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Pleniluni e quarti di luna

 

Dame e cavalieri

Radici medievali della sensibilità moderna

ottobre 1997- aprile 1998

 

 

1. Giovanni Boccaccio e i negromanti

1.1 Il negromante

1.2 Negromanti e maghi nel Decameron

1.2.1 Lo scolare e la vedova

1.2.2 Maestro Simone medico

1.2.3 Madonna Dianora

1.3 Il negromante nel Filocolo

1.4 Ser Torello

 

Com’era giovane, ser Giovanni, al banco dei Bardi!

Napoli allora era una delle grandi capitali europee, il meglio che si potesse trovare desiderando conoscere il mondo e l’avventura: principi e ladri, mercanti e imbroglioni, donzelle di grande lignaggio e avventuriere da strada, tutto si mescolava sotto l’ombra inquieta del Vesuvio. Figurine, figuri, figure losche di cui si parla assai, nella grande novella di Andreuccio (II,5) e in quella per certi aspetti simile di Salabaetto (VIII, 10), in quella di Ricciardo Minutolo (III,6), nella tragica storia di Lisabetta (IV, 5), nell’avventura di Gian di Procida (V,6), nella vicenda di corna che vede per protagonista Peronella (VII,2), per finire nella favola cortese di Carlo d’Angiò (X,6). Certo in un luogo del genere c’era da stare attenti: gente in grado di far apparire il nero bianco e viceversa ce n’era a iosa. Non distrarsi mai! non cedere al desiderio! non lasciarsi andare ai sentimenti! non fidarsi nemmeno dell’evidenza! Come in un gioco continuo delle tre tavolette, quel che si vede è sempre diverso da quello che è, uno splendido sistema di specchi, un caleidoscopio iridescente, ombre e realtà confuse e sovrapposte.

Affascinanti.

Il verbo latino fascino (incantare, ammaliare, gettar magie o incantesimi: cfr., nel Novellino, la storia dei maghi da Federico II), il sostantivo fascinum (amuleto, malia) hanno a che fare con il mondo magico, che fa apparire una cosa per l’altra o perché il mago imbroglia o perché è effettivamente in grado di trasformare una cosa in un’altra. Chissà se Giovanni, il giovane fiorentino calato a sud per completare la sua formazione di mercante, ma che trovava di molto più interessante lo studio delle belle lettere e delle belle donne, rifletteva su queste etimologie e sulle strane relazioni fra le parole mentre, immaginandosi ora nei panni di Filostrato, ora di Dioneo, ora di Panfilo, considerava le grazie delle avvenenti donzelle napoletane, o quando corteggiava innalzandola su un piedestallo di gemme la sua Fiammetta.

Erano amori propiziati dal particolare clima di Napoli, come il poeta ricorda nelle Rime, di cui si riassumono qui i motivi:

 

LXV

Ho paura di andare a Baia, perché vi si fa sempre festa e, come più tardi nel paese di Acchiappacitrulli, si catturano le teste più fragili, che si innamorano; le donne soprattutto che vanno in quel luogo di villeggiatura sono sottoposte a tali pressioni che perdono senza fallo la loro virtù. Rischia che anche la mia donna sia tratta in queste tentazioni.

 

XXXVI

Alcuni dicono che Partenope, bella e colta, era arrivata a Napoli, dove poi era morta e sepolta; il clima del paese era favorevole alla bellezza, per cui le donne nascono in quel paese particolarmente affascinanti, cosa in cui il poeta ha trovato motivo di sofferenza.

 

Le Rime VI, VII e VIII parlano di un altro tipo di incanto: quello d’amore e della poesia, che hanno effetti tutto sommato simili e in qualche modo “magici” (per quanto Boccaccio usi questa parola solo in un’occasione). Ne parlerò in un altro momento, poiché costituiscono un ponte assai solido per approdare ad altre percezioni medievali della magia.

 

Di sicuro, in quel mondo di illusioni e imbrogli, di concreti affari e di misteriose passioni, maghi e ciarlatani dovevano essere di casa; di sicuro, per il banco dei Bardi passavano spesso mercanti e perditempo a raccontare storie, in cui la magia aveva spesso un ruolo importante. Giovanni ne parla ancora nelle Rime: nel sonetto LXXXVI troviamo un accostamento che si ripeterà spesso: magia e medicina.  

Ippocrate, Avicenna o Galieno,

diamante, zafir, perla o rubino,

brettonica, marrobio o rosmarino,

psalmo, evangelio ed oranzion vien meno;

 

piova né vento, nuvol né sereno,

mago né negromante né indovino,

tartaro né giudeo né saracino,

né povertà né doglia, ond’io son pieno,

 

poteron mai dal mio petto cacciare

questo rabbioso spirito d’amore,

ch’a poco a poco alla morte mi tira.

 

Ond’io non so che mi debba sperare;

ed ei d’ogn’altro affan mi caccia fuore,

e, come vuol, m’affligge e mi martira.

A parte il brillante gioco retorico di enumerazioni e antitesi, il sonetto è interessante appunto per l’accostamento dei medici e dei maghi come artefici della cura (per quanto inutile, visto che dal mal d’amore il poeta non guarisce). La magia, si ricava già da qui, è percepita da Boccaccio come una tecnica, con cui attraverso dei procedimenti si ottengono dei risultati. L’altro elemento interessante è la distinzione fra mago, negromante, indovino.

