Chi sono - Perché questa pagina - Novità e aggiornamenti - Testi - Materiali

 

Pleniluni e quarti di luna

 

Dame e cavalieri

Radici medievali della sensibilità moderna

ottobre 1997- aprile 1998

 

4. Dall’alchimia alla scienza

4.1 Arnaldo di Villanova

4.2 Ruggero Bacone

4.3 Francesco Bacone

4.4 Mikhail Bulgakov

 

Nel basso Medioevo, la conoscenza scientifica, più o meno sperimentale, si confonde, nella nozione di popolino e sapienti, con quella di magia. Di questo equivoco fecero le spese in molti; il caso più noto è Gerberto d’Aurillac, lo studioso che poi divenne il papa dell’anno Mille, il quale aveva appreso, probabilmente da ambienti arabi o arabizzanti, molte nozioni scientifiche, e per questo si fece una fama di mago; poteva anche essere pericolosa, poiché il Medioevo con i maghi non è indulgente, fors’anche per la convinzione che certe conoscenze fossero di origine musulmana, e quindi pericolose per motivi di fede.

È probabile che in ambienti islamici sia situata anche l’origine dell’alchimia medievale, per quanto questa storia è avvolta nel mistero: lo studioso che voglia interessarsene si trova in una babele di testi che, oltre presentare la difficoltà interpretativa tipica della materia, non hanno subito in genere quel lavoro filologico che è necessario a un’indagine seria; ciò ha conseguenze spesso pesanti: capita ad esempio che testi sicuramente medievali vengano attribuiti a scrittori antichi. Il problema filologico è enorme: poiché la tradizione alchemica, si suppone, è in gran parte orale, quanto i testi recenti richiamano correttamente questa tradizione? quanto la cambiano? quanto hanno capito gli alchimisti di ciò che a loro volta hanno letto o ascoltato? La stessa attribuzione dei testi agli autori lascia spazio a molti dubbi: se è abbastanza certo che quelli riferiti ad Alberto Magno, a Tommaso d’Aquino, a Raimondo Lullo non sono opera loro, quanto ragionevole è supporre che i contenuti di questi libri potessero essere condivisi dai nostri autori? Ancora: molti scritti che vengono presentati come duecenteschi o trecenteschi, in realtà vedono la luce solo due o trecento anni dopo, senza nessuna prova che si tratti effettivamente di testi di questa antichità.

A quanto consta, comunque, l’alchimia fa il suo ingresso ufficiale in Europa nel 1144, quando Robert de Ketton (o di Chester) traduce in latino dall’arabo un libro attribuito (certezza su queste attribuzioni, abbiamo visto, è una cosa da non cercare) a un eremita cristiano di Alessandria vissuto nel VII secolo.

La moda sembra essersi diffusa, le testimonianze si moltiplicano, anche se non è impossibile che si tratti di falsi redatti in epoca successiva dagli stessi alc­himisti o da qualcun altro, per scopi che noi ignoriamo.

 

4.1 Arnaldo di Villanova

Una delle poche testimonianze abbastanza sicure che possediamo dell’alchimia medievale è il trattato di Arnaldo di Villanova. Si ritiene in genere ragionevole l’identificazione di questo autore con un più noto Arnaldo, che si distinse nell’arte della medicina, per quanto non manchino dubbi su questa attribuzione; in ogni caso, al di là dell’identità di personaggi che ormai a noi sono molto distanti, interessa la registrazione di un sistema di pensiero coerente, che in questo caso appare chiaramente.

Accettiamo che Arnaldo sia il medico: nacque in Provenza grosso modo nel 1240, divenne maestro in Arti all’università di Parigi, viaggiò in Spagna e Italia: divenne professore di medicina a Montpellier, acquistando grande fama e attirando grandi folle alle sue lezioni. Ebbe problemi per eresia: infatti nel 1299 fu arrestato a causa di un libro in cui predice la venuta dell’Anticristo per il 1355 e la fine del mondo per il 1464. Fu rilasciato e tornò in Italia. Il papa Clemente V lo perdonò e lo inviò ad Avignone, ma Arnaldo morì durante il viaggio (1313).

