Chi sono - Perché questa pagina - Novità e aggiornamenti - Testi - Materiali

 

Pleniluni e quarti di luna

 

Dame e cavalieri

Radici medievali della sensibilità moderna

ottobre 1997- aprile 1998

 

3. Da Merlino a Maometto  

3.1 Merlino

3.2 Il «Mare amoroso»

3.3 Calamita

3.4 Pier della Vigna

3.5 Guido delle Colonne

3.6 Mazzeo di Ricco

3.7 Jacopone da Todi e la calamita

3.8 Monte Andrea da Firenze

3.9 Muscia da Siena

3.10 Guinizzelli e la calamita

3.10.1 Canzone seconda «Madonna, il fino amor ched eo vo porto»

3.10.2 Canzone «Al cor gentil rempaira sempre amore»

3.11 Francesco Petrarca

3.12 Giovanni Boccaccio

3.13 Franco Sacchetti

3.13.1 Canzone distesa “Quel spirito amoroso, ch’al cor luce

3.13.2 Canzone acefala, detta dall’editore “Dir de’ Bianchi”

3.14 Maometto «negromante» della calamita in Giovanni Villani

3.15 L’alchimia fino a Dante

 

Un genere poetico abbastanza diffuso nella poesia romanza dei primi secoli è il plazer: espressione di un desiderio fantastico, che il poeta vorrebbe fosse realizzato, e che non è ragionevolmente realizzabile.

Il testo forse più noto di questo genere, nella nostra letteratura, è il sonetto di Dante «Guido, i’ vorrei...». Come è noto, il poeta si augura di essere portato su una navicella insieme con due amici, identificabili in Guido Cavalcanti e Lapo Gianni, e con le rispettive donne amate, per poter andare sempre d’accordo e «ragionar sempre d’amore»: una specie di festa continua, dunque, la realizzazione di qualcosa come la felicità.

Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io

fossimo presi per incantamento,

e messi in un vasel ch’ad ogni vento

per mare andasse al voler vostro e mio,

 

sì che fortuna od altro tempo rio

non ci potesse dare impedimento,

anzi, vivendo sempre in un talento,

di stare insieme crescesse ‘l disio.

 

E monna Vanna e monna Lagia poi

con quella ch’è sul numer de le trenta

con noi ponesse il buono incantatore:

 

e quivi ragionar sempre d’amore,

e ciascuna di lor fosse contenta,

sì come i’ credo che saremmo noi.

L’unica possibilità per il poeta di vedere realizzato il proprio desiderio è che un «buono incantatore» gli regali quel che chiede. Se leggiamo questo passo alla luce di quanto si diceva intorno a personaggi come Michele Scoto, di cui il nostro parla nella Commedia, se non dimentichiamo che questo sonetto è opera giovanile, che quindi l’autore non aveva ancora pronunciato la condanna all’inferno per i maghi, senza contare la presenza di quell’aggettivo «buono» che fa pensare alla necessità di classificare i maghi secondo la loro ragione morale, si può concludere che il nostro pensasse a una possibilità concreta di ottenere ciò che desiderava per arte magica. In fondo, la situazione è la medesima descritta cinquant’anni più tardi da Boccaccio quando narra di Messer Ansaldo e Madonna Dianora.

Vi sono altri plazer, anche molto noti, nella nostra letteratura intorno ai tempi di Dante, nessuno però con questa chiarezza di rinvio a una possibilità di realizzazione pratica: da Amor eo chero... di Lapo Gianni, all’opera più o meno completa di Folgore di San Gimignano, all’esempio rovesciato e famosissimo di Cecco Angiolieri, S’i’ fosse foco...  

 

3.1 Merlino  

Incantesimi e maghi non erano ovviamente una novità: se si prendono i tantissimi testi medievali di narrativa, specialmente quelli scritti in lingua d’oil e appartenenti al cosiddetto ciclo brettone, si trovano tantissimi esempi del genere. Successivamente, queste storie circolarono per tutta Europa, tradotte o adattate nelle diverse lingue, con sviluppi che arrivano al cinema e ai cartoni animati degli anni più vicini a noi.

Trattare compiutamente le presenze magiche nel mondo brettone giustificherebbe un lavoro ponderoso, e va fuori dagli obiettivi di questo studio; ci limiteremo pertanto ad alcuni accenni a un personaggio che di quella tradizione narrativa è uno dei più presenti e importanti: il mago Merlino.

È un personaggio antico: prefigurazioni si trovano nella Historia Brittonum, attribuita a un chierico gallese, Nennio, e scritta fra VIII e IX secolo; il nome del mago appare per la prima volta in Goffredo di Monmouth, autore, prima del 1135, di certe Prophetiae Merlinii, in cui sono riportate le attività del nostro come indovino, e intorno all’anno successivo della Historia regum Britanniae, in cui si precisa l’origine di Merlino, nato da un diavolo e da una vergine santa, che ha avuto per questo la conoscenza del passato, tipica dei diavoli, e quella del futuro, più adatta a santi profeti. Goffredo riprende ancora il suo personaggio fra il 1148 e il 1150, nella Vita Merlini.

