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Pleniluni e quarti di luna

 

Dame e cavalieri

Radici medievali della sensibilità moderna

ottobre 1997- aprile 1998

2. Apuleio  

2.1 Un processo per magia

2.2 La magia nell’Asino d’oro

2.3 Un analogo biblico: la maga di Endor

2.4 Negromanzia e cristianesimo: Simon Mago

2.5 La magia nelle Metamorfosi di Ovidio

2.6 La metamorfosi in Boccaccio: Donno Gianni

2.7 Verso l’alchimia

 

2.1 Un processo per magia

Fra il 155 e il 159, a Oea, che sarebbe l’attuale Tripoli di Libia, città tranquilla nella provincia profonda dell’impero, tenne banco un caso giudiziario, che ci mise tre anni a essere risolto. Proviamo a immaginare i titoli dei giornali: “An­ziano vagabondo seduce e truffa le vedove con le arti magiche”; “Vatti a fidare di chi parla bene”; “Un bel modo di sbarcare il lunario: come rubare le eredità con gli incantesimi”; “Mariti e buoi dei paesi tuoi: un consiglio ai padri di famiglia”; “Questi maghi ne sanno una più del diavolo”.

Volendo riassumere, al modo del cronista che illustra il caso prima del processo, andò così: un anziano certo colto ma poco proclive a lavorare, piuttosto ad andare a spasso, si è fermato nella nostra città, Oea, dove conosceva un suo vecchio compagno di scuola, Sicinio Ponziano, figlio di Pudentilla e fratello di Sicinio Pudente, gente rispettabile. Con la scusa della vecchia amicizia, non solo si è fatto ospitare da Ponziano, ma ha irretito l’anziana e ricca madre del suo ospite, si presume usando delle arti magiche, perché lei non è certo tipo da mettersi con simili figuri, per sposarla. Si proponeva con questo di mettere le mani sulla ricca eredità della vedova, lasciandone una parte all’amico Ponziano, in sfavore di altri stimati concittadini, Sicinio Emiliano ed Erennio Rufino, che ne avrebbero avuto diritto. Ponziano è morto poco dopo, si sospetta anche le per le mene diaboliche di questo personaggio, la cui origine (è un mezzo marocchino), dovrebbe far insospettire chi lo incontra. Pudente, l’altro figlio di Pudentilla, che, poiché è troppo giovane, si fa rappresentare da Sicinio Emiliano, lo ha trascinato in giudizio. Il processo si terrà oggi a Sabrata, dove è giunto Claudio Massimo, che presiederà il tribunale.

Il nostro immaginario cronista avrà titolato, il giorno successivo, “Come farla franca se si hanno amici influenti”; «Il grillo di Oea», giornale concorrente del suo «Gladio della verità», diceva invece: “Imputato per magia e veneficio si salva con la sua arte oratoria”.

Di quel processo noi abbiamo notizia accurata e precisa proprio dall’orazione in sua difesa composta dall’accusato, Apuleio di Madaura in Numidia, nato intorno al 125, di cui le notizie si perdono dopo il processo. È un elegante e ammirato scrittore, il cui testo più famoso, Le metamorfosi,  forse più noto con il titolo L’asino d’oro, attribuitogli da un altro grande nordafricano, Agostino d’Ippona, si può leggere ancor oggi con piacere e divertimento.

Se il nostro scrittore si salvò da un processo che poteva essergli assai pericoloso, lo dovette in eguale misura alla sua abilità retorica (per vivere, in effetti, faceva qualcosa come l’oratore itinerante, il conferenziere), e alla conoscenza che doveva certamente avere del giudice.

Non importa tanto, leggendo il De magia, ricostruire il pensiero dell’autore circa la possibilità di eventi magici, quanto capire cosa intendessero per “incantesimo” i suoi accusatori, che, si può supporre, riflettevano in sostanza il ‘sentire comune’ intorno alla questione.

