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Pleniluni e quarti di luna
Parafrasi
sull’opera di Valerio Vivian
(pubblicato in Valerio
Vivian. Occhi svelati. Oderzo, Pinacoteca Alberto Martini, 1998)
Non era stagione da viverla, quella; o forse lo sarebbe stata, se fosse apparso puro il cobalto del cielo, se l’acqua del fiume, libera dalla schiuma chimica, avesse potuto rifletterlo, se i passeri si fossero tramutati in pappagalli. La fabbrica, erta sul fiume, nei tramonti nebbiosi d’ottobre era una presenza arcana, un castello dove entrare era avventura perigliosa, da cui trapelavano clangori come di azze e cimieri, lamenti di cavalieri, e alle cinque un olifante dalla voce imperiosa e stridula chiamava chi a raccolta chi ad abbandonare il campo. Le ciminiere come torri campanarie; immaginavamo Merlino o Morgana nascosti alla base, a regolare il fumo in segnali, ammonizioni per un futuro arduo e incredibile, incombente e denso di speranze. Un dubbio ci assaliva: che serviva a Merlino o a Morgana un castello e un osservatorio e una torre fumosa e una bandiera e un camminamento e una sentinella occhiuta? che bisogno c’era, lassù, di un occhio vigile?
Da cent’anni l’opificio attestava la modernità del luogo, con la sega acuminata dei suoi tetti, i punti esclamativi impennacchiati di vapore grigiastro, vetrate e vetrate protese su un paesaggio ancora agreste, cieche per via di una crudele lastra smerigliata; di fronte allo stabilimento l’osteria che aveva conosciuto tempi migliori, popolata di barcaioli antichi e camionisti, operai e fedeli appena usciti dalla chiesa vicina. Sul bancone, dietro un vetro che proteggeva dalla rapacità delle mani unte, ma non da quella più sottile dei mosconi (eleganti nel corsetto lucente d’oro verde), sul bancone occhi infiniti e spenti, gialli e bianchi, opachi, guardavano clienti e curiosi: mezze uova che attendevano il pepe e il sale, l’olio, l’aceto se piace, e, irrinunciabile sotto mezzogiorno, il quartino di merlot o tocai.
Oltre l’osteria, la villa vetusta si rispecchiava sulla corrente algosa, placida come sempre: ma il fantasma a tratti scompariva sotto la densa schiuma di sapone che contaminava la purezza classica con la tecnica moderna. Statue, portali, scalee, marzocchi, finestre polifore, su su fino alle guglie soprastanti il tetto; poco sotto il cornicione insigne per altezza e decorazione, le aperture ovali della soffitta erano occhi che spiavano la vita scorrere con l’acqua, verso Venezia, destino magico e dorato. Agli sguardi della villa (l’impressione era rafforzata dalla curiosa struttura della facciata: antropomorfa, come di viso che sorride enigmatico) corrispondevano bolle sul pelo dell’acqua che, prima di esplodere, somigliavano gonfie iridi bovine, globi oculari come malati di congiuntivite. Quanti secoli erano passati da quando un geometra incantatore aveva tracciato su prati e terrazzi i suoi cerchi agarici?
La storia comincia trenta quarant’anni fa in questo luogo denso di sguardi incrociati. All’inizio apparve qualcosa, che non potremmo propriamente definire se non per metafora, poiché è una vita e una scelta d’arte. Diremo che è un periscopio: che, ognun lo sa, vuol dire guardarsi dintorno. Poco per volta, questo periscopio si sollevò: se si è circondati (di fabbriche o di ville, di colline o siepi, di case, di donne, uomini, emozioni e pregiudizi) il dintorno finisce subito, ma se il punto di vista si alza oltre ciò che lo limita, oltre i pregiudizi e le emozioni, oltre le passioni, oltre gli uomini e le donne, oltre le case, le siepi, le colline, le ville e le fabbriche, lo sguardo arriva più lontano. Bastano due specchi, un tubo e l’ottica elementare dei riflessi per gettare uno sguardo disteso sul mondo. Sono necessari, ma bastano. E portano oltre Venezia, oltre le Alpi, oltre il mare, in Inghilterra, in America persino.