Questi temi furono ripresi da un poeta che scriveva in un francese molto venato di tratti normanni, Wace, qualche anno dopo, nel Roman de Brut e nel Roman de Rou. Merlino trovò quindi il suo principale cantore in Robert de Boron. È noto che Merlino fu artefice della nascita e dell’assunzione alla regalità di Artù; ottenne questo favorendo un amore adulterino e quindi provvedendo all’educazione del futuro sovrano; anche per altre vicende si trova al centro delle storie della Tavola Rotonda, grande serial medievale.

Non è il caso di riandare qui a tutte queste vicende, del resto note perché variamente trattate e maltrattate; piuttosto, è opportuno vedere che tipo di mago fosse questo Merlino.

A un’analisi superficiale, si direbbe certamente più vicino alla magia antica: la sua specialità maggiore è quella dell’indovino, sia del passato che del futuro, la conoscenza puntuale anche dei pensieri di tutti; ciò è dovuto alla sua nascita, come si è visto, non a studi particolari né all’impiego di tecniche. Attributo secondario, anche questo in linea con l’antichità, è la metamorfosi: appare capace di trasformarsi nelle figure più diverse, e di trasformarvi anche gli altri. Vi sono però almeno due episodi, uno riportato da tutti i testi, l’altro un po’ meno comune, che presentano Merlino sotto le spoglie del negromante moderno, interessato a trasformare la natura con strumenti non necessariamente preter­naturali.

Il tema meno comune, che però deve aver avuto fortuna perché viene esplicitamente ricordato dal Mare amoroso, si trova alla fine della vicenda di Artù, che, ferito, viene portato via, verso l’isola di Avalona, su una nave piena di belle donne: alcune redazioni attribuiscono la realizzazione di questa nave a Merlino. Appare abbastanza chiaro che è la stessa nave cui si riferisce Dante nel plazer a Guido.  

 

3.2 Il «Mare amoroso»

È una scrittura singolare, che non ha uguali al suo tempo, e che interessa il filologo per una questione di forma: apparentemente si tratta del primo esempio di endecasillabo sciolto (per quanto alcuni versi presentino dei “prolungamenti” o delle zeppe) nella letteratura italiana. È stato datato al lasso compreso tra 1270 e 1290, prima dunque della grande fioritura stilnovistica. Presenta un repertorio straordinario, di gusto enciclopedico, di situazioni, esseri, simboli, riferiti all’amore, un po’ sul modello del Bestiare d’amour di Richart de Fournival, solo non limitate al mondo animale, ma recuperati in ambito più largo, soprattutto dalle scienze naturali.

Questo è un elemento interessante, poiché testimonia di come in un ambiente colto, di area presumibilmente toscana, ci fosse attenzione per questo tipo di cultura che prelude a un interesse più moderno. Si prenda per esempio a vv. 37-42, ma è solo un esempio fra tanti possibili di un cambiamento di sensibilità: il «lupo cerviere», cioè la lince, ha la vista talmente acuta da scorgere ciò che si trova oltre una montagna. Ci si aspetterebbe, sul modello dei bestiari moralizzati, il riferimento a un vizio, a una virtù, a una fede; invece l’anonimo poeta si limita a celebrare una similitudine ipotetica: se la sua amata avesse lo sguardo della lince, le sarebbe facile vedere nel cuor dell’amante la propria immagine (secondo un modello assai diffuso, per cui si possono già vedere i Siciliani). Questo è un esempio per così dire “fantastico”, dal momento che questa vista prodigiosa è una leggenda; lo stesso principio è però applicato a conoscenze più concrete, quale la farfalla che, attratta dalla candela, vi cade e si brucia, come l’amante bruciato dall’amore per la sua donna (79-81). Qui e al­trove, il pregio e la “novità” del poemetto è di privilegiare la metafora sull’allegoria, l’individualità del suo amore sull’amore in generale: basta confrontarlo, ad esempio, con un Guinizzelli.  

Molti sono i riferimenti al ciclo arturiano, il che mostra nell’autore un grande conoscitore della letteratura d’oil; interessante è soprattutto un riferimento a Merlino (v. 212-216), il quale aveva fatto una barca, una nef de joie et de deport, che ispira il «vasel» di Dante nel famoso sonetto a Guido. Nello stesso passo vi è un riferimento anche a Tristano e al filtro magico, e alla volontà di risolvere per via magica i problemi d’amore.

Ai vv. 287-88 vi è un richiamo a una tecnica di divinazione, la geomanzia, che prevede di tracciare dei punti sulla sabbia e di riunirli in figure: la casa rossa di cui parla il testo è una di queste figure, dal significato negativo. Pare che la geomanzia sia di origine araba, e che il primo trattato apparso in Occidente sia stato tradotto da Gerardo da Cremona intorno al 1160, più o meno gli anni in cui arriva l’alchimia.

