dalla ragazza di buona famiglia.

La varietà delle sensibilità porta, soprattutto sul piano storico, a una conseguenza: in epoche diverse (ma si potrebbe dimostrare facilmente che il fenomeno si ha anche per luoghi diversi) le medesime espressioni indicano sensibilità diverse. Il caso forse più studiato è quello dell’amore, che ha subito continue evoluzioni storiche, al punto che non sempre è possibile, ora, farsi un’idea precisa su cosa questa parola volesse dire in passato (occorre, come nei casi analoghi, un’esplorazione “archeologica” del concetto).

C’è un uso linguistico particolare, che ha per oggetto in modo particolare le persone, e che merita di essere indagato: si dice “quel tale è sensibile”. Questa forma assoluta ha senso, si diceva, solo per ellissi; di cosa è ellissi? A cosa ci si riferisce? In generale, si può notare che il rinvio va a ciò che, per comodità, chiameremo degli “imperativi morali”; si è cioè sensibili in modo positivo a fenomeni come la sofferenza, il dolore, oppure la bellezza e l’armonia, cose la cui “comprensione” porta l’uomo “più avanti” sulla strada dell’umanità. (Le parole tra virgolette ovviamente non sono una soluzione ma altrettante finestre problematiche).

Non è detto che le persone “sensibili”, come si possono definire in base a queste ultime considerazioni, pratichino davvero le “virtù” positive che dovrebbero discendere dalla loro particolare sensibilità; sarebbero disposizioni che non favoriscono sempre la vita reale e dunque il successo (basti pensare al proverbiale conflitto fra la pietà - sensibilità per il dolore - e l’arte medica: «il medico pietoso fa la piaga verminosa»). Ne consegue che la sensibilità viene apprezzata in teoria e respinta nella pratica.

Perché dunque questa sensibilità così apprezzata a parole e svillaneggiata nei fatti? Si può notare che si tratta di una sensibilità a un dover essere piuttosto che ad un essere. Si è cioè sensibili senza attributi, e ciò appare una virtù (ma non sempre: «il tale è troppo sensibile»), a cose che costituiscono una riserva ideologica, spesso in conflitto con la realtà storica.

È chiaro che la sensibilità, come l’abbiamo definita, è un modo di modellizzare il mondo, una Weltanschauung priva però della solidità che di solito si attribuisce a queste espressioni, perché essa può cambiare in ogni momento, per questioni del tutto al di fuori della possibilità umana di controllo. Non occorre fare l’esempio drastico del vedente che perde la vista o viceversa; è probabile che se un tale, ad esempio, vince dieci miliardi alla lotteria svilupperà in breve una sensibilità agli aspetti finanziari prima sconosciuta.

La mia tesi è che la sensibilità moderna, definita come ho tentato di fare in base alla sua variabilità storica, così come si è costituita, abbia la propria origine in quella medievale, in modo particolare in quella che è detta «cortese», e che sia possibile ricostruire alcuni percorsi di questa archeologia.

 

5.2 Sensibilità e passione

Alla sensibilità è strettamente legata la passione.

Passione designa in genere un fenomeno ricettivo, di modificazione e al limite di alterazione patologica, ed implica pertanto l’azione di un ente esterno; la passione ha a che fare con la conoscenza, poiché si conosce il mondo esterno attraverso l’azione che esso compie su di noi; in questi termini sono passioni le sensazioni e anche l’intelletto quando si limita a prendere coscienza delle sensazioni; si dicono “passioni” anche le inclinazioni dell’anima, poiché essa appare in questo caso subire l’azione di una qualche entità esterna. Quest’uso terminologico è molto antico, e risale almeno ad Aristotele (De anima, Il, 3-5). Lo Stagirita pone il problema in un modo che diventerà classico: la passione è, in generale, una modificazione dell’anima, e in quanto tale è male, perché attenta all’integrità, alla perennità di essa. Egli sottolinea un aspetto importante: postulato che le passioni siano affezioni dell’anima, di qualcosa cioè di extra- e sovraordinato rispetto al corpo, non si può affermare che le sensazioni risiedano nei sensi, ma non possono che essere qualificate come affezioni dell’anima. Il problema classico che qui si pone è la difesa dell’anima stessa dal mondo esterno; essa dovrebbe essere (in sintesi, e secondo una linea che già è presente in Platone) in grado di reagire, con la sua virtù razionale, affermando l’intelletto agente su quello passivo, affermando se stessa contro il mondo esterno.