Le teorie mediche di Arnaldo sono del tutto tradizionali, poiché si basa sulla dottrina dei quattro umori, aggiungendo l’idea che esista uno spiritus animalis, mediatore fra anima e corpo - posizione nella quale si potrebbero ravvisare le prime avvisaglie di analoghe tesi cartesiane. Le immagini mentali sarebbero il prodotto di questo spirito, che ha sede nel cuore. Un contributo importante del villanovese si ebbe col libro De regimine Sanitatis, nel quale sostenne che l’alimentazione e la condotta di vita influenzano il temperamento, e suggerì anche l’utilità dell’idroterapia. Si interessò di farmacologia e di chimica pratica, per esempio relativamente alla distillazione del vino; alcuni aspetti della sua medicina sono legati alle sue concezioni “magiche” e astrologiche.

Il trattato di cui stiamo parlando è noto come Fiore dei fiori e comincia dicendo che, in sostanza, la pietra filosofale non si estrae con i sistemi divulgati dell’alchimia, perché il simile nasce solo dal simile, e quindi non ci può essere trasformazione nel senso profondo del termine (quello, si potrebbe commentare, miracoloso, mentre Arnaldo, pur senza dirlo, sembra opinare che si deve stare dentro le leggi naturali). Il fatto è che la legge naturale è quella dell’analogia (e qui il nostro è perfettamente legato alla sapienza tradizionale); poiché quella che ci si propone di ottenere è la nascita della pietra filosofale, vi dovrà essere un principio maschile e uno femminile; il secondo apparentemente è il metal­lo da “trasformare”, il primo è l’argento vivo; questo è la ragione seminale dei metalli, una sorta di metallo di base, di Ur-Metall che è origine degli altri. Per ottenerlo c’è bisogno di una tecnica, che l’autore qui promette.

Il principio di questa tecnica è che i metalli si possono moltiplicare proprio come gli esseri viventi: uno schizzo d’argento vivo produrrà metalli, nobili (si tratta, come si vede, di una dottrina di tipo animistico, però si tenga presente che la tesi che vi sia un’anima collettiva, comune a tutti gli esseri del medesimo genere, è per esempio tipica di Averroè: questa posizione ebbe molti sostenitori nel Duecento). Non è qui il caso di riferire questa tecnica, che del resto viene espressa in termini piuttosto oscuri e involuti, tanto da far sospettare che si tratti di pura fantasia.

Più interessante è notare che una condizione essenziale per la riuscita degli esperimenti alchemici è che ciò che vi interviene dev’essere puro: altrimenti le accidentalità renderebbero impossibile l’incontro delle sostanze. Questo è importante, poiché pone l’accento sulle condizioni materiali che permettono la realizzazione di un esperimento, cosa che continuerà fino aula scienza moderna.

Si può sorridere dell’ingenuità che, ai nostri occhi, promana da queste concezioni, tuttavia sarebbe ingeneroso non accorgersi che vi sono alcuni elementi premonitori della scienza nella sua accezione a noi più consueta:

a) la commistione tra conoscenza teoretica e tecnica operativa: non ne parleremo in dettaglio, ma basti ricordare come molti storici della scienza attribuiscano a Galilei, fra gli altri, il merito di aver indirizzato la ricerca su questa strada;

b) la delineazione di una teoria complessiva, da mettere alla prova con gli esperimenti, che permette di avere un quadro di riferimento per la ricerca empirica;

c) la descrizione chiara delle diverse operazioni necessarie agli esperimenti che si compiono, dei materiali che vi intervengono, delle condizione interne ed esterne dell’esperimento;

d) l’adozione di un linguaggio tecnico preciso e univoco, che per noi è di difficile interpretazione in quanto si è persa la memoria operativa: non c’è nessuno che ci mostri più come si fa.  

4.2 Ruggero Bacone  

Sulla strada della scienza moderna un passo avanti cospicuo è quello di Ruggero Bacone, un monaco francescano (l’interesse per le questioni naturali fu a lungo caratteristica precipua degli studiosi appartenenti a quell’ordine) suc­cessivo ad Arnaldo di Villanova di un paio di generazioni (1241 ca - 1292). Studiò a Oxford e a Parigi, dove insegnò dal 1240 al ‘47; quando divenne papa Clemente IV (1265), scrisse tre capitoli (Opus maius. Opus minus. Opus tertium) di un’opera che avrebbe dovuto abbracciare tutto il sapere, e che si presenta in realtà come un piano di riforma degli studi. Quando morì Clemente cadde in disgrazia e fu imprigionato per le sue opinioni sull’astrologia.