Una interessante notazione matematica (quella che poi riprenderà Dante, dell’aumentare esponenziale dei chicchi di grano sulla scacchiera) si trova a v. 311—315.

Secondo la Tavola ritonda, la nave che porta via Artù non sarebbe stata opera di Merlino, bensì di Morgana, figlia di Igerne, la sposa di Uter Pendragon e madre di Artù, e del duca Tintagel, che era stato il marito nelle prime nozze di lei. Morgana, stando al Merlino di Robert de Boron, venne spedita in convento a imparare le sette arti liberali e per di più la fisica; quando le ebbe imparate a perfezione, divenne un’incantatrice, una fata. Un indizio di cosa si intenda nel basso Medioevo per incantesimo e magia. Il Mare amoroso ha un riferimento anche a lei (v. 132), esattamente a un episodio delle vicende di Lancillotto, che lei fa prigioniero nella valle dei Falsi Amanti.

Il secondo tema importante per la nostra indagine è la realizzazione del monumento funebre per re Pendragon; nessuno riesce a realizzare il progetto elaborato da Merlino, per cui lo farà egli stesso. Una tomba colossale, nei paraggi di Salisbury, che viene tradizionalmente identificata con il cerchio di pietra di Stonehenge.

Vi è una lunga tradizione di opere di questo tipo, durante il Medioevo, specie di ponti, che vengono in genere attribuiti al diavolo (spesso egli vuole in cambio l’anima del primo a passare sul nuovo ponte; altrettanto spesso viene gabbato, perché sul manufatto fanno camminare un asino, un gatto, un’oca...) Ponti di tal fatta si trovano un po’ dappertutto.

Per la realizzazione di Stonehenge però Merlino non ricorre a questo tipo di aiuti. In Robert de Boron si avvale genericamente di «arti magiche»; Goffredo di Monmouth è più chiaro: «Merlino... apparecchiò i propri artifici. Alla fine, messo in opera tutto ciò che gli parve necessario, smantellò le pietre [perché l’anello di pietra stava in Irlanda. N.d.R.] con incredibile facilità. E una volta che le ebbe smontate, le fece trasportare sulle navi e caricare a bordo; poi, con grande allegria, i Britanni presero la via del ritorno.»

Sia in un caso che nell’altro, si tratta di una realizzazione in cui la magia interviene piuttosto come tecnica. La superiore conoscenza di Merlino comprenderebbe dunque anche la capacità di usare delle potenzialità della natura sconosciute agli altri uomini, i cui effetti appaiono perciò prodigiosi.

In Merlino, possiamo concludere, troviamo una figura di transizione fra la magia antica (metamorfosi, azione sull’uomo e la sua volontà, sfruttamento di forze soprannaturali) e quella moderna (conoscenza scientifica, uso di forze naturali).  

 

3.3 Calamita

Un fenomeno naturale che ha interessato l’uomo del Medioevo e anche gli scrittori è il magnetismo.

Nei primi secoli troviamo che ne parlano, almeno, Pier della Vigna (in un famoso sonetto che appartiene a una tenzone con Jacopo Mostacci e il Notaro), Guido Delle Colonne (nella canzone Amor che l’aigua per lo foco lassi), Jacopone da Todi (in due laude), Guido Guinizzelli (in due canzoni: la famosa Al cor gentil rempaira sempre amore e un’altra), l’anonimo del Mare amoroso (v. 199),

Dante (Convivio, III, 3), Petrarca (canzone 135, Qual più diversa e nova), Boc­caccio (nel Filocolo, 5.12), Franco Sacchetti (in due poesie e una novella), Giovanni Villani (nell’VIII capitolo del libro terzo della Cronica).  

 

3.4 Pier della Vigna

Però ch’amore non si pò vedere

È la risposta a una questione, avanzata con un sonetto da Jacopo Mostacci, sulla natura d’amore. La tenzone è notissima, soprattutto per la successiva posizione assunta da Jacopo Notaro.

Pier comincia affermando che una posizione diffusa ma sciocca sostiene che l’amore non esiste, poiché è invisibile e immateriale; questo discorso si combat­te facilmente, perché l’amore ha, comunque, degli effetti: è capace di indurre comportamenti negli uomini, quindi esiste di sicuro; inoltre, proprio perché non si vede, deve essere più potente di altre cause. Allo stesso modo, non si vede come la calamita attiri il ferro, che ne viene però indiscutibilmente attratto, senza che si possano frapporre obiezioni: meditate su questa similitudine, e concluderete che l’amore esiste.