Appare chiaro il legame fra passione e sensibilità: se non esistesse la predisposizione di un uomo a percepire un qualche aspetto del mondo esterno, diventerebbe difficile immaginare che per esso possa immaginare qualche passione. Un argomento tipico è quello del cieco che non può avere passioni relative alla vista, in modo particolare all’amore che, secondo alcuni trattatisti medievali (si può citare l’incipit, chiarissimo, di un famoso sonetto di Jacopo da Lentini:

Amore è un desio che vien da core

per abundantia di gran plazimento,

e gli ogli in prima generan l’amore

e lo core li da nutricamento. )

si può determinare solo in coloro che siano dotati della vista. Cfr. Andrea Cappellano (De amore, IX, in traduz. d’epoca):

Lo cieco non pô amare, perciò che non può vedere ciò onde abia grande pensiero, però non può amare, come detto è. Ma questo è vero in volere amare, ma s’inanzi che fosse cieco l’avesse acquistato, puotelo ritenere.

Esiste cioè una sorta di memoria delle passioni, per cui io potrei, almeno cosi par cercare di farci capire Andrea, immaginare la sensazione della vista e in base ad essa concepire la passione corrispondente, a patto che la cecità sia una condizione acquisita. Il cieco nato, invece, secondo questa teoria sarebbe irrimediabilmente perduto a questa passione.

 

5.3 Modernità e dominio

La società moderna differisce da quella antica in molti tratti, e ciò appare del tutto ovvio.

Mi soffermerò qui su uno di questi aspetti, a mio avviso centrale, perché su di esso si costituiscono molti rapporti sociali.

Sia per quanto riguarda Atene che Roma, per esempio, c’erano, nettissime, due categorie di cittadini: gli eguali (pienamente sui iuris, almeno in teoria) e gli schiavi, che invece erano sottoposti. Un caso particolare era la condizione della donna libera, che era sempre «schiava» di un uomo: il padre, il marito. In questo tipo di società, veniva percepita come positiva la posizione dei padrone, dell’uomo sui iuris che disponeva di donne e di schiavi. Le cose cambiarono. Non serve qui individuare la genesi di questo cambiamento; ci limitiamo a ricordare un’ipotesi accreditata, che assegna un ruolo importante alla diffusione del cristianesimo: questa religione rifiuta, almeno in linea di massima, l’idea della sottomissione totale, della proprietà che, nel sistema schiavistico, assegna a un uomo la piena disponibilità di un altro. Accettiamo provvisoriamente questa tesi, per notare che il nuovo ideale non è il dominio, ma la piena sottomissione, tipica per esempio dei santi. Essi sono coloro che, completamente, si sottomettono a Dio. Nella versione mondana, il monaco che sta nel convento abbandona ogni propria volontà per consegnarsi nelle mani del priore: il massimo viene teorizzato nel ‘500 da Ignacio de Loyola, secondo cui il monaco deve obbedire perinde ac cadaver, come fosse un cadavere nelle mani del becchino.

Questa disposizione può essere chiaramente percepita in certe manifestazioni tipiche del nostro tempo: si è notato come le dittature novecentesche abbiano attecchito in Europa occidentale, in paesi che avrebbero dovuto essere democratici ed egualitari, e che si sono rette avendo a disposizione un forte consenso di massa. Appare evidente che chi li sosteneva, magari contro interessi immediati e visibili (ci sono stati ebrei che hanno approvato il fascismo fino all’imminenza della guerra) si è lasciato irretire dall’ideale della sottomissione.