Le tesi teologiche e filosofiche di Ruggero Bacone sono in effetti eversive: Dio ha rivelato agli uomini le verità religiose e morali, e anche quelle scientifiche; le scienze sono necessarie alla composizione delle verità rivelate e alla vita sociale e civile; la conoscenza scientifica si basa sull’osservazione e l’esperimento, ed è indispensabile per la conoscenza della verità.

Ruggero Bacone sembra una figura piuttosto centrale nel trapasso dalla magia alla tecnica. Appare innanzitutto interessante l’accento che egli pone sulle condizioni materiali in cui si svolge la ricerca scientifica, in cui la conoscenza dunque si sviluppa.

(È facile per un uomo del nostro tempo sorridere sul modello alquanto “retrivo che egli propone per lo sviluppo: ma in fondo il metodo somiglia molto a quello accademico, e tipico del suo tempo è il concetto che la conoscenza sia data e che si possa riscoprirla nei libri già scritti; ciò che è moderno è il concetto stesso di sviluppo della conoscenza attraverso una ricerca - sul campo o libresca che sia).

Nella Lettera a papa Clemente V propone la necessità di dotarsi di apparati per la copia dei manoscritti, di revisori delle copie, di dotazioni strumentali per l’astronomia e l’ottica (ricordo che sarà proprio l’uso degli strumenti a caratterizza la nuova scienza di Galilei), la ricerca di documentazione libresca. C’è secondo lui un grande precedente di questo: Alessandro Magno che diede ad Aristotele i presupposti materiali per la costruzione del suo sistema filosofico e scientifico (non sapeva che aveva quasi ragione: in realtà pare che sia stato soprattutto in età ellenistica - Alessandria, Pergamo - che siano nate organizzazioni di ricerca e produzione culturale in qualche modo “moderne”, mentre per Aristotele la cosa è poco credibile anche per questioni cronologiche).

Il fatto è, secondo Ruggero, che il progetto culturale e la produzione che ne consegue sono simili in qualche modo alla costruzione di un palazzo. In ambedue i casi c’è da edificare qualcosa che prima non c’era, perciò c’è bisogno innanzitutto di un piano, di un progetto: devo costruire sapendo dove voglio arrivare. La chiesa e il palazzo sono prodotto di progetto e lavoro, proprio come lo è il discorso scientifico. (Questo tema del palazzo non è nuovo: è in effetti tipico di tutta una lunga tradizione retorica e mnemotecnica, da Senofane in poi: proprio come in Senofane per la memoria, in Bacone la ricerca è questione di tecnica; come ogni tecnica ha le sue regole. Se le premesse sono giuste e si seguono le procedure, il risultato verrà di certo).

L’organizzazione è necessaria perché la conoscenza è specialistica: ogni sapiente conosce qualcosa (anche questa idea è molto moderna) che di per sé è vero, ma non c’è nessuno che sappia tutto, anche se Ruggero mostra in più di un’occasione che si possa, insieme, arrivare a una conoscenza totale. Infatti i sapienti, per così dire parziali, se presi complessivamente, sanno tutto quel che c’è da sapere. A questo punto è solo una questione di metodo; anzi, non è nemmeno un problema scientifico, è un problema di organizzazione, economico e politico: ci vuole un atto di volontà per unificare tutti questi saperi (ai singoli sapienti si immagina che la cosa non possa interessare di meno, non fosse che se non si va avanti per la strada dell’unificazione ognuno può coltivarsi tranquillo il proprio orticello).

Per Bacone invece l’idea di un sapere totale è essenziale, forse perché anche dal punto di vista di papa Clemente, destinatario della missiva, il sapere completo porterebbe alla scomparsa di ogni errore, e dunque sparirebbero eretici, musulmani e ogni simile genia.

C’è una buona dose di fede in queste opinioni del francescano; non aveva mai messo in conto che il sapere totale potesse, piuttosto che confermare, mettere in dubbio le idee tradizionali.

Tema importante è l’idea della scienza sperimentale, che opera a partire dalla realtà naturale concreta, non solo allo scopo di conoscerla, ma anche di intervenire su si essa: non vi è altro modo che l’esperienza per rendersi certi di una cosa; ha ricadute tecnologiche (cambia la vita nel senso che la prolunga, per le ricadute sulla medicina; e cambia il mondo nel senso che trasforma la natura e gli uomini, con la realizzazione delle tecniche): le scienze non sperimentali sono solo ancelle di quella sperimentale.