Una cosa è chiara subito: i mezzi magici sono quelli che permettono di trasformare la percezione del mondo da parte di qualcuno - più semplicemente, di trasformarlo: al modo che certi personaggi letterari mutavano la natura di malcapitati che capitavano loro a tiro (es.: la maga Circe dell’Odissea). Apuleio avrebbe usato i suoi strumenti magici per subornare Ponziano e Pudentilla, inducendoli a compiere ciò che non tornava nel loro interesse, o che si sarebbe interpretato a loro disdoro.

Sarebbe stato fin troppo facile, per Lucio, abile retore, ribattere che questa sorta di “magia” si compie tutti i giorni nei mercati e nei parlamenti, ad opera di ciarlatani e brillanti politici; facile, ma controproducente sul piano processuale, per cui egli preferisce contestare il merito delle accuse, che indicavano un altro strumento come capace di operare la trasformazione della volontà: il sortilegio.

In questo caso, i principali elementi di accusa erano l’acquisto di certi pesci, ai quali si dovevano attribuire delle virtù magiche, e la particolare devozione di Apuleio per alcune immagini che aveva in casa; soprattutto, aveva degli oggetti nascosti in un fazzoletto, vicino ai lari di Ponziano, che non faceva mai vedere a nessuno. Per i pesci, riporto un’annotazione di Concetto Marchesi:

Gli avversari accusavano Apuleio di aver fatto ricercare ad alto prezzo alcune specie di pesci immangiabili, fra cui due res marinae, due frutti di mare i cui nomi designavano gli organi genitali, e il lepus marinus, noto pesce velenoso, e, mettendo in rapporto tale ri­cerca con il matrimonio di Pudentilla, concludevano che Apuleio avesse adoperato queste sostanze marine per i suoi incantesimi amatori.

Chiaro il senso dell’accusa, quando si considerino i due tradizionali metodi della magia, quello per analogia e quello per contagio: i pesci che con la loro forma evocano l’amore coniugale possono permettere una magia destinata alla realizzazione del matrimonio, quello velenoso può trasferire la sua mortifera virtù su qualcuno, attraverso riti opportuni.

Apuleio si diverte, sfruttando la sua preparazione culturale, a mostrare che di filtri d’amore a base di pesce non si è mai sentito parlare: lo sanno tutti, almeno coloro che hanno letto Virgilio e Ovidio, che le magie si fanno con le erbe! per non parlare di quello che dicono Toecrito, Omero, Orfeo: ma i suoi accusatori non sanno il greco. Nemmeno Levio, che forse era un’autorità riconosciuta in materia, parla di pesci, quando tratta dei modi di far filtri d’amore. Pitagora stesso sostiene che i materiali magici nascono dalla terra, non dal mare.

In realtà, Apuleio dice che, come mostrano certe sue opere che noi non possediamo più, i pesci erano un suo interesse scientifico, per cui se li procurava per studiarli e descriverli. Nei pesci inoltre, poiché si diletta di arte medica, cerca di trovare rimedi per le malattie.

Per quanto riguarda gli oggetti misteriosi, l’arcano è presto svelato: primo, non erano per niente misteriosi, Apuleio li custodiva come cose normalissime; secondo, non si tratta di attrezzi magici, bensì di oggetti pertinenti il culto misterico praticato dallo scrittore.

Si ricava da queste considerazioni che la magia consisteva nel produrre comportamenti anormali o modificazioni in esseri umani, con l’uso di particolari materie e di riti.  

 

2.2 La magia nell’Asino d’oro

Di cosa si trattasse precisamente, meglio si ha notizia nel grande romanzo di Apuleio, L’asino d’oro.

Si tratta di un lavoro che, come spesso accade nella letteratura antica, non si preoccupa di elaborare una materia originale, ma ripropone una storia nota, che ci è giunta sotto il titolo Lucio o l’asino, attribuita, ma erroneamente, al grande scrittore del II secolo, Luciano di Samosata. Si tratta piuttosto di un testo anteriore, sul genere delle fabulae milesiae, il cui autore più rappresentativo sembra essere stato, nel II sec. a.C., Aristide di Mileto, di cui peraltro non abbiamo nulla. Altri studiosi, sulla scorta di Fozio, sostengono che fonte comune di questo racconto e di quello di Apuleio sia stato un libro perduto, Discorsi diversi di metamorfosi di un certo Lucio di Patre.