Ciò non è esente da contraddizioni: esiste tutto un coté del moderno che di­fende al contrario l’idea del dominio attivo (potremmo dire che questa è una concezione faustiana della modernità: forse la versione più tipica è quella economicistica, ma non mancano versioni “politiche”, per esempio il cosiddetto “darwinismo sociale”).

Forse questa contraddizione si può risolvere considerando il sentimento, di certo moderno, dell’assenza o meglio della perdita di un altro più forte di me e che per me è provvidenziale (ne parla Leopardi in qualche luogo dello Zibaldone). Nella versione faustiana si cerca di rimediare a questa perdita semplicemente ipotizzando di sostituirsi, proprio in termini individuali, a quella provvidenza che si ritiene perduta.

Va però osservato che, se questo e vero, troviamo la stessa situazione in molte concezioni classiche: anche 1ì (per esempio in ambiente stoico e, per fare un nome, in Seneca) si incontra la malinconia derivante dall’assenza. La differenza radicale è che l’antichità non aveva forti capacità tecnologiche, almeno non nel senso di Francesco Bacone (la tecnica che trasforma consapevolmente il mondo) e ciò non permetteva un vero dominio: l’uomo non poteva ancora sostituirsi a Dio nel crearsi il proprio mondo (intendo qui per «mondo» semplicemente il dintorno prossimo, che cade sotto la mia esperienza immediata, e che è più alla portata del cambiamento).

Sto usando la parola “dominio” in due accezioni complementari e diverse, che possono coesistere e in effetti coesistono nella nostra società: nel primo senso, il dominio riguarda i rapporti fra gli uomini, nel secondo i rapporti fra gli uomini e il mondo a loro esterno, C’è una certa sfasatura fra le modificazioni della prima e della seconda qualità di dominio.

Il mio assunto è che il moderno inizi con l’età cavalleresca, e che in quella fase il dominio si configuri come rapporto fra gli uomini, nei termini della ricerca di sottomissione (se ne trovano tracce negli ideali feudali e, si. vedrà, nella sua trasposizione letteraria, che va sotto il nome di amor cortese); nello stesso periodo, in modo più sotterraneo, si sviluppa un’ipotesi apparentemente estranea, quella del dominio dell’uomo sulla natura. Questo dominio esisteva come progetto, e trovava incarnazione nella figura del mago. Ma, a ben vedere, anche l’amor cortese è sempre stato progetto, mai concreta realizzazione.

Enunciata per ordine, la teoria sarebbe questa:

- quando (al tempo dei castelli e delle corti signorili) il Medioevo si laicizza, elabora un’ipotesi di dominio, cioè di sottrazione alla provvidenza di parte almeno della potestà sull’ambiente (in primis della società: Marsilio da Padova, e già Tommaso d’Aquino, ecc.); la prima manifestazione di questo progetto di dominio sono le operazioni magiche, a prescindere dalla loro efficacia;

- la perdita di sottomissione così elaborata certo favorisce la volontà di potenza, ma si traduce anche nella necessità di costituire un qualche Ente che sostituisca la Provvidenza , essendo in qualche modo gestibile dalla dimensione mondana. È la signora: in questa logica è leggibile il progetto cortese dell’inchiesta, tipico dei romanzi cavallereschi, la ricerca di questa dipendenza progettata e sostitutiva. Persino il piano religioso viene influenzato da questa sostituzione: è l’epoca in cui si afferma il culto mariano, quasi sostituto di quello per Dio padre e Signore;

- ne segue che, per certi versi, l’ordine feudale dipende dall’ordine amoroso e non viceversa, che costitutivo è il rapporto cavaliere-dama, metafora di quello, soppresso, uomo-provvidenza; a sua volta, la dialettica servo-signore nasce come imitazione politica della situazione erotica;

- la ripresa delle conoscenze classiche (non è qui il caso di ricordare come esse siano state tramandate più dalla cultura popolare che da quella ufficiale) favorisce la trasformazione dell’ipotesi di dominio in realtà e la sostituzione della tecnica alla magia, attraverso un lungo cammino che vede gli astronomi occuparsi di astrologia, gli scienziati lavorare a lungo nelle suggestioni dell’alchimia, ecc.;

- infine, troviamo la piena costituzione del moderno quando le due ipotesi, il dominio faustiano e la sottomissione, raggiungono la piena enunciazione nelle “teorie” contrapposte del sadismo e del masochismo.