 

1.1 Il negromante

Cosa sia un indovino è facile da capire; meno il mago e il negromante. Nei primi secoli della nostra Letteratura la seconda voce ha una forte prevalenza di presenze: troviamo in altre parole assai più negromanti che maghi. Se apriamo un dizionario, troveremo che “negromante” è detto in sostanza sinonimo di indovino; i testi antichi non autorizzano questa lettura, poiché in molti casi (ricordiamo Novellino, 19; l’anonimo trecentesco traduttore del Milione di Marco Polo; lo stesso Boccaccio in diversi luoghi del Decameron, di cui parlerò in esteso più avanti) il negromante è colui che usa una qualche sua sapienza per modificare il mondo esterno: far scoppiare tuoni e fulmini, apprestare cose impossibili come i giardini d’inverno, trasportare di qua e di là la gente per aria.

Giovanni Villani usa la parola in termini più ambigui. In genere le assegna una valenza negativa (Merlino è detto “profeta” e compie, come da tradizione, “molte meraviglie” con la sua “negromanzia”; “dissesi” che nacque “d’una vergine con concetto ovvero operazione di demonio”; “negromante” e allievo di negromanti è Maometto, che fondò poi la “falsa legge e bestiale de’ saracini”- cfr. Nuova cronica, 3.4 e 3.8), in cui è contenuto un richiamo a una qualche conoscenza, ottenuta in modi diversi, e la capacità di operare prodigi. In altri passi però lo storico fiorentino propende per il senso di “indovino”: in 7.80 a un certo cardinale Bianco vengono attribuiti poteri di negromante, cioè di indovino; in 8.95 si parla di “astrolagi e negromanti” con evidente valore di dittologia; in 10.59 si riferisce che “Papa Chimento” interpellò un negromante come indovino, per sapere se un suo nipote fosse finito all’inferno; in 11.41 astrologo e negromante viene definito Cecco d’Ascoli, anche lui in fondo qualificato come indovino.

In Boccaccio troviamo ancora il termine nel Corbaccio, testo che troppo spesso è stato interpretato come “ravvedimento” religioso del nostro autore e invece è semplicemente una realizzazione del genere tutto medievale dell’invettiva contro le donne, che aveva una ricca tradizione, a partire dallo Chastiemusart francese, per seguire negli arcaici Proverbia supra natura feminarum lombardo-veneti che ne derivano, alle Quinze Joies de mariage, al Reggimento e costumi di donna di Francesco da Barberino, per non parlare di ferventi spiriti religiosi come Pier Damiani, che prendevano questi scherzi sul serio. Il termine appare nella forma plurale femminile nigromanti:

Ed è, questo esecrabil sesso femineo, oltre ad ogni altra comparazione, sospettoso e iracundo. Niuna cosa si potrà con vicino, con parente o con amico trattare, che, se ad esse [alle donne] non è palese, che esse subitamente non suspichino contro a loro adoperarsi e in loro detrimento trattarsi benché di ciò gli uomini non si debbian molto maravigliare, per ciò che naturale cosa è di quelle cose che altri sempre opera in altrui, di quelle da altrui sempre temere; e per questo sogliono i ladroni ben sapere riporre le cose loro. Tutti i pensieri delle femmine, tutto lo studio, tutte l’opere a niuna altra cosa tirano, se non a rubare, a signoreggiare e ad ingannare gli uomini; perché leggiermente credono sopra loro d’ogni cosa che non sanno, simili trattati tenersi. Da questo gli astrologhi, le nigromanti, le femmine maliose, le ‘ndovine sono da loro visitate, chiamate, avute care, e in tutte le loro opportunità, di niente servendo se non di favole, di quello de’ mariti cattivelli sono abbondevolmente sovvenute e sostentate, anzi arricchite; e se da queste pienamente saper non possono la loro intenzione, ferocissime e con parole altiere e velenose, s’ingegnano di certificarsi da’ loro mariti; a’ quali, quantunque il ver dicano, radissime volte credono.” (Corbaccio, p.239-40)

Il senso in cui Boccaccio usa qui “negromante” è simile a quello di Giovanni Villani quando parla di Maometto: uso di conoscenze chissà come avute per ottenere risultati disonesti. Nel medesimo senso, si parla di negromanti in un paio di poesie di Franco Sacchetti (215 e 296).

“Negromante” è voce greca e dotta, ma non si può dire che abbia avuto una genesi umanistica (c’è già nel Novellino); l’equivoco sul significato corrente forse deriva dalla nozione di mantis, che è appunto l’indovino; essendo il nekros il morto si intende che negromante è colui che per indovinare interroga i morti. In questo senso la voce è presente in Cicerone. L’uso successivo è stato però più vario (troviamo che nel Quattrocento la impiegano a piene mani, fa gli altri, Pulci e Boiardo), ed equivale al senso moderno di “mago”.

A proposito di questo vocabolo e dei suoi derivati, nel ’200 e nel ’300 si nota che si trovano pochissimo. In moltissimi casi si tratta dei “Magi” del racconto evangelico; in ogni caso i magi (non sembra attestato il plurale “maghi”) sono legati a qualche esperienza religiosa (Petrarca attribuisce conoscenze magiche a Zoroastro nel Trionfo della Fama, 2, 26), con corretta attenzione filologica, giacché i magi anche nell’uso latino erano più o meno dei sacerdoti persiani; dalla lingua persiana era giunta anche la parola, attraverso la mediazione greca. In ogni caso ai magi è associata la capacità di usare la loro scienza per compiere prodigi; solo Giovanni Villani propende per una “magia” (questa forma peraltro non si trova) che consiste nella conoscenza del futuro (in 1.22.2 troviamo delle arti magiche o divinatorie che anticipano il futuro ad Enea).