Il tema posto è interessante, e non a caso nasce alla corte di Federico Il, in cui gli interessi scientifici, con quelli collegati per la magia (cfr. i suggerimenti del Novellino), avevano gran corso: l’amore è qualcosa di naturale, che non appartiene perciò alle forze legate allo spirito; tuttavia la sua azione è invisibile. Nessuno sosterrà che la calamita agisca in modo soprannaturale, che vi operi una qualche divinità o simili; tuttavia, essa opera, in modo assolutamente naturale, secondo leggi fisiche.

3.5 Guido delle Colonne  

Ancor che l’aigua per lo foco lassi

La prima stanza, con sfoggio di osservazione scientifica e di una struttura meditativa pertinente, elabora una interessante topica della vita amorosa: l’oggetto amato è un mezzo fra l’amante e l’amore, un ostacolo e insieme un riparo; di per sé l’amore è pericoloso, brucia; si può amare solo attraverso una sua rappresentazione, nella persona dell’oggetto amato. Non è tanto diverso il tema teologico, che in quegli anni veniva elaborato ad es. da Francesco d’Assisi e dopo di lui in modo organico da Bonaventura da Bagnoregio: non si può direttamente conoscere Dio, né a ben vedere amarlo: l’itinerario della mente in Dio si ha attraverso le sue creature, attraverso il mondo. Come si evince dalla terza stanza, non siamo molto lontani da Andrea Cappellano e derivati: amore è sofferenza perché è desiderio, ma in questo desiderio vi è la speranza che mitiga e rende sopportabile la sofferenza stessa.

Notevole nella seconda strofa l’affermazione che l’amore è “spirito” che si manifesta nell’amante; è probabile che si debba intendere “particolare disposizione dello spirito dell’amante”, per spiegare che si manifesta nei sospiri. Peraltro, nella quarta strofa si avanza l’ipotesi di una specie di “sostituzione di anima”: lo spirito dell’amante amando muore, e viene sostituito dallo spirito dell’amato, che lo “possiede” così nei termini della stregoneria. Amore sarebbe una specie di dèmone con le parvenze dell’oggetto amato.

Interessante ai v. 53-55 l’idea che sia la “persona” oggetto dell’amore in quanto speranza: l’amante vivrà finche vivrà la sua amata, non solo; per aumentare la sua forza e resistere alla sventura, deve richiamare alla mente la persona, il corpo fisico, dell’oggetto amato, non il composto di anima e di corpo; al di là delle parvenza e dello “spirito” invocato sopra, la concezione di Guido pare alquanto materialista. L’incertezza terminologica è un sintomo della transizione in atto all’epoca di questo primo Guido.

Il tema della forza che ha bisogno di un mezzo per esplicarsi senza annullarsi nel confronto con il suo contrario appare nella quinta strofa: se non ci fosse l’aria in mezzo, la calamita non potrebbe attrarre il ferro.

L’ultima strofa svolge un’elaborata similitudine: le pietre hanno diverse virtù, ma solo la calamita quella di attrarre il ferro; così le donne, ma fra esse solo la donna amata ha la capacità di attrarre l’amante.  

 

3.6 Mazzeo di Ricco

Lo gran valore e lo presio amoroso  

Un riferimento alla concezione gerarchica e immobilistica tipica del medio evo si ha ai v. 5-6: disperante è la condizione dell’uomo che voglia cambiare positivamente il suo status sociale. Tuttavia, un po’ secondo le convinzione dell’ambiente federiciano, è pensabile che il “destino”, qualche forza naturale insomma, permetta una certa mobilità sociale. Si tratta di qualcosa di «miracoloso», ma certi «miracoli» sono possibili in natura, tipo la folgore che nasce dalla pioggia.

L’Amore è una manifestazione naturale, una legge ineludibile; a queste leggi sono soggetti per esempio ferro e calamita, che qui diventano simbolo di questa inevitabilità.

Notazioni di litologia: i cristalli, sarebbero, secondo alcune credenze, semplicemente acqua addensata in modo irreversibile.  

 

3.7 Jacopone da Todi e la calamita

Il termine ricorre un paio di volte nel laudario jacoponiano: Lauda 79 (=21), v. 10 e lauda 65 (=86) v. 95.

La prima tratta della bontà divina e della volontà creata, dunque di argomento teologico. La bontà di Dio richiede che l’uomo le si affidi completamente, in una dedizione assoluta di fede speranza e carità. L’anima dell’uomo che si sarà così affidato a Dio sarà trascinata come da una calamita in paradiso.

[È la stessa immagine che usano i cortesi per l’amore; cfr. Pier della Vigna, Per la vertute dalla calamita...]

La seconda, lunga e articolata, tratta della nascita di Cristo «l’amor ch’è venuto».

La calamita qui appare in un’immagine inedita: come la nobile calamita attrae il ferro vile, così Gesù attrae la bassezza mondana, fino ad andare a nascere nella stalla di Nazareth.  

 

3.8 Monte Andrea da Firenze

Poi che ‘l ferro la calamita saggia

Si tratta della descrizione della bussola.