Un’impostazione di questo tipo risolve anche la questione del rapporto fra amore cortese e stregoneria, l’oscillare del primo fra attività dell’amante e suo essere oggetto di passione, magari diabolica. Questo tema si può verificare in tempi abbastanza remoti, per esempio nel XII secolo, con la saga di Tristano.

 

5.4 Tecnica

Ci sono diversi tipi di tecnica, più o meno orientati a modificare il mondo esterno e/o l’essere individuale dell’agente; il “più o meno” va poi declinato secondo le categorie dello spazio e del tempo.

Es. è somma tecnica quella del musicista, che agisce su di sé, rendendosi capace di ciò a cui prima era inetto; su di lui questa modificazione è press’a poco permanente, ma il risultato sul mondo esterno è del tutto transeunte: una nota suonata in un certo modo passa nel momento stesso in cui è eseguita; di come eventi di questo tipo costituiscano insiemi significativi non è qui il caso di discorrere.

Es. tecnica in senso affine, ma caratterizzata da implicazioni diverse circa la durata è quella del pittore; anch’egli compie un lungo lavoro su di sé per usare il pennello proprio in quel modo, ma il risultato della sua tecnica acquista concretezza, come dire, materiale e va a modificare stabilmente il mondo esterno.

Es. il manovratore di ascensori; qui non occorre lavoro su se stessi, poiché la tecnica è elementare e non implica alcuna trasformazione del soggetto agente; la modificazione esterna è nulla, poiché ci si muove all’interno di un insieme di stati finiti e ripetitivi.

Es. la costruzione di una diga; il lavoro su se stessi, pure in qualche caso (il progettista) notevole, alla fine si rivela ridotto rispetto alla trasformazione del mondo esterno (Assuan).

Questi esempi afferiscono al tempo; sarebbe agevole trovarne altri relativi allo spazio.

In ogni caso, il tempo è essenziale per definire la tecnica; infatti ogni prodotto tecnico è ottenuto attraverso un processo che si svolge appunto nel tempo: avevo il blocco di marmo, con lo scalpello ho levato il superfluo, e ne è uscita la statua che vi era contenuta; tutto questo ha richiesto un tempo: tre minuti o vent’anni non importa.

Si pone un problema: quando è avvenuta la trasformazione da blocco di pietra in statua? in altre parole, quando la tecnica ha dispiegato completamente la sua funzione?

La domanda non ammette risposta: se all’inizio avevo certo pietra e alla fine ho di sicuro statua, i passaggi sono stati infiniti, e potrei sempre trovare che fra due stati successivi e discriminati, per quanto vicini, ne posso sempre trovare uno di intermedio.

Potrei superare la difficoltà dicendo che nella pietra c’era la statua (in potenza) e nella statua (come causa materiale) c’è la pietra, ma si tratta di poco più che un gioco di parole.

Il problema a ben vedere è grave: perché se c’è gradualità di trasformazione, alla fine la trasformazione a rigore non c’è (si ricordi l’argomento dell’Achille che non può mai raggiungere la tartaruga).

Qui soccorre il concetto di magia: al quale assegno una duplice funzione.

C’è una magia reale: constatazione di una trasformazione avvenuta, la pietra si è fatta statua; una magia immaginaria, quella che qui mi interessa, abolizione del tempo nella trasformazione. Quando i maghi gettano i loro incantesimi (cfr. Novellino), la trasformazione avviene senza un tempo intermedio, immediatamente. C’è un pun­to di discontinuità nel tempo.

Nel corso del Medioevo, però, la musica cambia, perché, come nella storia di Madonna Dianora, il mago, o negromante, ha bisogno di un tempo, seppur breve, per compiere le proprie operazioni.

Come definire la magia?

per quanto mi riguarda è una tèchne, che differisce formalmente dalla tecnica. Infatti, la magia si illude dell’esistenza di un sapere assoluto, di un’episteme meramente teoretica oppure rivelata; la tecnica deriva invece dalla scienza sperimentale, e utilizza conoscenze parziali, un sapere-per.