La scienza sperimentale smaschera gli atti malvagi dei maghi; però ci potrebbero essere maghi che portano una magia positiva, che si può identificare con la tecnica. È vero che l’arte è più forte della natura: ci può essere un uso “magico” della menzogna, l’uso di tecniche che fanno apparire qualcosa impossibile secondo il sentire comune. In questo caso, basta che Io scienziato sia in grado di riprodurre simili esperimenti, con l’aiuto della sua tecnica. Non bisogna però svalutare del tutto i libri di magia: in realtà, dentro queste opere si trovano un sacco di scemenze mescolate però a cose utili; di opere che potrebbero apparire magiche e che invece si possono fare con mezzi tecnici Ruggero dà una lista: motori per le navi e le barche, automobili e carri armati, macchine per volare, gru e argani, campane subacquee (pare che ne avesse una Alessandro Magno), cannocchiali e microscopi, e tante altre cose. Si può addirittura cambiare il clima di un paese. Qui appare chiara l’ossessione tecnologica che si troverà più avanti in Leonardo, e che consiste appunto nell’andare oltre, nell’ottenere quelle cose che sembrano miracolo e che invece sono, a saperle fare, nell’ordine naturale della natura. A Leonardo fa pensare anche un’altra osservazione del nostro filosofo: il pensiero delle antiche autorità non è oro colato, ci sono cose che essi non sapevano e che noi invece sappiamo, cose che loro credevano impossibili e che noi invece sappiamo fare.

Anche Ruggero è interessato alle cose dell’alchimia: la vera sapienza secondo lui deve essere segreta e iniziatica; a ben vedere la stessa cosa accade nel moderno: la scienza sta diventando sempre più un cammino ascetico, il cui contenuto si può comprendere solo attraverso l’iniziazione (quali sono i problemi rilevanti?) e l’acquisizione di un linguaggio simbolico (le matematiche). Certo, critica l’idea popolare della trasformazione dei metalli vili in oro, ma pone l’accento sulla purificazione, proprio al modo di Arnaldo di Villanova. Resta che alcune pagine del nostro sono la riproposizione pura e semplice di ricette tradizionali dell’alchimia, il che mostra che essa deve aver avuto per lui un interesse tutt’altro che marginale.

 

4.3 Francesco Bacone

Pare che Lord Francesco Bacone di Verulamio, nato nel 1561 e morto nel 1626, grand commis, come del resto il padre, della monarchia inglese fino ad essere cancelliere con Giacomo I, cacciato dai pubblici uffici per corruzione, scrittore brillante e famoso sia in latino che in inglese, cui qualcuno ha, come del resto è accaduto ad altri letterati, attribuito le opere di Shakespeare, non abbia mai potuto leggere le opere del suo quasi omonimo di tre secoli prima. Peccato, perché alcune cose i due studiosi le hanno certo in comune: l’opinione che si debba andare oltre alle dottrine degli antichi, l’idea che questo sia soprattutto frutto di un’organizzazione opportuna (anche Francesco riporta l’esempio dei rapporti tra Aristotele e il suo pupillo Alessandro per la redazione delle opere naturalistiche) e la convinzione che la conoscenza non sia fine a se stessa, ma abbia come scopo la trasformazione del mondo per meglio sopperire alle necessità dell’uomo.

Una novità è il metodo proposto da Francesco, molto più radicale: nel Novum organum (I, 30), si dice che non basta la trasmissione, nemmeno comparata e sistematizzata criticamente, delle conoscenze del passato, che tanto stava a cuore a Ruggero; per progredire sulla strada della scienza occorrono nuove osservazioni ed esperienze, che forniscano informazioni inedite. Ciò si rende necessario perché il sistema con cui erano state raccolte le conoscenze del passato era sbagliato (si usava uno stile di pensiero deduttivo, da principi fallaci), e il materiale elaborato in quel modo non è emendabile.