La calamita sapiente rivolge subito il ferro verso la stella polare, per quanto la stella possa nascondersi o essere scura; allo stesso modo, per quanto la donna amata possa nascondergli il suo bel viso, egli porta in cuore la sua effigie, ed è a quella che si indirizza il suo sguardo innamorato; dunque, se lei si nasconde, ciò non porterà a niente, perché egli sarà sempre e sempre più innamorato.

Se l’amata continuerà a nascondersi dal suo sguardo, ne verrà che amante continuerà a ricercarla, finché lei sarà pietosa e lo solleverà dalla strada che lo porterebbe alla morte.

Ci sono almeno un paio di elementi interessanti:

- l’identificazione del cuore innamorato con la bussola, che integra quella di Guinizzelli della dama con la stella, in questo caso stella polare;

-   l’idea, che sarà poi ripresa alla grande in Petrarca, per cui l’amore si riferisce non all’immagine viva dell’amata, ma a quella che permane nella memoria: cfr. per un testo canonico Erano i capei d’oro all’aura sparsi, ma gli esempi potrebbero essere assai numerosi.  

 

3.9 Muscia da Siena (o Cecco Angiolieri?) 

Giùggiale di quaresima:

e a.llui vado com’ la calamita

va a lo ferro, ch’è naturaldade (v.8-9)

Il tema è il solito, amante che come ferro è tratto dalla calamita; di relativa­mente insolito l’idea che si tratti di una legge di natura tanto per l’azione della calamita quanto per quella dell’amore, e quindi ineludibile e sottratto a considerazioni di tipo morale - tema che sarà poi di Boccaccio. Non è però cosa particolarmente originale, dal momento che ne abbiamo già traccia in Mazzeo di Ricco.

Di calamita si parla anche al v. 199 del Mare amoroso, in maniera assai semplice e canonica, poiché si afferma che la donna amata attrae i cuori, si deve intendere dei potenziali amanti, come il ferro attira la calamita. Interessante che non si differenzi da cuore a cuore: l’anonimo autore deve immaginare che la stessa donna inevitabilmente faccia innamorare, se è bella come si deve, tutti i potenziali amanti.  

3.10 Guinizzelli e la calamite

3.10.1 Canzone II «Madonna, il fino amor ched eo vo porto»

strofa 4. Quando è vicino a Madonna, il poeta perde ogni sua “vertute”, poiché le sue facoltà provengono da lei, ed è noto che le cose tendono a tornare alla loro origine, specie quando sono in vicinanza di essa; dunque le “vertuti” vogliono abbandonano per tornare da Madonna. Così gli uomini preferiscono restare fra i buoni e i molti, a meno che non vengano esplicitamente fra i pochi e cattivi.

strofa 5. I monti di calamita stanno a nord, e impregnano l’aria della loro virtù, che attira il ferro; però questi monti sono molto lontani, dunque non riescono a esplicare compiutamente la loro capacità; ci vuole un ago calamitato che potrà indirizzarsi verso la stella polare. Madonna è come la calamita, perché in lei è l’origine di ogni virtù [“valore”], da dove si spande l’amore; a differenza della calamita, però, non vale la distanza: la forza dell’amore opera per quanto lontano si sia.

Notevole a strofa 4 l’idea che gli uomini siano per natura buoni (se li metti fra i buoni, o li avvicini ad essi, ci restano volentieri, mentre non amano molto stare fra i cattivi). È la stessa dottrina, ma in termini molto più terreni, che sarà espressa da Dante alla metà del Purgatorio.

Dei Monti della calamita parla Arturo Graf in Miti e leggende del Medio evo.

Nella dottrina della calamita è ripresa la posizione di Guido delle Colonne: l’aria è mezzo necessario fra calamita e ferro.

Il senso della similitudine fra amata e calamita è che l’amore è la potestà di attirare, simile alla meccanica del magnete. Si potrebbe però ritenere che, mentre la natura della calamita è materiale e quindi la sua capacità di muovere è limitata, quella d’amore è illimitata in quanto infinita.  

   

3.10.2 Canzone «Al cor gentil rempaira sempre amore»

A non farla lunga, riassunto di Edoardo Sanguineti:

1. La natura genera, coevi e conlocali, amore e cuore gentile, che sono una sola sostanza.

2. La virtù amorosa scende nel cuore nobilmente purificato per opera di una bella donna.

3. Connaturato con il cuore gentile, amore è incompatibile con un cuore vile.

4. Vile è chi crede che la nobiltà proceda dalla stirpe, laddove nobiltà e virtù sono inseparabili.

5. La bella donna dovrebbe concedere immediatamente il compimento amoroso al nobile amante obbediente.

6. L’audacia del poeta, che ha impiegato Dio come termine di comparazione per l’amore profano, è giustificabile con l’apparenza angelica dell’amata.