Nel verso del sonetto citato “mago, negromante ed indovino” vanno probabilmente intesi attribuendo al “mago” la scienza della natura, al negromante la tecnica che permette la sua trasformazione, all’indovino una conoscenza di ciò che non è presente, una specie insomma di capacità profetica.  

 

1.2 Negromanti e maghi nel Decameron

Negromanti e maghi hanno interessato molto Boccaccio; certo di essi si sarà detto e raccontato, nelle piazze, nei fondachi, nelle taverne di Napoli. Lo scrittore si ricorderà di queste storie, quando vent’anni dopo scriverà il Centonovelle.

Di negromanti in senso stretto la grande raccolta parla in quattro novelle:

VIII,7 («Lo scolare e la vedova»), VIII, 9 («Maestro Simone medico»), X, 5 («Madonna Dianora»), X,9 («Messer Tonello e il Saracino»); un ulteriore riferimento in X, 6 in realtà va riportato ancora a X,5.  

 

1.2.1 Lo scolare e la vedova

Per quanto riguarda VIII,7 ci si può sbrigare molto rapidamente: la storia, la più lunga della raccolta, riguarda la presa in giro di uno «scolare» da parte di una giovane e bella vedova e la successiva vendetta di lui, regolata secondo le leggi del contrappasso: dal momento che egli è stato in fin di vita perché l’ha inutilmente attesa una notte nella neve, la donna verrà abbandonata al sole, nuda su di una torre, per un’intera torrida giornata estiva, tanto da esserne portata giù quasi morente. Il giovane, qui il nostro riferimento, la convince ad andare sulla torre fatale per eseguire certe cerimonie magiche che egli appreso a Parigi, dove ha studiato fra l’altro «negromanzia».  

 

1.2.2 Maestro Simone medico

Più interessante la storia di maestro Simone, burlato atrocemente da Bruno e Buffalmacco, per un momento in ferie dalle loro tradizionali burle a Calandrino. Motore della burla è l’invito, piuttosto ammiccante e tortuoso che diretto, rivolto dai due compari al medico, di «andare in corso», di partecipare cioè a certi festini notturni in cui vengono diabolicamente evocate grandi ghiottonerie e donne famose per la loro nobiltà e bellezza. Si tratta, è ovvio, di una panzana, ma Simone ci crede; finirà, meritandosi per soprappiù la nomea di pauroso, in uno scarico di fogna, dove rovinerà il vestito della festa, senza contare i rim­proveri della moglie. Boccaccio qui deride apertamente le pretese di maghi e negromanti, alle quali invece crede il povero, imbranato Simone: in questo atteggiamento scettico sta uno dei motivi di interesse del passo: si vedrà che essa riguarda però solo alcuni aspetti della magia. L’altro elemento rilevante sta nell’evocazione di un personaggio, Michele Scotto, che avrebbe introdotto a Firenze la pratica dell’«andare in corso». Era, questo “mago” (in realtà filosofo, commentatore e traduttore di Aristotele - dall’arabo - e di Avicenna), citato da anche da Dante, attivo alla corte di Federico Il, secondo la tradizione popolare mago anche lui, naturalmente influenzato dagli arabi. Di Michele parlano gli antichi commentatori.

«Fu di Scozia grande maestro d’arte magica, e insegnonne tanto agli Scotti, che anche non fanno passo che arte magica non seguiscano» (nel testo di un anonimo edito da Francesco Selmi)

«Si ragiona ch’essendo in Bologna, e usando con gentili uomini e cavalieri, e mangiando come s’usa tra essi in brigata a casa l’uno dell’altro, venia la volta a lui d’apparecchiare, mai non faceva fare alcuna cosa di cucina in casa, ma aveva spiriti a suo comandamento, che li facea levare lo lesso dalla cucina del re di Francia, lo rosto da quella del re d’Inghilterra, le trasmesse in quella del re di Cicilia, lo pane d’un luogo, e ’1 vino d’un altro, confetti e frutta là onde li piacea, e queste vivande dava alla alla sua brigata, poi dopo pasto li contava: del lesso lo re di Francia fu nostro oste, del rosto quel d’Inghilterrla, ecc.» (Lana)

«Fue questo Michele della provincia di Scozia, et dicesi che, essendo adunata molta gente a desinare, che essendo richiesto Michele che mostrasse alcuna cosa mirabile, fece apparire sopra le tavole, essendo di gennaio, viti piene di pampani e con molte uve mature, et dicendo loro che ciascheduno ne prendesse un grappolo, ma ch’eglino non tagliassono, s’egli nol dicesse, et dicendo: ta­gliate, sparvono l’uve, e ciascheduno si trovò col coltellino e col suo manico in mano. Predisse Michele molte cose delle città d’Italia, cominciando da Roma, et molte cose avvennono di quelle ch’egli predisse.» (Anonimo Fiorentino)

«Michael Scottus miscuit necromantiam astrologiae» (Benvenuto da Imola)

Fra i moderni ne parla Walter Scott (The Last Minstrel, canto XI): «In these far climes in was my lo. / To meet the wondrous Michael Scott; / A wizard of such dreaded fame / That when, in Salamanca ’s cave - / Him listed hi magic wand to wave, / - The bells would ring in Notre Dame!»