Netto è l’atteggiamento di Francesco verso l’alchimia, che rifiuta, ma solo perché si ferma a metà strada rispetto alla vera scienza (ivi. I, 54 e 48): gli alchimisti, e con loro i “maghi naturali”, hanno compiuto pochi esperimenti e da questo hanno creduto di poter estrapolare una “filosofia naturale” completa; cosa impossibile; se qualche passo avanti lo hanno pur fatto (c’è una certa indulgenza di Francesco verso costoro!) è stato per caso o fortuna.

Sia come sia, per Francesco Bacone una cosa è chiara: la conoscenza pratica viene prima di quella teorica, che ne è la conseguenza (ivi, I, 47); l’età medievale secondo lui, che un po’ si fa divulgatore del pregiudizio rinascimentale, avendo presente solo il medioevo “ufficiale” delle summe e dell’aristotelismo scolastico, ha sancito un’inesistente superiorità dell’aspetto teorico, impedendo l’avanzamento della conoscenza: arabi e filosofi scolastici hanno ingombrato con i loro numerosissimi trattati, che si sono limitati a rimasticare le conoscenze antiche, in modo particolare quelle sbagliate (ivi, 1,78).

Invece, la strada della conoscenza era già stata indicata dalla Bibbia (il cardinal Bellarmino non deve aver meditato su questo!):

Novum organum I, 93. Il primo motivo di speranza ci viene da Dio stesso: l’impresa che noi proponiamo, per la grande importanza che ha e per il bene che contiene, manifestamente viene da Dio, autore del bene e padre dei lumi. Ora, nelle opere divine anche i più tenui indizi portano ad un fine certo; e quello che è stato detto del dominio spirituale, che «il regno di Dio non viene con grande apparato» (Luca, 17,20), risalta anche in ogni opera importante della Provvidenza divina: tutto procede tranquillamente, senza strepito o scalpore, e l’opera è già eseguita prima che gli uomini abbiano inteso o avvertito di compierla. E non si deve trascurare la profezia di Daniele sulla fine del mondo: «molti passeranno, e si moltiplicherà la scienza» [12,4], che significa evidentemente che è nel volere del fato, cioè della Provvidenza, che la scoperta delle regioni del mondo prima sconosciute (che ormai volge al termine per il gran numero di navigazioni di lungo corso che le hanno esplorate) e il progresso del sapere scientifico devono cadere in una stessa età.  

Lo scopo della ricerca scientifica consiste «nel generare e introdurre in un corpo dato una nuova natura o più nature diverse... [con] la trasformazione dei corpi concreti uno nell’altro» (Novum organum, II, 1). Appare qui chiara­mente che Francesco si pone obiettivi che potevano essere condivisi dagli alchimisti, almeno da quelli che identificavano la pietra filosofale con qualcosa di concreto, come ci è parso di capire leggendo, per esempio, Arnaldo di Villanova. Tutta la seconda parte del libro è l’identificazione di uno schema di lavoro per ottenere questi risultati, un vero e proprio programma di ricerca, che mira a chiudere tutti i buchi lasciati dagli alchimisti con la loro opera poco fondata nel metodo.

In un lungo passo della prima parte (1,109) Bacone aveva discusso del modo con cui gli uomini reagiscono alle nuove scoperte: intanto esse non sono prevedibili, in quanto sono frutto di conoscenze prima non disponibili. Agli occhi del profano, dunque, i ritrovati della tecnica appaiono come delle cose impossibili finché non sono realizzate, dei giardini d’inverno come quello chiesto da madonna Dianora. Chi poteva, prima dell’invenzione dell’artiglieria, pensare che l’uomo potesse domare la potenza del tuono e della folgore per piegarla ai suoi scopi? chi poteva, prima di vederlo in concreto, pensare che un umile verme producesse la base per il filato più ricco solido e lucente, la seta? chi poteva pensare che un pezzo di ferro indicasse il Nord come e meglio delle stelle? Non ci cadono, gli uomini, quando qualche negromante impiega le sue scoperte per imbrogliarli, come il sepolcro di Maometto che sta sospeso in aria per la virtù della calamita?

Allo stesso modo, possiamo pensare che nella natura ci siano ancora tante cose da conoscere e imparare, ognuna in grado di insegnarci a dotarci di strumenti per cambiare il mondo che ora non abbiamo.