Un’analisi ideologica di questo testo richiederebbe grande tempo e spazio: certo è fondata su una struttura analogica propria del Medioevo, concerne conoscenze scientifiche, come quelle astronomiche/astrologiche, lapidarie, ecc., senza trascurare quelle più propriamente filosofiche e teologiche; una lunga e corretta tradizione interpretativa anzi propone come elemento centrale l’adozione per la teorica d’amore degli schemi finora riservati alle cose di religione. Queste novità sono accompagnate da una generica adesione alle posizioni del cosiddetto amore cortese.

Utile è il riferimento (v. 30) all’adamàs. Un problema interpretativo qui è dato dalla difficoltà di intendere se si tratti di diamante o calamita, tutt’e due significati possibili. La calamità è unita al ferro da simpatia ovvia, dunque non ci sarebbe difficoltà; peraltro, un certo tipo di diamante (ne parla Marbodo nel suo Liber lapidum) ha le stesse caratteristiche del magnete, anzi più spiccato, e si trova in miniere di ferro. Di questo parere è anche Isidoro da Siviglia, secondo il quale, anzi, il diamante «ferruginoso» sentirebbe una tale forza di attrazione col ferro da non trovare praticamente ostacoli, spezzando tutto quello che ci potesse essere fra agente e paziente, il che lo rende immagine assai adeguata alla tradizione amorosa.

Se si tratta di «diamante magnetico», si aggiunge all’immagine tradizionale dell’amore qualcosa di più Intrigante, perché oltre alla facoltà di attirare aggiunge quella del pregio.

Dante, in Convivio III,3, elabora una teoria generale dell’amore: esso è in sostanza forza di attrazione verso il luogo della propria origine; la calamità è una delle manifestazioni di questo amore perché, come si vede dall’ago della bussola, il luogo di origine della calamita stessa si trova a nord (i «monti della calamità», abbiamo trovato altrove) (altri spiega che la calamita, l’adamas come in Guinizzelli, venga attirata dal minerale di ferro, donde ha origine). Per quanto riguarda l’amore, che qui non è in discussione, basti dire che l’Alighieri ne dà una strutturazione complessa, perché esso è una passione afferente l’uomo, per sua natura essere complesso.  

 

3.11 Francesco Petrarca

CXXXV  - Qual più diversa e nova

strofa 2. C’è una calamita, in estremo Oriente, che strappa i chiodi dal legno delle navi facendole affondare; capita anche a me, perché la calamita Laura mi fa affondare, naufragare su lei che è scoglio; ha strappato l’anima dal mio cuore, questa calamita Laura, che mi trascina a riva (immagine corrente in Petrarca per la morte).

Testo di gusto decorativo, costruito su una sequenza di similitudini, che non determinano però un clima memorabile.

Il  motivo interessante è questa calamita leggendaria e potente, in grado di strappare i chiodi dalle navi.  

 

3.12 Giovanni Boccaccio  

Filocolo, V, 12

Il  contesto in cui si parla della calamita è inedito, e rinvia a una vecchia tradizione «magica», quella delle metamorfosi: um cavaliere, Idalogo, è stato trasformato in albero da Venere per pietà da lui richiesta, in quanto amante non riamato. Filocolo per errore gli stacca un pezzo di corteccia, quello chiede la restituzione: la corte viene ripresa dall’albero “come da calmita ferro”.  

3.13 Franco Sacchetti

3.13.1 XLIX Canzone distesa  (Quel spirito amoroso, ch’al cor luce)

È una sestina, le cui parolerima sono luce, stella, prova, foresta, monti, tra­montana.

strofa 1. Lo spirito d’amore, prodotto di una virtù non oscurata dal vizio, lo ha condotto a rivolgersi verso nord.

strofa 2. Perché verso nord se ne è andata verso tramontana, quella donna “che dà più vertù che stella”.

strofa 3. Se alla sua donna fosse fastidioso dimorare a nord, allora forse tornerebbe in luoghi più vicini.

strofa 4. Il cuore del poeta è rinchiuso tra monti petrosi, che non lo lasciano fuggire; soltanto la donna potrebbe liberarlo.

strofa 5. Tuttavia, lei è così dura di cuore [“strana e foresta”] che se ne fugge da lui.

strofa 6. Forse è stata attratta dai monti del nord, quelli dove sta la calamita: in altre parole, il suo cuore deve essere di ferro.

strofa 7. Envoi: la canzone se ne vada a nord, a vedere se riesce a smuovere la donna amata.

Per la spiegazione della strofa 2. (stella/virtù) bisogna rifarsi a Guido Guinizzelli, Al cor gentil.

La forma, che pare un unico, usata solo qui da Sacchetti, è «calamitra». Il tema, non nuovo, è quello dei monti fatti di calamita, che si dovrebbero trovare a nord.  

 

3.13.2 CCCI  Canzone acefala, detta dall’editore “Dir de’ Bianchi”

La “canzone” [in realtà un lungo testo a versi baciati] manca dei primi versi.