Tutte queste testimonianze mostrano il sapiente operare nelle due direzioni tradizionali del mago e del negromante: sa predire il futuro, ma anche apparecchiare la tavola usando arti magiche. Quest’uso «tecnico» della negromanzia tornerà in X,5.  

 

1.2.3 Madonna Dianora

Non sapremo mai se la delicata storia di Madonna Dianora, di cui sono state mostrate con certezza le lontane origini orientali, e che in Occidente era stata narrata prima che da Giovanni solo da Jean de Condé (Le chevalier à la mance) sia passata per Napoli. Il nostro autore la racconta verso la fine del libro, quando, rivolto al passato, vuol lodare le gran virtù degli antichi di contro al malcostume dei moderni, che, per amore della ricchezza, hanno perso le buone maniere.

Decameron, X,5  

Madonna Dianora domanda a messer Ansaldo un giardino di gennaio bello come di maggio; messer Ansaldo con l’obligarsi a uno nigromante gliele dà; il marito le concede che ella faccia il piacere di messer Ansaldo, il quale, udita la liberalità del marito, l’assolve della promessa, e il nigromante, senza volere alcuna cosa del suo, assolve messere Ansaldo.

Per ciascuno della lieta brigata era già stato messer Gentile con somme lode tolto infino al cielo, quando il re impose a Emilia che seguisse; la qual baldanzosamente, quasi di dire disiderosa, così cominciò:

- Morbide donne, niun con ragion dirà messer Gentile non aver magnificamente operato, ma il voler dire che più non si possa, il più potersi non fia forse malagevole a mostrarsi: il che io avviso in una mia novelletta di raccontarvi.

In Frioli, paese quantunque freddo lieto di belle montagne, di più fiumi e di chiare fontane, è una terra chiamata Udine, nella quale fu già una bella e nobile donna, chiamata madonna Dianora e moglie d’un gran ricco uomo nominato Gilberto, assai piacevole e di buona aria. E meritò questa donna per lo suo valore d’essere amata sommamente da un nobile e gran barone, il quale avea nome messere Ansaldo Gradense, uomo d’alto affare e per arme e per cortesia conosciuto per tutto. Il quale, ferventemente amandola e ogni cosa faccendo che per lui si poteva per essere amato da lei e a ciò spesso per sue ambasciate sollicitandola, invano si faticava. E essendo alla donna gravi le sollicitazioni del cavaliere, e veggendo che, per negare ella ogni cosa da lui domandatole, esso per ciò d’amarla né di sollicitarla si rimaneva, con una nuova e al suo giudicio impossibil domanda si pensò di volerlosi torre da dosso.

E a una femina che a lei da parte di lui spesse volte veniva, disse indi così: «Buona femina, tu m’hai molte volte affermato che messere Ansaldo sopra tutte le cose m’ama e maravigliosi doni m’hai da sua parte proferti li quali voglio che si rimangano a lui, per ciò che per quegli mai a amar lui né a compiacergli mi recherei. E se io potessi esser certa che egli tanto m’amasse quanto tu di’, senza fallo io mi recherei a amar lui e a far quello che egli volesse; e per ciò, dove di ciò mi volesse far fede con quello che io domanderò, io sa­rei a’ suoi comandamenti presta».

Disse la buona femina: «Che è quello, madonna, che voi disiderate ch’el faccia?»

Rispose la donna: «Quello che io disidero è questo: io voglio, del mese di gennaio che viene, appresso di questa terra un giardino pieno di verdi erbe, di fiori e di fronzuti albori, non altrimenti fatto che se di maggio fosse; il quale dove egli non facci, né te né altri mi mandi mai più, per ciò che, se più mi stimolasse, come io infino a qui del tutto al mio marito e a’ miei parenti tenuto ho nascoso, così, dolendomene loro, di levarlomi da dosso m’ingegnerei».

Il cavaliere, udita la domanda e la proferta della sua donna, quantunque grave cosa e quasi impossibile a dover fare gli paresse e conoscesse per niun’altra cosa ciò essere dalla donna addomandato se non per torlo dalla sua speranza, pur seco propose di voler tentare quantunque fare se ne potesse e in più parti per lo mondo mandò cercando se in ciò alcun si trovasse che aiuto o consiglio gli desse; e vennegli uno alle mani il quale, dove ben salariato fosse, per arte nigromantica profereva di farlo. Col quale messer Ansaldo per grandissima quantità di moneta convenutosi, lieto aspettò il tempo postogli il qual venuto, essendo i freddi grandissimi e ogni cosa piena di neve e di ghiaccio, il valente uomo in un bellissimo prato vicino alla città con sue arti fece si, la notte alla quale il calen di gennaio seguitava, che la mattina apparve, secondo che color che ’l vedevan testimoniavano, un de’ più be’ giardini che mai per alcun fosse stato veduto, con erbe e con alberi e con frutti d’ogni maniera. Il quale come messere Ansaldo lietissimo ebbe veduto, fatto cogliere de’ più be’ frutti e de’ più be’ fior che v’erano, quegli cccultamente fè presentare alla sua donna e lei invitare a vedere il giardino da lei adomandato, acciò che per quel potesse lui amarla conoscere e ricordarsi della promission fattagli e con saramento fermata, e come leal donna poi procurar d’attenergliele.