La vecchia novella è semplice e lineare: un certo Lucio di Patre (dunque, il vecchio scrittore?)  in Acaia, benestante, cui piace raccontare storie, viaggia per cercarne materia. Va per affari in Tessaglia, dove è ospite in casa di una strega; pensa che sia divertente partecipare a un incantesimo e farne, già che c’è, esperienza. Si mette d’accordo con una servetta della maga, Palestra, con cui intreccia una relazione amorosa. L’esperimento che dovrebbe riguardarlo consiste nella trasformazione in uccello, cosa che si rivela impossibile: Lucio diventa un asino. Poco male, basterà che mangi delle rose fresche e ritornerà qual era. Nascono però una serie di peripezie: l’asino viene rapito dai briganti, poi, liberato, è costretto a portar pesi, quindi lo sottopongono a ogni sorta di angherie, arriva da certi sacerdoti della dèa Siria, viene fatto lavorare da un mugnaio, e quindi acquistato da un ricco di Tessalonica, che lo fa mangiare ai propri banchetti. Una signora, nientemeno, si innamora di lui, al punto da volerci avere dei rapporti, Scoperta la cosa, il padrone pensa di farne oggetto di spettacolo, facendolo accoppiare a teatro con una condannata a morte, ma Lucio trova infine le rose e torna uomo; viene però respinto dall’innamorata, che in lui cercava le particolari caratteristiche asinine.

In linea di massima, la storia di Apuleio segue da vicino quella dello pseudo­Luciano; la redazione è però molto articolata, ha varie digressioni fra cui una importante con la famosa novella di Amore e Psiche, e comporta una conclusio­ne affatto diversa, che ha fatto molto discutere, con il protagonista che viene accolto da certi sacerdoti di Iside, della cui schiera egli pure entra a far parte. Tutto questo produce un enorme incremento di materiale, da una trentina di pagine della redazione più antica a ben più di duecento.

I riferimenti alla magia sono moltissimi, a partire ovviamente dalla metamorfosi che dà il titolo al libro, quella di Lucio in Asino. La storia è ambientata in Tessaglia, luogo dove notoriamente abbondavano fattucchiere e maghi. Birrena, la padrona della servetta Fotide (ruolo che nello pseudo-Luciano era incarnato da Palestra) è una di loro. Smodata divoratrice di uomini, la sua principale occupazione è la realizzazione di filtri d’amore, come racconta la servetta (riporto il testo del classico adattamento rinascimentale di Agnolo Firenzuola):

Già saprai tutto lo stato di nostra casa, già intenderai i segreti miracoli della mia padrona, alla quale obbedisce l’inferno, si conturbano le stelle, sono constretti gli spiriti, servono gli elementi; né mai fa maggior prova con questa sua arte, se non allora quando amorosamente risguarda qualche leggiadro giovanetto. La qual cosa le suole intervenire assai sovente; e al presente ella arde d’un giovane, il quale è sommamente bello, ed esercita in lui tutti gli strumenti, tutte le machine. Io udi’ iersera, io lo udi’ con queste mie orecchie, che se il sole non affrettava il suo corso, e non dava con prestezza luogo alla notte, tempo capace alle celebrazioni de’ suoi incanti, la ’l coprirebbe d’una caliginosa nebbia, e vestirebbelo d’una perpetua oscurità. Ora avendo costei veduto ieri mentre ch’ella tornava da messa, questo giovane sedersi entro a una barbieria, ella mi comandò ch’io ricogliessi alcuni de’ suoi capegli, i quali, perché il barbiere gli aveva tondata la zazzera, erano sparsi quivi per terra. E mentre che io così di nascoso gli raccoglieva, il maestro se ne accorse, e perciocché noi siamo infami già per altro di quest’arte, egli mi prese per un braccio e dissemi una carra di villania: «Tu non vuoi restare eh, vituperio del mondo - diceva - d’andar ricogliendo le tondature de’ capegli de’ poveri giovani? Se tu non te ne rimani, io ne porrò richiamo a corte» e aggiugnendo alle parole i fatti, messemi le mani in seno, tutto adirato, ne trasse parecchi che io di già vi avevo nascosti. Dopo la qual cosa essendo io già grandemente affannata, ricordandomi in fra me del mal costume della mia padrona, la quale adirandosi per ogni piccola cosa, mi suol dare di molte battiture, pensava di fuggirmi; ma lo amore che io ti porto mi costrinse a disgombrare questo pensiero; e per non tornare a casa con le man vòte, accortami d’un che con un paio di forbice tondava certi otri di pelle di capra ben gonfiati, perciocché quelle tondature erano bionde e simili ai capegli di quel giovane, io ne ricolsi parecchi, e mostrando che fussero di colui, gli portai alla mia padrona; e così ella in sul farsi sera, anzi che tu arrivassi da casa Laura, tutta conturbata salse sopra d’un certo tavolato che c’è sulla più alta parte della casa; il qual luogo ella per esser comodo all’arte sua, usa massimamente quando vuol fare di segreto qualche incanto; e come prima vi fu arrivata, col suo solito apparecchio ella spiegò la pestifera bottega.