Racconta una cerimonia religiosa, una grande processione propiziatoria che doveva servire per allontanare il rischio di una pestilenza, alla quale concorrevano toscani e genovesi. Erano tutti vestiti di bianco. C’è una grande tiritera contro vizi e peccati. La parte finale è una preghiera alla Vergine, alla quale (v. 342) è attribuita la qualifica di “calamita”. Tipica trasposizione religiosa di un tradizionale epiteto amoroso, per quanto sia più frequente il contrario.

Nella III novella del Trecentonovelle si parla di un certo Parcittadino di Linari in Valdelsa, che se ne andò alla corte di re Edoardo d’Inghilterra; loda il re, e ne riceve in cambio una gragnuola di pugni; si lancia in una sterminata reprimenda del re, e ne riceve in cambio denari e ricchezze; perché la prima volta aveva detto il falso, la seconda la verità.

Di calamita si ragiona nel discorso di lode, perché Parcittadino è stato attratto dalla fama di re Edoardo come il ferro viene attratto dalla calamita.  

 

3.14 Maometto «negromante» della calamita in Giovanni Villani

Giovanni Villani, nella sua Nuova cronica, tratta, per quanto l’argomento gli sembri distante dal centro dei suoi interessi di storico, di Maometto.

Egli, dice, fu falso profeta e negromante, dalla stirpe di Ismaele e Agar, cosa che era stata profetizzata dal Genesi [XVI, ma con una certa forzatura del senso]; fu cammelliere e si arricchì sposando la sua padrona, rimasta vedova. Diventò profeta con l’intenzione di sottomettersi gli arabi, gente piuttosto sciocca; li conduce a fortune militari alterne, ma a una sicura riduzione ai suoi ordini: chi disobbedisce, viene ammazzato e i suoi averi diventano di Maometto. Fu molto lussurioso, e si vantava della sua virilità; impose il velo alle sue mogli; proprio la sua lussuria lo fece esiliare; si inventò una legge secondo cui le donne colpevoli d’adulterio sarebbero state punite con la morte, a meno che non avessero fornicato con lui; rese legale la poligamia. Poiché soffriva di epilessia, aveva messo in giro la favola che durante gli attacchi veniva visitato dall’angelo Gabriele, ma in realtà il Corano lo scrisse con l’aiuto di un cristiano traditore della fede, un certo Sergio, e di un altro dotto ebreo. Mescolarono così le idee cristiane, quelle ebree e quelle dell’antica religione pagana d’Arabia. Così i maomettani conquistarono Asia, Africa ed Europa. A quarant’anni Maometto morì: aveva profetizzato che sarebbe stato portato via dall’angelo Gabriele, ma così non avvenne; dopo dodici giorni, lo seppellirono alla Mecca, sua città natale: «e per magistero di ferro con forza di calamita, la detta arca col suo corpo sta sospesa in aria sanza nullo altro tenimento». Per quanto la sua legge fosse sballata, i suoi collaboratori e discendenti la imposero agli arabi per garantirne una qualche unità politica.

Vi sono diversi aspetti interessanti in questa storia, alcuni che Villani introduce a livello conscio, altri di cui non ha coscienza.

I primi: vuol dipingere Maometto come impostore, e per far questo gli attribuisce delle capacità «illusionistiche», delle arti che in qualche modo ha appreso, e che gli riesce facile esercitare, poiché gli arabi sono «grossi». A queste abilità non si accompagnano doti morali, al contrario: Maometto appare un vizioso, soprattutto per i suoi comportamenti sessuali, tipici di un maniaco: le sue profezie, i suoi discorsi di riformatore religioso sono inficiati da tali comportamenti. Non ha nemmeno grande statura intellettuale, dal momento che per scrivere il Corano si fa aiutare da savi cristiani ed ebrei.

Le considerazioni che si possono trarre dal testo di Giovanni e che per lui rimangono almeno in parte inconscie si possono sintetizzare così:

-   è possibile imparare le arti della negromanzia e impiegarle con uno studio e un maestro; esse non dipendono da potenze di ordine superiore (non c’è riferimento, per es., a commerci fra Maometto e il Maligno), me si imparano e basta, si tratta di scienza mondana; di ciò sono fatte, almeno in parte, le scienze degli adoratori degli idoli;

- non vi è differenza sostanziale, almeno in quanto a trasmissibilità, fra queste conoscenze e quelle che costituiscono la legge e la religione; sul piano della forma, la legge vera e quella falsa non differiscono, tanto è vero che Sergio e il dotto ebreo profittano delle loro conoscenze in materia di fede cristiana e giudaica per scrivere il Corano;

-   i miracoli, o almeno quelli relativi al mondo pagano, sono, o effetti di parola, o effetti di scienza; il primo caso è quello della giustificazione addotta da Maometto per le battaglie perse (è un segno di Dio, perché io non mi insuperbisca troppo), il secondo quello del sepolcro fluttuante nell’aria per la forza della calamita;

-   se proprio non si vuole equiparare i miracoli di tutte le religioni (Giovanni non l’avrebbe fatto), si deve comunque riconoscere che quelli, dei pagani sono solo effetti di sapienza mondana; se ne ha una doppia conseguenza: da un lato gli uomini possono fornire una prova “miracolosa” delle loro asserzioni anche se queste sono infondate; dall’altro, anche i miracoli “veri” non provano alcunché, dal momento che niente vieta di pensare a essi come a un’opera della scienza mondana dell’uomo.