Ne consegue che l’azione del negromante si è venuta configurando durante il Medioevo come essenzialmente tecnica e non magica.

 

5.5 Festa

Quello della relazione magia/tecnica non è l’unico ambito in cui si possono osservare congruenze fra Medioevo ed età moderna, e discontinuità col mondo classico. Accennerò ad alcuni di questi ambiti, rinviando a un secondo momento la trattazione del più importante fra di essi, quello dell’amore e delle passioni in genere.

Il calendario romano conosceva i dies festi, giorni riservati agli dèi, in cui si tengono i sacrifici, le cerimonie, i festeggiamenti. Tali giorni erano anche dei dies quieti, in cui non si doveva lavorare, per quanto potessero essere ammesse eccezioni (se ti cade un bue nel burrone1 anche di festa lo potrai recuperare) (concetti del genere si ritrovano nelle Sacre Scritture, soprattutto nella loro interpretazione cristiana). Le celebrazioni dei giorni di festa - feriae - appartenevano alla vita pubblica (erano pro populo), ed erano svolte secondo leggi e modalità ben determinate. Ciò valeva anche per le feriae privatae. In generale, seguendo la traccia segnata dai Fasti di Ovidio, il più ricco repertorio dell’antichità in questa materia, si può concludere che le feriae comprendevano dei riti, che a loro volta trovavano giustificazione in miti che ne «spiegano» il significato. Le feste erano inserite nel calendario e nella vita religiosa, che a sua volta costituiva l’asse portante della vita pubblica; il loro senso consisteva nell’offrire agli dèi un tempo prelevato da quello della propria vita mondana: in altre parole erano un sacrificio, un alienarsi un tempo per darlo ad altri.

Di questo troviamo traccia in Lucio Apuleio, il quale riporta nel suo Asinus aureus (X,18 segg.) la narrazione di un giorno festivo, nelle sue diverse caratteristiche.

Si sta parlando della festa che Tiaso, duumviro quinquennale di Corinto, darà dopo qualche giorno: egli, che era andato in Tessaglia per comprare bestie e gladiatori, vuole tornare cavalcando Lucio, ridotto ad asino per la scarsa abilità magica di Fotide. Alla festa ci saranno i consueti spettacoli, e in più uno nuovo: l’accoppiamento dell’asino non con la signora che ne è innamorata e nottetempo ne gode le grazie, ma con una donnetta che spera di evitare in tal modo la morte per le zanne delle belve. Una poco di buono, tanto che l’asino ha schifo all’idea di goderne. Fortuna che è aprile e stanno per sbocciare le rose: per rompere l’incantesimo, Lucio non avrà che da assaggiarne.

La festa consiste dunque in uno spettacolo, al quale partecipano tutti i cittadini di Corinto, come spettatori (le gradinate del teatro sono piene; l’asino, attrazione della giornata, viene accompagnato fino al teatro da un codazzo di gente) e come attori: sono loro che danzano la pirrica, con eleganti evoluzioni geometriche. Scena mitologica: il giudizio di Paride, con molte variazioni, personaggi, effetti, specie per Venere, che adesca il povero giudice-Paride e lo convince facilmente. Che meraviglia c’è se i giudici vendono le loro sentenze? ce l’insegnano gli dèi. È tempo che entri in scena Lucio, assai recalcitrante, e la sua improbabile partner. Lucio fugge.

Gli elementi determinanti di questo passo, per comprendere cosa sia «festa» per Apuleio, sono i seguenti:

1. partecipazione collettiva (sono presenti i cittadini come attori e spettatori) e indifferenziata (non vi sono ruoli particolari, se non funzionali (ballerini, attori, comparse...)

2. ritualità: nel duplice senso della ripetitività (la festa si tiene per tradizione, non c’è volontà individuale né festeggiamento di qualcuno). È una società che si riconosce nella festa, trova in essa un linguaggio comune.