Bacone è cosciente che ogni nuova conoscenza produce un modo diverso di atteggiarsi nei confronti del mondo, che la crescita scientifica non porta solo a uno sviluppo quantitativo: è la qualità stessa della cultura che cambia, perché vengono impiegati principi scientifici diversi; se i navigatori e gli astronomi avevano ormai imparato a ritrovare il Nord con le loro osservazioni, gli strumenti su cui si basavano erano pur sempre la meccanica celeste; nessuno sospettava che il Nord potesse essere definito anche in altro modo, per mezzo di altri fenomeni; la scoperta delle proprietà della calamita che hanno dato origine alla bussola hanno rappresentato una di queste rotture epistemologiche che sono state sempre tipiche della conoscenza. La natura, ancora, ha molte frecce al suo arco, né ce le mostra necessariamente tutte. Occorre inoltre essere modesti: la gran parte dei risultati si ottengono per caso, cogliendo un’occasione favorevole; così deve essere nata anche la bussola; a noi resta il dovere di cogliere l’occasione e di dargli una sistemazione nel nostro sistema di conoscenze.

Un’opera baconiana interessante anche per l’aspetto letterario, in cui emergono almeno in parte le medesime posizioni è la Nuova Atlantide , resoconto di un viaggio im­maginario in una terra lontana e sconosciuta, retta in modo perfetto da un regime impiantato per determinazione divina. Lo schema è quello tradizionale delle utopie: un gruppo di navigatori, tra cui colui che parla in prima persona, sbarca fortunosamente in questo luogo fortunato e si fa raccontare dai locali dei loro costumi. Si tratta di un luogo dall’ordinamento perfetto, che risente molto da quello platonico, con differenze però significative.

Coerentemente con la concezione utilitaristica di Bacone, gli Atlantidi che si dedicano alle scienze lo devono fare nell’interesse della comunità e inoltre debbono giustificare la conoscenza con qualche scopo: il nostro autore è profeta della tecnica, non della scienza. Le innovazioni tecnologiche della Nuova Atlantide sono molte e impensabili, fino ad arrivare a uccelli e animali domestici più grossi e robusti che in natura.

L’innovazione tecnologica e la ricerca scientifica sono il compito principale dello stato. Moltissime pagine sono dedicate a descrivere le organizzazioni che permettono di ottenere nuove conoscenze e di reperire le novità prodotte in altri paesi, con grandi accorgimenti per restare in incognito e mantenere la segretezza sui propri progressi. Si tratta di un’organizzazione, che richiama molto le idee che abbiamo già visto in Ruggero Bacone, ma con più precisione e un’apparenza maggiore di fattibilità. Su tutto la sorveglianza degli scienziati, che hanno autonomia etica: sta a loro decidere cosa si debba o non si debba fare con le tecnologie a disposizione.

L’etica che ha in mente Bacone è tuttavia data: non esistono sviluppi in questo campo, il codice di comportamento culturale è dato e immutabile. Le modificazioni indotte dalla scienza risparmieranno l’uomo, che resterà uguale a se stesso. È forse qui il limite maggiore di Francesco Bacone, che anche in questo richiama il monaco suo omonimo e ne mostra le radici medievali: il progetto di trasformazione è tutto esteriore, l’uomo resta quello che è, ciò che deve fare e non fare, essere e non essere, è dato uno volta per tutte dalla morale delle fonti tradizionali, soprattutto religiose. Così la storia non è andata: dal suo punto di vista, il cardinal Bellarmino aveva perfettamente ragione!

Abbiamo visto come in Francesco Bacone l’alchimia fosse vista come una scienza imperfetta, come la scienza balbettante e infantilmente presuntuosa che poi cresce e si fa più cauta e adulta.

Il legame fra scienza moderna e alchimia non finisce certo in quest’epoca. Più avanti, per fare un esempio, è un grande scienziato come Isaac Newton a ripartire equamente il suo lavoro fra la fisica e le scienze occulte: ma questo è un aspetto che finora è stato poco studiato.

Bacone, dunque, è soprattutto il profeta della tecnica, l’uomo che vuole cambiare il mondo con la conoscenza. La tecnica ha interessato molto scrittori, letterati e filosofi, e non poteva essere che cosi, date le trasformazioni che ha introdotto nel mondo. Si va da atteggiamenti perplessi (Ariosto e la polvere da sparo nel Furioso) a posizioni entusiaste, a mille sfumature intermedie. Non è naturalmente possibile in questa sede fare un resoconto neanche sommario di queste manifestazioni. Basti scegliere un caso emblematico del nostro secolo [scritto nel 1997].