Appaiono qui alcuni tratti tipici della magia, In parte già riscontrati nell’apologia di Apuleio per se stesso. Scopo precipuo di essa è indurre comportamenti eccezionali; ciò esorbita le normali manifestazioni naturali (il giovanetto biondo concupito da Birrena forse preferirebbe un’amante più giovane, adatta alla sua età); per ottenere i propri scopi il mago si avvale o di relazioni di somiglianza o di contiguità con l’oggetto del suo incantesimo: nel De magia Pudentilla sarebbe stata sottoposta all’influsso di strani pesci richiamanti la vita amorosa, qui il maleficio si dovrebbe fare con dei capelli appartenenti al malcapitato giovane, sostituiti per i motivi indicati da Fotide con i peli di capra provenienti dagli otri. Ciò era stato causa per il protagonista del romanzo di una disavventura notturna che per poco non aveva avuto conseguenze tragiche. Fotide sta narrando la storia per giustificarsi in qualche modo con lui.

Quivi era d’ogni ragione spezierie, piastre di metallo piene di non conosciute lettere; quivi si scorgevano dalle naufraghe navi mille rimasugli; quivi si trovavan de’ sepolti corpi infinite membra: di quello il naso, di questo le dita, e di molti impiccati per la gola i carnosi colli; più là era un’ampolla di sangue di morti da omicida coltello, e da un altro canto stava un testio d’un uomo stato da cruda fiera divorato. E avendo dette molte parole, sopra tutte quelle cose vi spruzzò su acqua di fontana, latte di vacca, mèle di mon­ti, eziandio della cervogia; e aviluppando que’ capegli insieme con molti odori, gli gittò ad abbrucciare; allora allora per la potestà di quell’arte, e per una vecchia violenza di demoni constretti da lei, quegli otri, de’ quali fumavano gli peli, si empierono di spirto, e andorono; e dove gli traeva il puzzo delle loro spoglie, là oltre forzatamente se ne vennero; e in cambio di quel giovane, pieni di desiderio d’entrar dentro, facevano quel rovinio dintorno alla porta...

Si tratta di una descrizione canonica dell’antro della strega; lo potremmo trovare in mille rappresentazioni successive, fino a quando diventerà un luogo comune cinematografico e fumettistico: le streghe disneiane hanno alloggi analoghi. Messe in scena analoghe si trovano pure in Orazio, Satire 1,8 e Epodi V. Quest’ultimo testo dedica qualche decina di versi a descrivere una cerimonia stregonesca in piena regola, fosca e di gusto decisamente noir. Un breve passo mi pare rilevante per la nostra lettura: «quantum carminibus quae versant atque venenis humanos animos» (v. 19-20), ossia «quelle che con incanti e veleni sconvolgono gli animi umani», modificandone dunque la volontà.