3. spettacolo, i cui protagonisti sono due “condannati”, che non si “divertono” per niente in tale ruolo. Attraverso lo spettacolo, si rinforzano i vincoli che uniscono un popoìo, segnalati da miti riconosciuti come comuni che formano una conseguente

4. tradizione. Assicurata dal rinvio a tematiche che sono patrimonio di tutti.

5. funzione sociale diretta. La festa è un luogo di giustizia, tant’è vero che la donnetta viene punita in quello che dovrebbe essere il clou della festa.

Si tratta di una serie di manifestazioni che fanno catalogare la festa classica1 di cui questa è un esempio tipico (feste greche: olimpiadi, pitiche, panatenaiche, tetralogie teatrali, manifestazioni in cui tutte troviamo spettacolo, sacrificio, momento religioso, momento politico; feste anche romane, cui si aggiunge la bieca ritualità del combattimento gladiatorio e del dare ad bestias i condannati), come momento essenzialmente pubblico, necessario alla vita della comunità.

Quando un potente vuole decretare la festività, come fa qui Tiaso, è costretto a farlo dentro questi schemi.

La tradizione cristiana (in modo particolare quella cattolica e in essa l’alto Medioevo e gran parte del basso) non esce da questa logica: il riposo settimanale è motivato con un richiamo al mito della creazione, per cui il settimo giorno è destinato al riposo. Questo riposo, nella tradizione giudaica, va inteso in senso forte, tanto che da esso è espunto il concetto di occupazione autonoma: le uniche attività ammesse riguardano il culto. Anche nella versione cattolica, la domenica è destinata anzitutto al rito della messa, e così gli altri giorni festivi, dedicati a un particolare aspetto o emanazione della divinità (come il culto dei santi). In ognuno di questi eventi, lo spazio lasciato all’individuo è minimo, sul piano teorico addirittura nullo; ci si aspetta che egli si inserisca nella comunità, compiendovi quegli atti rituali che lo fanno riconoscere (a se stesso e agli altri) come componente appunto di quella società.

Lo stacco con il mondo moderno non potrebbe essere più intenso: perché ora la festa si intende solo nel senso della libertà, più esattamente in due modi:

- l’estraneazione completa dalla società e dai suoi riti (es.: “oggi faccio festa”, mi sottraggo cioè alle regole della vita normale; “è la festa di Francesco”, dedichiamo a lui il nostro tempo ma perché così vogliamo; “quel quadro è una festa per gli occhi”, è cioè così potente da distrarli da quanto di solito è necessario guardare; ecc.).

- la costituzione di vincoli sociali. di comunicazione diversi da quelli correnti epperò provvisori (es.: “in quella festa tutti hanno portato la loro bottiglia di vino”, si è cioè realizzata la provvisoria regola di portare la bottiglia per partecipare; “i professori di lettere non sono benvenuti ai rave party, ‘feste di delirio estatico’”, dove si accetta la regola di scandalizzarli; “nello speak-easy si fa festa sempre, con whisky di pessima qualità», vale a dire che in questi luoghi separati si entra per bere, e quindi si partecipa a questo particolare clima di festa; ecc.).

In ambedue i casi è facile vedere la lontananza dal pubblico, l’affermazione dello spazio privato: se l’antico romano proiettava sul pubblico le feriae privatae, da noi anche la festa pubblica, condivisa e generalizzata, diventa in quale misura privata: Natale col tuoi, Pasqua con chi vuoi.

Anzi, in alcuni casi troviamo che la festa mostra proprio l’opposizione alla “normalità” della vita sociale, la costruzione di spazi estranei ad essa e con­trapposti: ho già fatto l’esempio del rave party, ma in fondo analoga è la rimpatriata di antichi compagni di scuola. Il tempo di festa si contrappone netta­mente al tempo della consuetudine.

La transizione fra mondo classico e mondo medievale è anche qui nitida. Nel mondo medievale e moderno si è affermata una “stagione di festa» che è il carnevale; fra i molti che hanno studiato questo tema, particolarmente stimolan­te appare Michali Bachtin.