4.4 Mikhail Bulgakov

Mikhafl Bulgakov ha trattato il tema dei limiti della scienza, collegandolo strettamente a quello etico degli scopi da assegnare ad essa e di come essa incida sui rapporti umani, in un paio di racconti lunghi divenuti, giustamente, assai famosi: Uova fatali e Cuore di cane, il primo scritto nell’autunno del ‘24, il secondo nell’inverno successivo. Non staremo qui a sottolineare che ambedue le opere sono di critica all’autoritarismo staliniano, che proprio allora si stava affermando nell’ Unione Sovietica, condito di imbecillità come spesso accade in questi casi: vai però la pena di notare almeno che emerge chiaro a Bulgakov, il quale era medico e dunque scienziato di formazione, che non si può porre alla scienza dei limiti ideologici; di questo, Stalin non fece tesoro, nonostante l’ambigua ammirazione che nutriva per lo scrittore, come mostrò di lì a poco il caso Lysenko.

Uova fatali racconta la storia del professor Persikov, studioso di rettili, poco rispettato, come tutti gli intellettuali, dalla rivoluzione, la quale rende anche difficile la ricerca scientifica. Le cose poi si aggiustano: all’Istituto dove lavora Persikov appare il guardiano Pankrat; il professore, con il suo assistente Ivanov, compie una scoperta promettente, un raggio dalle proprietà particolari, che, se si illumina con esso un uovo sul punto di schiudersi, sembra essere in grado di far sviluppare l’organismo che ne nasce sino a dimensioni inusitate. Della scoperta, che affascina i mass-media dell’epoca, viene a sapere Rokk, un oscuro burocrate di partito, il quale immagina si possa intervenire col raggio per far crescere rapidamente delle galline, cosa importante poiché una moria le ha uccise quasi tutte, mettendo in grave imbarazzo l’approvvigionamento alimentare dell’Unione Sovietica. Persikov sarebbe contrario: gli effetti del raggio sono stati studiati solo in parte. Rokk in qualche modo lo costringe e si rifugia in un podere modello. C’è ora un qui pro quo: le uova di rettili destinati al laboratorio di Persikov vengono inviate a Rokk e viceversa, quelle delle gal­line destinate al podere se ne vengono al laboratorio: succede che Rokk illumina le sue col «raggio della vita», come ormai lo chiamano, e ne nasce una quantità impressionante di rettili giganteschi e feroci, che si rivelano una vera e propria calamità per la fattoria modello, per chi vi abita intorno, con vittime e una gran paura che si estende fino a Mosca. Non raccontiamo come si svolge il finale, che comunque incita alla fiducia nella natura.

L’intreccio di Cuore di cane è lievemente diverso, per quanto attinga alla medesima ispirazione. Anche qui siamo nella Russia postrivoluzionaria, anche qui c’è un eminente studioso, Filip Filippovic’ Preobrasenskij, un medico che non disdegna di ottenere qualche privilegio sociale grazie alla sua arte, che gli permette di dare l’illusione della forza e della giovinezza a molti personaggi della nomenklatura; anche qui c’è un assistente dello studioso, che ha il ruolo di sostenerlo sia negli studi che nelle strane vicissitudini che questi procura­no all’anziano scienziato.

L’idea di Preobrasenziskij è che il trapianto dell’ipofisi possa procurare un surplus di giovinezza: cosa che, oltre a incuriosirlo, gli porterebbe popolarità nella sua clientela. Uno degli esperimenti prevede un trapianto per così dire transpecifico: cosa succederà a trasferire l’ipofisi (sberleffo anticartesiano: per il filosofo francese quest’organo era la sede dell’anima) e le gonadi di un uomo su un cane? l’esperimento si può fare, tanto la povera bestia morirà. Lo scienziato si procura un randagio ferito, che chiama Sarik, e lo cura fino a che Bormental’, l’assistente, non procura gli organi necessari al trapianto, che erano appartenuti a un suonatore ambulante ubriacone, certo Klim, rimasto ucciso in una rissa.