La donna, veduti i fiori e’ frutti e già da molti del maraviglioso giardino avendo udito dire, s’incominciò a pentere della sua promessa, ma con tutto il pentimento, si come vaga di veder cose nuove, con molte altre donne della città andò il giardino a vedere; e non senza maraviglia commendatolo assai, più che altra femina dolente a casa se ne tornò a quel pensando a che per quello era obligata. E fu il dolore tale, che, nol potendol ben dentro nascondere, convenne che di fuori apparendo il marito di lei se n’accorgesse; e volle del tutto da lei di quello saper la cagione. La donna per vergogna il tacque molto: ultimamente, constretta, ordinatamente gli aperse ogni cosa.

Gilberto primieramente ciò udendo si turbò forte: poi, considerata la pura intenzion della donna, con miglior consiglio cacciata via l’ira, disse: «Dianora, egli non è atto di savia né d’onesta donna d’ascoltare alcuna ambasciata delle così fatte, né di pattovire sotto alcuna condizione con alcuno la sua castità. Le parole per gli orecchi dal cuore ricevute hanno maggior forza che molti non stimano, e quasi ogni cosa diviene agli amanti possibile. Male adunque facesti prima a ascoltare e poscia a pattovire; ma per ciò che io conosco la purità dello animo tuo, per solverti da’ legame della promessa, quello ti concederò che forse alcuno altro non farebbe, inducendomi ancora la paura del nigromante, al qual forse messer Ansaldo, se tu il beffassi, far ci farebbe dolenti. Voglio io che tu a lui vada e, se per modo alcun puoi, t’ingegni di far che, servata la tua onestà, tu sii da questa promessa disciolta: dove altramente non si potesse, per questa volta il corpo ma non l’animo gli concedi».

La donna, udendo il marito, piagneva e negava sé cotal grazia voler da lui. A Gilberto, quantunque la donna il negasse molto, piacque che così fosse: per che, venuta la seguente mattina, in su l’aurora, senza troppo ornarsi, con due suoi famigliari innanzi e con una cameriera appresso n’andò la donna a casa messere Ansaldo.

Il quale udendo la sua donna a lui esser venuta si maravigliò forte; e levatosi e fatto il nigromante chiamare gli disse: «Io voglio che tu vegghi quanto di bene la tua arte m’ha fatto acquistare»; e incontro andatile, senza alcun disordinato appetito seguire, con reverenza onestamente la ricevette, e in una bella camera a un gran fuoco n’entrar tutti; e fatto lei porre a seder disse: «Madonna, io vi priego, se il lungo amore il quale io v’ho portato merita alcun guiderdone, che non vi sia noia d’aprirmi la vera cagione che qui a così fatta ora v’ha fatta venire e con cotal compagnia».

La donna vergognosa e quasi con le lagrime sopra gli occhi rispose: «Messere, né amor che io vi porti né promessa fede mi menan qui ma il comandamento del mio marito, il quale, avuto più rispetto alle fatiche del vostro disordinato amore che al suo e mio onore, mi ci ha fatta venire; e per comandamento di lui disposta sono per questa volta a ogni vostro piacere».

Messere Ansaldo, se prima si maravigliava, udendo la donna molto più s’incominciò a maravigliare: e dalla liberalità di Giliberto commosso il suo fervore in compassione cominciò a cambiare e disse: «Madonna, unque a Dio non piaccia, poscia che così è come voi dite, che in sia guastatore dello onore di chi ha compassione al mio amore; e per ciò l’esser qui sarà, quanto vi piacerà, non altramenti che se mia sorella foste, e quando a grado vi sarà liberamente vi potrete partire, sì veramente che voi al vostro marito di tanta cortesia, quanta la sua è stata, quelle grazie renderete che convenevoli crederete, me sempre per lo tempo avvenire avendo per fratello e per servidore».

La donna, queste parole udendo, più lieta che mai disse: «Niuna cosa mi poté mai far credere, avendo riguardo a’ vostri costumi, che altro mi dovesse seguir della mia venuta che quello che io veggio che voi ne fate; di che io vi sarò sempre obligata». E preso commiato, onorevolmente accompagnata si tornò a Gilberto e racontogli ciò che avvenuto era; di che strettissima e leale amistà lui e messer Ansaldo congiunse.

Il nigromante, al quale messer Ansaldo di dare il promesso premio s’apparecchiava, veduta la liberalità di Giliberto verso messer Ansaldo e quella di messer Ansaldo verso la donna, disse: «Già Dio non voglia, poi che io ho veduto Giliberto liberale del suo onore e voi del vostro amore, che io similmente non sia liberale del mio guiderdone; e per ciò, conoscendo quello a voi star bene, intendo che vostro sia».

Il cavaliere si vergognò e ingegnossi di fargli o tutto o parte prendere; ma poi che invano si faticava, avendo il nigromante dopo il terzo dì tolto via il suo giardino e piacendogli di partirsi, il comandò a Dio: e spento del cuore il concupiscibile amore, verso la donna acceso di onesta carità si rimase.

Che direm qui, amorevoli donne? preporremo la quasi morta donna e il già rattiepidito amore per la spossata speranza a questa liberalità di messer Ansaldo, più ferventemente che mai amando ancora e qua­si di più speranza acceso e nelle sue mani tenente la preda tanto seguita? Sciocca cosa mi parrebbe a dover credere che quella liberalità a questa comparar si potesse. -

 

La novella viene tradizionalmente proposta come modello di liberalità: generoso è Gilberto che permette alla moglie di tradirlo per non renderla spergiura, generoso Ansaldo che rinuncia all’amore cui aveva pure diritto, generoso il ne­gromante, disposto a perdere il suo compenso. Dianora non fa gran bella figura: contraddice alle leggi della fin’amor, visto che rifiuta l’amore di Ansaldo, e per di più cerca di prenderlo in giro con prove (c’è tutta una tradizione cor­tese di prove d’amore) palesemente impossibili. Vi è, meno studiato, un altro tema, quello del giardino d’inverno, che meriterebbe di essere preso in esame, connesso com’è col motivo del tempo, delle stagioni, dell’eternità.  