È lo stesso tema che ci interessa leggendo Apuleio: ciò che induce i comportamenti straordinari degli uomini e anche delle cose sottoposte a magia è per lui una modificazione della volontà; se, come nel caso degli otri, una volontà naturale non c’è, l’incantesimo gliene darà una, avvolgendola peraltro dentro le volontà del mago. La magia di questo tipo è simile, in fondo lo diceva lo stesso Apuleio nell’orazione in propria difesa, al meccanismo retorico della convinzione, o se si preferisce della seduzione. Io posso usare la parola, sempre in qualche misura la uso, per indurre il mio interlocutore a comportamenti, a convinzioni, che non sono quelli per lui naturali, persino alla sottomissione o alla schiavitù, oppure a comprare qualcosa che non gli serve: un caso di magia di questo tipo è la proverbiale vendita di frigoriferi agli eschimesi. Tutto sommato, buona parte del discorso amoroso si inserisce nella medesima categoria.

Questo elemento della volontà è molto importante, poiché è tipico della magia classica, forse ancora di più di quanto non lo sia la metamorfosi.

Un caso particolare si ha quando il mago impone, attraverso i suoi riti e strumenti magici, la propria volontà a se stesso, modificandosi in vista di qualche suo fine. È ciò che Lucio vede accadere alla strega Birrena e che poi, con una complicazione che vedremo, sperimenta su se stesso.

La servetta Fotide si fa alquanto pregare, quindi accondiscende a far vedere all’amante la strega in azione:

E in quella guisa [amoreggiando con l’amica] con assai mio sollazzo passarono alcune poche notti, sino a che un dì tra gli altri la Lucia [nome italiano attribuito da Fiorenzuola a Fotide, per etimologia] tutta affannata e timorosa mi venne dicendo, che la padrona, non profittando dell’amor suo con altro modo che con queste sue arti, si voleva la seguente notte trasmutare in uno uccello, e in quella guisa volarsene in grembo al suo desiderato; per la qual cosa io mi mettessi a ordine se bramava saziare il mio appettito. E venuta ella, fra le tre e la quattro ore, io fui con cheti passi condotto vicino a quel terrazzo di legname ch’io vi dissi di sopra; e giunto che io fui lassù, ella mi fece vedere per una certa fessura dell’uscio tutto il convenente. La prima cosa, ella si trasse tutte le vesti, e aperta una cassetta, ne cavò fuori parecchi bossoletti, dell’un de’ quali levatone il coperchio, e trattone certa unzione, poscia che se la fu rimenata un pezzo per le palme, si unse dalla cima del capo insino alle punte de’ piedi, e avendo parlato un pezzo di secreto con la lucerna, si scosse così un pochetto: dalla quale a poco a poco si videro spuntar certe piume, poi nascer le penne, il naso divenne torcendosi un becco, le unghie appuntandosi si aoncinarono; finalmente la divenne un assiuolo, e mandando fuori uno di questi suoi urli maninconiosi, facendo prova del fatto suo, a poco a poco si alzava da terra; e poco poi levatasi in aria, si mise a volo per lo cielo.

Troviamo qui, dunque, che il mago ha il privilegio di applicare anche a se stesso la propria volontà, di divenire ciò che vuol essere, a patto di seguire determinati procedimenti. Se confrontiamo comunque il modo con cui Apuleio presenta la trasformazione con analoghe rappresentazioni più tarde, che appartengono però alla medesima tipologia (per esempio, quelle contenute nei trattati rinascimentali sulla stregoneria, quando vengono descritti i riti delle streghe per recarsi al sabba, oppure, per citare un grande romanzo novecentesco, la trasformazione e l’avvio al volo della protagonista nel Il maestro e Margherita di Mikhail Bulgakov) troviamo inevitabilmente che a operare realmente la trasformazione non è il mago, ma una qualche potenza preternaturale: nel caso della stregoneria moderna il diavolo, rappresentato da Woland nel romanzo di Bulgakov. Anche qui, qualche pagina prima, si era detto di Panfile [Birrena] che lei ha la capacità di far volgere secondo i propri scopi l’attività dei mani e persino degli dèi: con i sui artifici “oboediunt manes... coguntur numina...” Questo genere di “magia” non è scomparso: è precisamente quello delle fattucchiere e degli esperti di magnetismo che si pretendono dotati di poteri straordinari e che ingombrano le trasmissioni notturne delle televisioni locali.