Contrariamente alle previsioni, l’intervento non porta alla morte del paziente; al contrario, esso lo dispone a una rapida trasformazione in uomo, in un essere però che unisce in sé gli aspetti naturalmente incivili del cane (un odio for­sennato per i gatti) e le peggiori tendenze di Klim. In breve tempo, il cane Sarik diventa il compagno Poligraf Poligrafovic’ Sarikov; in questa veste ne combina di tutti i colori, forte dell’aiuto del comitato di caseggiato e in modo particolare del suo capo, Svonder, che viene a fatica contrastato da Preobrasenskij con l’aiuto delle sue amicizie altolocate. L’acme del problema si raggiunge quando l’ex cane viene assunto come capo del comitato per la lotta contro i gatti randagi, dove cerca di sedurre un’impiegata, ignara della sua vera origine, e quando denuncia il suo “creatore” per attività controrivoluzionarie, per cercare di strappargli la casa. Ciò porta lo scienziato sull’orlo di una crisi nervosa, finché accetta un suggerimento di Bormental’ che risolve radicalmente la questione.

fl tono di tutt’e due le opere è ovviamente grottesco, dato il loro scopo essenzialmente satirico, che gli ormai molti decenni che ci separano da esse non hanno intaccato: si leggono ancora con molta soddisfazione e interesse, anche perché, una volta tolti i problemi “politici” che ne erano stati il bersaglio polemico, restano aperte molte questioni relative all’etica della ricerca scientifica che sono di straordinaria attualità.

A noi qui interessa semplicemente ricostruire il pensiero di Bulgakov relativamente al tema che abbiamo detto della “magia”: la capacità della scienza di trasformare il mondo.

Si possono sottolineare i seguenti punti:

1. Bulgakov è perfettamente convinto che la scienza sia in grado di produrre nel mondo trasformazioni anche radicali, nelle cose inanimate (del resto se ne avevano già cospicue manifestazioni quando lo scrittore lavorava alle sue opere) e anche negli, esseri viventi;

2. Il suo atteggiamento nei riguardi di queste possibilità è perplesso: nonostante si tratti di tipi balzani, i suoi scienziati sono persone serie, animate da un autentico amore per la conoscenza e per l’umanità, tutt’altro che pervase da delirio di onnipotenza, che sentono tutta la responsabilità per quello che stanno facendo;

3. Il pericolo vero che si corre non deriva dallo scienziato pazzo: purtroppo, il delirio di onnipotenza da scoperta scientifica è una malattia che colpisce gli ignoranti, coloro che si fidano della superficialità e che pensano di poter pie­gare troppo facilmente la natura ai loro interessi immediati: i giornalisti, in primo luogo, come appare in Uova fatali, che però per quanto sciocchi si rivelano di per sé inoffensivi, e soprattutto i politici, i quali si arrogano di decidere su cose che non sanno se non per sentito dire, e per le quali occorre, oltre a tutto, profonda sensibilità umana (esemplari al proposito i “dibattiti” tra Preobrasenskij e Svonder intorno a Sarikov e ai suoi diritti);

4. Sarebbe perciò opportuno che gli specialisti si occupassero del campo nel quale hanno conoscenze profonde; in ogni caso, occorre la massima cautela, poiché nella sua storia la natura ha raggiunto un equilibrio che deve essere rispettato.

In questi due racconti non vi è quasi traccia degli interessi di Bulgakov per quello che potremmo chiamare “mondo oscuro”; che nella formazione delle sue opinioni operi anche una conoscenza della tradizione ermetica e occultistica (naturalmente usate ricorrendo a pesanti dosi di ironia) appare chiaro quando si legga la sua opera maggiore, il romanzo Il maestro e Margherita, nel quale il diavolo in persona, sotto le spoglie del dotto Woland, si installa a Mosca con tutto il corteggio dei suoi collaboratori infernali, suscitando gran copia di fenomeni inspiegabili, il libro culmina con un sabba cui Margherita viene invitata in luogo di regina; se leggiamo il passo in cui si prepara per andarsene via volando nel cielo di Mosca troviamo somiglianze profondo con un’analoga scena in Apuleio...

Ma qui il discorso si farebbe assai complesso, perché occorrerebbe dimostrare che l’intenzione di Bulgakov è di mostrare come all’uomo non è sufficiente, per evitare le sciocchezze della burocrazia politica, nemmeno la scienza, ma occorre anche la conoscenza del “mondo oscuro”, il quale lascia le sue tracce, che, come la salamandra non bruciano nemmeno nel fuoco, nei libri, nella scrittura: esattamente quello che accade al maestro del titolo.