 

1.3 Il negromante nel Filocolo

La storia di Dianora doveva esser cara a Giovanni, poiché l’aveva già narrata, attribuendola a personaggi dai nomi diversi e ambientata altrove, con peripezie che portano anche in Tessaglia, luogo canonico delle arti magiche; fu nel suo lungo romanzo giovanile Filocolo, in cui si narrano le vicende di Florio e Biancifiore. Nello stesso libro c’è uno dei pochi (tre: uno già citato nelle Rime e uno in Decameron, X,9, di cui dirò oltre) riferimenti alla magia (3.39).

Questa redazione (4.31), per molti aspetti meno soddisfacente dei quella del Centonovelle (prolissa, meno vivace, piuttosto retorica che mimetica come invece è, soprattutto nei discorsi diretti, la narrazione del Decameron) presenta tuttavia un elemento di interesse. Mentre nella storia di Dianora l’edificazione del giardino è semplicemente accennata, qui la «tecnica» del mago (mai peraltro definito tale) viene rappresentata nei dettagli:

 

Come Tebano (il mago) ebbe il comandamento, egli aspettò la notte, e, venuta, vide i corni della luna tornati in compiuta ritondità, e videla sopra l’usate terre tutta risplendere. Allora egli usci della città, lasciati i vestimenti, scalzo, e con i capelli sparti sopra li nudi omeri, tutto solo. I vaghi gradi della notte passavano, gli uccelli, le fiere e gli uomini riposavano sanza niuno mormorio, e sopra i monti le non cadute frondi stavano sanza alcuno movimento, e l’umido aere in pace si riposava: solamente le stelle luceano, quando egli, più volte circuita la terra, pervenne al luogo, il quale gli piacque d’eleggere per lo giardino, allato ad un fiume. Quivi stese ver­so le stelle le braccia, tre volte divoltandosi ad esse, e tante i bianchi capelli nella corrente acqua bagnò, domandando altrettante volte con altissima voce il loro aiuto; poi poste le ginocchia sopra la dura terra, cominciò così a dire: ‘O notte, fidatissima segreta dell’alte cose, e voi, o stelle, le quali, al risplendente giorno con la luna insieme succedete, e tu, o somma Ecate, la quale aiutatrice vieni alle cose incominciate da noi, e tu, o santa Cerere, rinnovatrice dell’ampia faccia della terra, e voi qualunque versi, o arti, o erbe, e tu, qualunque terra producente virtuose piante, e voi, aure, e venti, e monti, e fiumi, e laghi, e ciascuno iddio de’ boschi o della segreta notte, per li cui aiuti io già rivolsi i correnti fiumi faccendogli tornare nelle loro fonti, e già feci le correnti cose stare ferme, e le ferme divenire correnti, e che già deste a’ miei versi potenza di cacciare i mari e di cercare sanza dubbio i loro fondi, e di rischiarare il nuvoloso tempo, e il chiaro cielo riempiere a mia posta d’oscuri nuvoli, faccendo i venti cessare e venire come mi pareva, e con quelli rompendo le dure mascelle degli spaventevoli dragoni, faccendo ancora muovere le stanti selve e tremare gli eccelsi monti, e ne’ morti corpi tornare da’ paduli di Stige le loro ombre e vivi uscire de’ sepolcri, e tal volta tirare te, o luna, alla tua ritondità, alla quale per adietro i sonanti bacini ti soleano aiutare venire, faccendo ancora tal volta la chiara faccia del sole impalidire: siate presenti, e ’l vostro aiuto mi porgete. Io ho al presente mestiere di sughi e d’erbe, per li quali l’arida terra, prima d’autunno, ora da fredissimo verno, de’ suoi fiori, frutti e erbe spogliata, faccia in parte ritornare fiorita, mostrando, avanti il dovuto termine, primavera’. Questo detto, molte altre cose tacitamente aggiunse a’ suoi prieghi. Poi tacendo, le stelle non dieron luce invano, ma più veloce che volo d’alcuno uccello un carro da due dragoni tirato gli venne avanti, sopra il quale egli montò, e, recatesi le redine de’ posti freni a’ due dragoni in mano, suso in aria si tirò. E pigliando per l’alte regioni il cammino, lasciò Spagna e cercò l’isola di Creti: di quindi Pelion, e Ocris e Ossa, e ’l  monte Nero, Pacchino, Peloro e Appenino in breve corso cercò tutti, di tutti svellendo e segando con aguta falce quelle radici e erbe che a lui piacevano, né dimenticò quelle che divelte avea quando da Tarolfo fu trovato in Tesa­glia. Egli prese pietre d’in sul monte Caocaso, e dell’arene di Gange e di Libia recò lingue di velenosi serpenti. Egli vide le bagnate rive del Rodano, di Senna, d’Amprisi e di Ninfeo, e del gran Po, e dello imperial Tevero, e d’Arno, e di Tanai, e del Danubio, di sopra da quelle ancora prendendo quelle erbe che a lui pareano necessarie, e queste aggiunse all’altre colte nelle sommità de’ salvatichi monti. Egli cercò l’isola di Lesbos e quella de’ Colchi e Delfos e Patmos, e qualunque altra nella quale sentito avesse cosa utile al suo intendimento. Con le quali cose, non essendo ancora passato il terzo giorno, venne in quel luogo onde partito s’era: e i dragoni, che solamente l’odore delle prese erbe aveano sentito, gittando lo scoglio vecchio per molti anni, erano rinnovellati e giovani ritornati. Quivi smontato, d’erbosa terra due altari compose, dalla destra mano quello d’Ecate, dalla sinistra quello della rinovellante dea. I quali fatti, e sopr’essi accesi divoti fuochi, co’ crin sparti sopra le vecchie spalle, con inquieto mormorio cominciò a circuire quelli: e in raccolto sangue più volte intinse le ardenti legne. Poi riponendole sopra gli altari e tal volta con esse inaffiando quel terreno il quale egli avea al giardino disposto, dopo questo, quello medesimo tre volte di fuoco e d’acqua e di zolfo riannaffiò. Poi, posto un grandissimo vaso sopra l’ardenti fiamme, pieno di sangue, di latte e d’acqua, quello fece per lungo spazio bollire, aggiungendovi l’erbe e le radici colte negli strani luoghi, mettendovi ancora con esse diversi semi e fiori di non conosciute erbe, e aggiunsevi pietre cercate nello estremo oriente, e brina raccolta le passate notti, insieme con carni e ali d’infamate streghe, e de’ testicoli del lupo l’ultima parte, con isquama di cinifo e con pelle del chelidro, e ultimamente un fegato con tutto il polmone d’un vecchissimo cervio: e, con queste, mille al­tre cose. o sanza nomi o sì strane che la memoria noi mi ridice. Poi prese un ramo d’un secco ulivo e con esso tutte queste cose cominciò a mescolare insieme. La qual cosa faccendo, il secco ramo comin­ciò a divenire verde e in breve a mettere le frondi, e, non dopo molto, rivestito di quelle, si poté vedere carico di nere ulive. Come Tebano vide questo, egli prese i boglienti liquori, e sopra lo eletto terreno, nel quale di tanti legni avea fatti bastoni quanti alberi e di quante maniere voleva, e quivi quelli, liquori incominciò a span­dere e ad inaffiare per tutto: la qual cosa la terra non senti prima, ch’ella cominciò tutta a fiorire, producendo nuove e belle erbette, e i secchi legni verdi piantoni e fruttiferi divennero tutti. La qual cosa fatta, Tebano rientrò nella terra tornando a Tarolfo, il quale quasi pauroso de’ essere stato da lui beffato per la lunga dimoranza dimorava, e trovollo tutto pensoso. A cui egli disse: ‘Tarolfo, fatto è quello che hai dimandato, e è al piacere tuo’.