Lucio non è contento di essere riuscito a vedere il portento: vorrebbe egli stesso sperimentarlo; Fotide è in grado di guidarlo su questa strada, ma sarebbe contraria; poi si lascia convincere; il giovane ha un sussulto di preoccupazione: non è che poi mi tocca restare uccello tutta la vita?

Sta di buon animo - rispose ella - che tutto quello che fa mestiero intorno a ciò, io il so troppo bene; perciocché la mia padrona mi ha mostrato tutte le vie, le quali possono far gli uomini di nuovo ritornare alle loro forme; né creder già ch’ella abbia fatto questo per amore che ella mi porti, ma a cagione che ritornando essa, io le possa ministrare le cose che le bisognano. Guarda dunque con che picciola, con che frivola materia si procuri così gran cosa. Prendesi un poco d’aneto, e messo con parecchie foglie d’alloro nell’acqua, e dato a bere, o fattone una lavanda, ne rende la forma di prima.

È il principio dell’antidoto: a ogni magia ne corrisponde una contraria, che permette di neutralizzarla. Non è qui il caso di indagare quali costruzioni mentali e mitologiche stiano sotto a questa idea (basti osservare che il dualismo e la reversibilità fra stati diversi è tipica ad es. delle idee zoroastriane, dalle cui parti, oltre che dalla Tessaglia, si riteneva provenissero magi e magi). Noteremo soltanto che molte concezioni pseudo-mediche si basavano, e si basano, su ipotesi simili; il farmaco come antidoto di un agente patogeno, di un veleno, è patrimonio del mondo greco a tal punto che pharmakon designa sia la medicina che il veleno.

E poscia ch’ella ebbe queste cose più volte affermato, entratasene con gran cura di non essere veduta in quella stanza, e tratto fuori un bossolo di quella arca, me lo diede; il quale subito che ebbi, avendo io in prima abbracciato e baciato, il pregai che mi fusse favorevole al volare. Quivi spogliatomi subitamente tutte le vesti, vi misi le mani assai avidamente, e cacciato molto bene di quell’unto, me ne stropicciai tutte le membra, e poscia battendo or questo e or quel braccio, per la gran brama ch’aveva di volare, parendomi tuttavia che fusser divenute due ali ma niuna piuma appariva, nessuna penna non spuntava: anzi i miei peli si ingrossavano in setole, e la mia pelle si indurava in cuoio; le dita perdendo il loro numero si inceppavano in una unghia sola; e là oltre, dove terminava il fil delle rene, calava una pannocchiata coda; la mia faccia divenne bruttissima e lunga, il naso si aperse, le labra cresciute in carne mi penzolavano, e le orecchie rivestite di orridi peli, appuntatesi, crebbero sconciamente.

Così Lucio si trasforma in asino e intraprende lunghe peripezie sotto questa forma.

Si devono notare alcune cose:

- la tecnica magica non è tanto una sapienza, quanto il possesso di determinati materiali; saperli usare si riduce al puro distinguerli l’uno dall’altro, a una questione di etichette sui vasi;

- la virtù magica ha sede nei materiali, e in essi ci deve essere una specie di volontà - ancora una volta; Lucio infatti prega la sua scatolina di assisterlo, così come aveva visto fare a Panfile [Birrena]. Vi è una concezione in qualche modo animista, l’idea che alcuni materiali, almeno, siano dotati di una vita spirituale;

- viene qui trattato il tema del mago imbranato, che non riesce a dominare i suoi procedimenti perché li conosce in modo troppo superficiale; è un tema che andrà di moda a lungo, fino al nostro secolo: si può ricordare il poema sinfonico di Paul Dukas L’apprenti sorcier, che deriva da una ballata di Goethe e che è stato usato come base musicale per un episodio di Fantasia, notissimo cartone animato disneiano.