L’uso della calamita per tener su la bara di Maometto è da questo punto di vista esemplare: si tratta di una miracolo, per di più continuato, di grande spettacolarità fra l’altro, che avrà certamente convinto più di un miscredente; però si tratta di un prodigio “meccanico” realizzato con un mero artificio tecnico: magia sul tipo di quelle realizzate dai negromanti. Sono cose che si può imparare a fare, senza che nessuno ti aiuti, solo che il tuo studio sia abbastanza approfondito.

La calamita è un oggetto intrigante, per molti aspetti: essa ha un chiaro valore simbolico, perché è stata a lungo avvicinata a ciò che in genere attrae: Dio, la donna amata, in genere una guida, per l’uso che se ne fa nella bussola. Qui, la medesima conoscenza porta ad altro: a un prodigio tutto umano che pretende di farsi riconoscere per soprannaturale, o, se si vuole, a un prodigio realizzabile con il modesto apporto di un laboratorio.

Il medesimo mondo che si lega all’immagine, che allora si diffondeva, dell’alchimista.  

3.15 L’alchimia fino a Dante

Dell’alchimia ben poco dicono gli scrittori italiani in volgare dei primi secoli: un accenno si trova in una questione che vide dibattere Bonagiunta Orbicciani, Gonella degli Anterminelli, Bonodico notaio, tre poeti lucchesi. Il problema è posto da Gonella, il quale si domanda: come fa la lima, che è di ferro, a strappare altro ferro da dove è attaccato? Strano, perché dovrebbero essere di durezza uguale! [Interessante è per noi che si parli qui di un problema «tecnico», o comunque di valore scientifico: assai diverso dai temi consueti delle tenzoni, o amorosi, o di invettiva.]

Bonodico è del parere che la lima acquisisca durezza per qualche trattamento che le ha fatto il fabbro; qualcosa del genere c’è anche in una prima risposta di Bonagiunta: la tempera, che consiste nel purificare il ferro con il fuoco, ne incrementa significativamente la durezza; te la cavi con poco, replica Gonella a Bonagiunta: si tratterebbe di qualcosa di naturale o di artificiale, questa maggiore durezza della lima? Ma si trattava di altro in realtà, perché la successiva e conclusiva risposta di Bonagiunta dice che non c’è contraddizione tra la natura di un oggetto e le trasformazioni che ne può fare l’arte; maggiori sono le trasformazioni quanto più chi le opera è sapiente, minori quando siano dettate dall’alchimia; e non credo, dire Bonagiunta, che quest’ultima sia vera (consentendo così con Gonella, il quale lo aveva pregato di non tirar fuori discorsi alchimistici), perché non si può con l’arte cambiare natura agli esseri, come sarebbe trasmutare i metalli. Qui Bonagiunta si accoda all’immagine tradizionale dell’alchimista, e ne dà una descrizione ben poco lusinghiera.

Non molto diversa è la posizione di Dante, che con gli alchimisti se la prende nel XXIX dell’Inferno, sistemandoli nella decima bolgia dell’VIII cerchio, fra i falsari. Griffolino d’Arezzo ebbe a pagare le sbruffonate di mago buono a nulla: aveva detto che sapeva volare, richiesto di dimostrazione lo bruciarono; perché ovviamente lo non aveva saputo fare? Non per questo è finito all’Inferno, ma per aver falsato i metalli, con l’alchimia. Per lo stesso motivo è finito laggiù Capocchio, un senese. Cosa si deve intendere per “falsare i metalli”? vi è un elemento di frode, dato che siamo tra i fraudolenti; è probabile che costoro abbiano non tanto trasformato davvero i metalli vili in oro, cosa che, come a Bonagiunta, sembra suscitare a Dante qualche perplessità, quanto cercato di dar ad intendere che certi metalli, palesemente non oro e argento, fossero preziosi.

Qualcosa, insomma, come gli artefici della tomba di Maometto, che millantavano un miracolo nella sospensione della bara, e invece l’avevano fatta con un banale trucco meccanico.

Alchimisti di tal fatta ce n’erano di certo molti, e si può dire che fossero un po’ tutti coloro che dicevano pubblicamente di praticare quest’arte; del resto il mondo degli imbroglioni medievali dev’essere stato vasto e movimentato, a credere, senza perdersi troppo in ricerche infinite, al Boccaccio e al suo Decameron.