Qui appaiono evidenti alcuni elementi tratti da una lunga tradizione: il mago viene di Tessaglia, terra si credeva fertile di operatori dell’occulto; è anche medico e chiama la sua capacità “scienza”, le cose in altre parole che egli sa; egli non viene mai definito come mago o negromante. L’opera del mago presenta una commistione evidente di pratiche “razionali” con altre del tutto sopranna­turali, legate al culto classico di Ecate (Artemide) e di Cerere, tradizionali divinità della magia. In latino Ecate è Diana, palesemente legata con Dianora della novella.

La differenza principale fra la redazione del Filocolo e quella del Decameron sta nell’estrema macchinosità del procedimento magico messo in atto dal negro­mante nel testo anteriore. Boccaccio deve aver considerato che davvero, anche per un miracolo, era troppo complicata tutta la messinscena di lune, cavalli alati, corse notturne per due continenti senza contare i mari; un negromante doveva avere dei segreti più semplici, che possono permettere una soluzione più rapida del problema.

La redazione del Filocolo appartiene a una tradizione lontana, che si può rin­tracciare fin dall’antichità classica, e Giovanni la svolge come una specie di compito di scuola. Ma l’avrà trovata di sicuro irrealistica; senza contare che, per essere segreta, l’operazione magica non può per principio essere divulgata. Per questo sceglie nella redazione più tarda di non rappresentarla, proprio come non rappresenta, lo vedremo fra un attimo, l’apparecchio del viaggio magico di ser Torello. Vi è in questo passaggio la convinzione, maturata dal novellista maturo, che le operazioni della magia, presentate in gioventù in modo apertamente incredibile e grottesco, sono ora considerate possibili, oggetto di specializzazione tecnica, dunque non si possono più irridere.  

 

1.4 Ser Torello

L’ultima novella del Decameron in cui si fa parola di un negromante è la penultima di tutta la raccolta (X,9). Vi si narra di un ser Torello pavese, al quale capita di ricevere sfarzosamente un mercante sconosciuto, che se ne va rin­graziando. Poco dopo Torello parte per la crociata, dicendo alla moglie che, se non avrà sue notizie per un anno un mese un giorno, potrà risposarsi. Dopo una pestilenza che distrugge gran parte dell’armata cristiana, i superstiti, tra cui Torello, vengono condotti ad Alessandria. Il nostro eroe si mette in luce come ammaestratore di falconi, tanto che viene assunto dal Saladino in persona, di cui diventa intrinseco. Era, il sovrano, proprio quell’incognito mercante che tanto signorilmente era stato ricevuto a Pavia: così può ricambiare l’ospitalità. Il tempo passa; sta per spirare l’anno il mese e il giorno, e Torello viene a sapere che la moglie si sta risposando. Ne cade malato. Il Saladino, quando se ne rende conto, organizza con l’aiuto di un negromante un viaggio notturno; Torello è riportato a Pavia proprio la mattina delle nozze, che vengono impedite. Festa e felicità.