Questo episodio dell’Asino d’oro riassume bene le caratteristiche della magia antica: essa è strettamente legata all’idea di un mondo spirituale e soprasensì­bile, in cui operano forze che l’uomo non può in generale controllare. Il mago riesce invece a imporre sul mondo esterno, senza mediazioni naturali, dunque per via soprannaturale, il proprio progetto. In gran parte oggetto della magia sono gli uomini o comunque gli esseri viventi, per cui di solito ha a che fare con delle metamorfosi o delle modificazioni della volontà; anzi, come abbiamo visto, è proprio quest’ultima a essere maggiormente messa in gioco, perché a realizzare le magie occorre l’incontro fra la volontà del mago e quella dell’agente magico. I pochi incantesimi che hanno a che fare con la natura non hanno caratteristiche strutturalmente diverse: sono possibili per la mediazione di entità spirituali, hanno una connotazione in sostanza religiosa. Anche chi legava le proprie arti magiche a una conoscenza presa più in generale, come si dice facesse ad esempio Pitagora, intrattiene rapporti stretti con il mondo soprasensibile, come testimoniano le leggende che lo vedono scendere agli Inferi oppure in rapporto stretto con altri praticanti di queste discipline, ebrei, egiziani, indiani, persiani, di cui è fuori discussione l’ispirazione religiosa.  

 

2.3 Un analogo biblico: la maga di Endor

Un altro testo in cui appare la magia, le Sacre scritture, riportano esempi tutto sommato analoghi a quelli fin qui discussi: si può ricordare Esodo, 7,19 seg., in cui Mosè e Aronne vanno da Faraone e Aronne compie dimostrativamente una magia con la verga che si trasforma in serpente: siamo qui a un elemento di metamorfosi analogo all’episodio degli orci animati in Apuleio.

Un altro personaggio «magico» è la maga di Endor, da cui si reca Saul in I Samuele, 28, 3 segg.: si fa da essa predire il futuro; più che una maga nell’accezione che interessa a noi si tratta di un’indovina.  

2.4 Negromanzia e cristianesimo: Simon Mago

Il caso più rilevante è quello di Atti degli apostoli, 8: Simon Mago si converte, ma vorrebbe l’assistenza dello Spirito Santo per compiere prodigi: sarebbe disposto a pagare. Sua punizione. Qui appare chiara la totale identificazione, che già abbiamo notato nei prodigi riferiti da Apuleio, di magia e miracolo: in realtà Simone vuole semplicemente sostituire il suo patrono, che compie realmente i processi magici e si è dimostrato limitato, con un essere più potente.  

 

2.5 La magia nelle Metamorfosi di Ovidio

Val la pena far almeno cenno all’altro testo in cui le trasformazioni sono assunte come argomento centrale del libro, le Metamorfosi di Ovidio: non fosse altro che perché si tratta di uno dei «libri nascosti» dell’occidente, che tutti hanno profondamente sfruttato e pochi riconosciuto, impegnati com’erano a tributare lodi maggiori ai più «seri» Virgilio e Orazio.

Si tratta, come è noto, di un coacervo di miti che hanno in comune una qualche trasformazione dei protagonisti: «Mi è venuto in mente di dire come certe apparenze si siano mutate in nuovi corpi» (In nova fert animus mutatas dicere formas / corpora): Dafne trasformata in alloro, Atteone in cervo, Narciso in fiore, tanto per dirne alcune delle più note. Si tratta di una trasformazione però più apparente che reale, come proprio il primo verso chiarisce: ciò che si trasforma è l’apparenza esteriore, in realtà Dafne resta sempre la stessa sia in forma di fanciulla sia in forma d’alloro; a meno che forma non vada intesa nel senso forte di “idee platoniche”: si dovrebbe allora spiegare che la medesima idea si incarna in copie mondane (corpora) diverse, cosicché l’amore per la poesia (forma che sta dietro sia a Dafne che all’alloro) trova le sue rappresentazioni simboliche in ambedue le manifestazioni. In un contesto più allargato e forse più fecondo, è in realtà la stessa cosa.  