Proprio in questo periodo dell’anno liturgico viene applicato il principio della festa moderna, il rovesciamento della vita quotidiana e dei suoi valori:

Tutte queste forme [riti e spettacoli comici tipici del carnevale], organizzate sul principio del riso, presentavano una differenza estremamente netta, di principio si potrebbe dire, rispetto alle forme di culto e alle cerimonie ufficiali serie della chiesa e dello stato feudale. Esse rivelavano un aspetto completamente diverso del mondo, dell’uomo e dei rapporti umani, marcatamente non ufficiale, esterno alla chiesa e allo stato; sembravano aver edificato accanto al mondo ufficiale un secondo mondo e una seconda vita, di cui erano partecipi, in misura più o meno grande, tutti gli uomini del Medioevo, e in cui essi vivevano in corrispondenza con alcune date particolare. Tutto ciò aveva creato un particolare dualismo del mondo, e non sarebbe possibile comprendere né la coscienza culturale del Medioevo, né la cultura del Rinascimento senza tenere in considerazione questo dualismo. (Bachtin).

Torniamo ancora al rave party; è una manifestazione estrema, di rovesciamento; in esso appare chiaro il postulato di un altro mondo, opposto e contraddittorio con quello regolamentato dalla società: dove la norma è l’eccesso, dove il senso del limite è tolto e perduto: è in altre parole un analogo, nella forma, al carnevale.

(Sui rave party si aprirebbe qui un grosso spazio di discussione, intorno alla loro natura e ai loro antenati: perché in fondo i misteri dionisiaci non dovevano essere tanto diversi, e ciò sposterebbe abbastanza il nostro discorso, pur se non in modo da pregiudicarlo, perché si trattava pur sempre di uno spazio separato e “ufficioso”; per indicare due tracce di ricerca, si dovrebbe indagare sulla centralità del corpo, soggetto di esperienza carnevalesca, come osserva Bachtin, ma anche nel rave e nel rito di Dionisio; e poi sull’estasi - ecstasy si chiama non a caso la droga tipica del rave - detta in senso forte, cioè dell’uscita da sé per approdare a un essere collettivo che si suppone superiore a quello individuale, o comunque meno contraddittorio. Si arriverebbe cosi a individuare un mondo sotterraneo, ctonio, nell’antichità, che prelude oscuramente alla sensibilità medievale e moderna).

 

5.6 Sport  

C’è nel Medioevo un altro momento di festa che ha analoghi precisi nel moderno, è il torneo. In esso, nota Duby, il cavaliere era sottratto, per autonomo spirito di gioco, ai suoi doveri di combattente per la Santa Causa , e combatteva unicamente per il piacere. Un po’ il proprio: attraverso il duello conquista la dama, impone se stesso nel mercato delle armi, acquista il favore del il signore, e certo a combattere trova un autonomo piacere; un po’ perché nel torneo si fa festa per qualcun altro: il signore feudale che lo organizza, al di fuori di ogni festività religiosa, e forse anche contro, dal momento che il torneo è pur sempre contrario alla «pace di Dio».

Non molto diversa è la pratica sportiva moderna, in cui pure possiamo distinguere gli stessi due livelli del piacere, quello di chi gioca per divertirsi (è il massimo della festa individualista nel senso moderno) e quello di chi diverte gli altri (la partita di calcio che ha sostituito come attività festiva la messa, con la differenza che manca il rinvio a qualcosa dì grande, di pubblico, a valori extramondani: lo schema in questo caso è analogo a quello del rave, con l’unica differenza che manca il segreto).

C’è una contrapposizione fra gladiatori e cavalieri (che permane: i gladiatori sono professionisti, dunque mercenari, usano la loro arte per uno scopo diverso da essa; i cavalieri sono dilettanti, combattono per piacere, per mostrare la propria bravura, ecc.)

I valori veicolati sono perciò diversi: il cavaliere ha di mira la lealtà, che ben poco è utile al gladiatore.

Nello sport moderno coesistono i due aspetti, però la rinascita dello Olimpiadi, de Coubertin, è nel segno del dilettante=cavaliere.