Neppure questo viaggio viene descritto; esso viene presentato, come è tipico del Decameron quando tratta vicende «magiche», come assolutamente possibile e reale, naturale persino. Ciò contrasta ancora una volta con quanto Boccaccio appare aver voluto dire in precedenza. Nell’Elegia di madonna Fiammetta, all’ultimo paragrafo del VI capitolo, troviamo infatti un accenno alla magia, e in modo particolare a quella che serve a portare la gente di qui e di là, ritenuta fallace e illusoria.

Comunque sia, in X,9  Boccaccio non fornisce particolari su come si svolga il viaggio nottur­no: perché sia preservata la sua salute, ma forse anche perché i procedimenti restino segreti, Torello viene addormentato e si risveglia solo dopo l’arrivo a Pavia.

Pochi anni dopo all’epoca in cui il nostro scrive questa novella, Franco Sacchetti, nelle Sposizioni di vangeli, redatte a quanto pare tra il 1378 e il 1381 (Boccaccio era appena morto, nel 1375) parla di un negromante, “Pietro Baialardo”, che non è difficile identificare col filosofo Pietro Abelardo, a cui sono state variamente attribuite capacità alchimistiche e magiche; costui sarebbe riuscito, con buona prestazione ipersonica, a venire da Babilonia a Roma nel giro di un’ora. Sacchetti non nega la performance, ma ritiene che si tratti di opera diabolica, tornando alle perplessità che aveva già mostrato Giovanni Villani.

(Sarebbe qui interessante trattare questo tema: perché si attribuiscono poteri straordinari agli avversari? che sanno organizzarsi, ordire complotti, mettersi in combutta con potenze malvage, mentre noi poveri cristi indifesi... Dipenderà, forse, dalla nostra voglia di cercare giustificazioni.)

 

Se nella novella dello scolare e della vedova la negromanzia appare come pura presa in giro, strumento in mano ai furbi per prendere in giro gli incolti e i creduloni e dunque in fondo non ha storia, già nella vicenda di maestro Simone il discorso cambia: certamente, Bruno e Buffalmacco la usano come strumento della burla contro lo sciocco e presuntuoso medico, tuttavia, per così dire, a prescindere dalla possibilità che eventi magici possano effettivamente verificarsi. Il riferimento a Michele Scoto, di cui dovremo ancora occuparci, a un personaggio storico ritenuto, a torto o a ragione, protagonista di imprese come preparare un pranzo senza intervento manuale, mostra che suggestioni del genere non erano estranee a Boccaccio.

Le altre due novelle ci portano dentro a un contesto in cui le prese di distanza sono ancora inferiori, in cui l’autore si mostra sostanzialmente neutro e possibilista: può darsi che qualcuno sappia fare giardini d’inverno, può darsi che ci sia modo di arrivare in una notte da Alessandria d’Egitto a Pavia. Ora, per quanto si tratti di operazioni avvolte nell’oscurità (ambedue i portenti avvengono di notte), per quanto i procedimenti debbano restare nascosti (se davvero qualcuno sa come si faccia ne manterrà il segreto: che la conoscenza non debba essere divulgata è un tratto tipico dell’epoca), appartengono al novero della razionalità mondana. Davvero, la coltivazione delle piante, o mezzi di trasporto quali la barca a vela non esistono in natura.

Tecnologie più moderne hanno permesso di ottenere risultati analoghi a quelli dei negromanti del Decameron: le coltivazioni in serra danno frutti costanti in tutte le stagioni, un aereo permette il viaggio Egitto-Lombardia in qualche ora. Il passo avanti radicale che troviamo in Boccaccio (almeno nel Decameron) (e che manca ad esempio nel più tardo Sacchetti) è l’assenza di ogni riferimento a potenze diaboliche. I negromanti sembrano fare il loro “lavoro” solo con la conoscenza che hanno della natura. Troveremo, un secolo o poco più dopo, lo stesso atteggiamento in Leonardo da Vinci.

Poiché la nostra indagine si era avviata come analisi lessicale relativa a “negromante” e derivati in Boccaccio, se ne può concludere che essi danno luogo a un’area semantica notevolmente unitaria, legata all’altro termine “mago” da molti aspetti di sinonimia, che il nucleo forte di quest’area è legato a un particolare tipo di conoscenza. Infatti, se la conoscenza è un valore in sé, essa può avere anche delle applicazioni pratiche, che permettono di modificare le cose del mondo, oppure di prevedere il futuro. Il negromante è dunque una specie di tecnico che piega la sua scienza a usi pratici. In Boccaccio non è molto presente un’idea diffusa invece in altri autori (Villani, Sacchetti), per i quali queste conoscenze sono facilmente suscettibili di un uso malvagio.

 

Boccaccio è interessante, come universalmente si riconosce, perché si situa sul crinale fra medioevo e modernità, illuminando convergenza e differenze fra le due. Si dovrà, per vedere quanto, intorno al tema della magia, è in lui medievale, quanto moderno, quanto medievale e moderno. Ciò ci dovrà condurre attraverso una lunga strada: la prima tappa sarà l’antichità classica.