 

2.6 La metamorfosi in Boccaccio: Donno Gianni

Fra i testi che abbiamo analizzato per mostrare l’interesse di Boccaccio alla magia abbiamo trascurato una interessante e «boccacesca» novella del Decameron: la 10 della IX giornata, dove si racconta di un prete - Donno Gianni - che asserisce una sua capacità di trasformare le donne in cavalle e viceversa. Tema, come si vede, analogo a quello delle Metamorfosi apuleiane. Questa operazione è ritenuta da Boccaccio del tutto assurda: in effetti, nasce solamente da un atto di cortesia del prete che, ospitato da compar Pietro, dice di non aver bisogno di nulla perché ogni notte trasforma la sua cavalla in una bella giovane; dalla sciocca credulità della moglie di Pietro, che vorrebbe trasformarsi in cavalla per aiutare il marito; e dall’improvvisa lubricità del sacerdote, eccitato dall’avvenenza della donna. Siamo in un ambiente cinico e disperato, in cui la religione è usata come espediente per cavare ricchezze dai poveracci, un po’ come nella novella notissima di Frate Cipolla (VI, 10). Magie e imbrogli che non conducono da nessuna parte: semplicemente forniscono materia di riso. Il che non è invece nelle due novelle analizzate (Madonna Dianora e Messer Torello) in cui ai negromanti vengono attribuite imprese concrete.

La differenza fra questi ultimi casi e quello di donno Gianni, che mima la magia antica, è che i nuovi negromanti:

1. operano i loro prodigi solo per le proprie conoscenze: sono cioè dei tecnici che applicano delle acquisizioni scientifiche, non degli evocatori di potenze soprannaturali che per lo più si rivelano dei ciarlatani;

2. non sono avidi: anche se, come nel caso di madonna Dianora, si lasciano convincere a mettere a disposizione le proprie conoscenze a pagamento, sono capaci di rinunciare per nobiltà d’animo.  

 

2.7 Verso l’alchimia

Questi elementi inducono a riconoscere che c’è differenza fra l’idea antica di magia (incantesimo derivante dall’azione di un essere soprannaturale evocato dal «mago», che ha come contenuto prevalente la trasformazione e l’intervento sugli esseri dotati di volontà) e quella medievale, di cui abbiamo ritenuto di trovare una rappresentazione tipica in alcuni passi del Decameron (interventi sulla natura, ritenuta impersonale e priva di volontà, tramite tecniche derivanti dalla conoscenza delle sue leggi, allo scopo di modificarla per adattarla alle proprie necessità).

Occorrerà ora mostrare che questa tesi è basata su prove più ampie che l’analisi di un unico testo per quanto capitale; fornire una migliore descrizione dei contenuti e dei propositi di queste attività; tracciarne la storia, nel senso, almeno, di capire quando simili idee si siano manifestate in Europa e come abbiano influito sulla cultura dell’epoca e successiva.

In Europa si ha notizia di procedimenti del genere nel 1144; sono importati dall’oriente e vanno complessivamente sotto il nome di “alchimia” (la quale comprende anche altre questioni, che qui non è il caso di trattare).

Fra i testi alchimistici mi pare particolarmente interessante Arnaldo di Villanova, in primis perché dovrebbe trattarsi di un lavoro autenticamente medievale (non ci si raccapezza fra edizioni discutibili, falsi veri e propri, ciarpame vario) in secondo luogo perché sembra porre le questioni centrali della sua materia in modo “scientifico” (come pochi anni dopo Boccaccio nel Decameron): l’ambito di ricerca (trasmutazione della materia in altra materia, in ambito meccanico e non vitale); elaborazione di principi generali e teorie diverse dai “poteri” di spiriti speciali; pratiche di laboratorio; elaborazione di un lessico specifico (a noi molte volte incomprensibile: non più però che, per es., i precetti d’arte di Cennino Cennini).