Di lontano, non si sentono le parole. Gli odori non arrivano, si confondono con la puzza del vino all’osteria, con l’aroma del tè che Giovanna infonde con tanta cura, col profumo che usa per sedurre se stessa e il mondo. Spiarla! quando, abbandonata e dolce, gode la calma di un bagno, il morso soffice dell’asciugamano, oppure se, decisa a trionfare e stregare, rende sublime e fredda come pietra di luna la carne del suo corpo, non importa se di fronte allo specchio o sul palcoscenico della vita o dell’arte. Di lontano, continui a sentire solo il gusto della tua lingua, e non puoi toccare quei capelli, quel gatto, quell’orchidea, quella cintura che l’ordigno ottico isola dal vasto dintorno. Resti teso nello spasimo di comprendere ciò che a stento riesci a vedere, di lontano. E l’emozione ancora ti tradisce: dovresti farti gelido, assente dal mondo per essere presente a te stesso (o forse assente a te stesso e presente al mondo, chissà); ti basta ahimé una bocca, un viso, uno sguardo e lontano non c’è più nulla, precipiti ancora nella buca che impedisce di guardare intorno. Appendi come obiettivi di telecamere tante iridi e pupille, specchi su cui il mondo si riflette, si rifrange, si complica, si allontana mentre cerchi di afferrarlo. Sequenza di istantanee che millantano il puro, fervido, inarrestabile fluire. Il vivo fluire.
(Come si fa a prendere l’uccello del paradiso? semplice: devi mettergli tre, mi raccomando, grani d’incenso euottico sulla coda. Dove si trova l’incenso euottico? ovvio, nella coda dell’uccello del paradiso. Tre grani ogni coda.)
Così il lontano si allontana, il tempo passa, scivola, ridotto a briciole, nella tenebra di ciò che fu e ora più non è. Come salvarlo?
Devi tornare a casa per poter partire di nuovo. Affondare nei meandri familiari, nei vecchi cassettoni, nelle scatole legate da nastri ormai quasi insolvibili, nelle soffitte di polvere e ragnatele, nelle cantine umide, oscure e maleolenti. Affiora il passato, in questi ricettacoli che non avevi potuto guardare con il periscopio; la storia è roba per medici, sonde gastriche, endoscopi inseriti in cateteri che arrivano al cuore.
Nella calamitata e infame tela barocca il centro era occupato da due occhi dentro un bacile (teatro anatomico? sala di tortura? cancelleria di pretura?). Sui bordi e il fondo di esso, dal liquido traslucido e biancastro (linfa? latte? sperma?) un riflesso d’ocra suggeriva la ricchezza dell’oro più che la professionalità dell’ottone. Questa sorta di profonda patena non era retta, come ci si sarebbe potuto attendere, vuoi da un inserviente con le braccia villose e il naso carminato fuori da un grembiule di cuoio, vuoi da un famiglio ignudo alla cintola e incappucciato d’orbace, vuoi da un’infermiera asettica nel camice niveo e stirato, sotto al quale a malapena avresti potuto immaginare biancheria sottile di Fiandra, no: reggeva il vassoio una giovane ammantata di bigello, come fosse un tegame con due uova, e invece erano occhi, sguardi sottratti alle legittime orbite; e levava verso il cielo un naso di proporzioni canoniche, una bocca socchiusa il cui pallore appena corallino era indizio certo di estasi: non lo sguardo, però, dacché gli incavi oculari erano vuoti. Intorno, figure che somigliavano al garzone del beccaio, allo sgherro dell’inquisitore, e, barbuto e calvo, un giudice forse; dietro, con l’alabarda e la spada e l’elmetto file di soldati.
I due occhi nuotavano in silenzio dentro la loro piccola piscina metallica, fissavano questa donna che fino a poco prima osservava con essi il mondo, mentre ora, col vuoto di due cavità sanguinolenti, sembra contemplare, lassù, oltre, chissà quali passioni, ferite maestose dell’anima.
Ma gli occhi? separati dall’essere che mediava con essi il dentro e il fuori, che faranno mai, che vedranno, gli occhi? ora che non hanno più un’anima da rispecchiare, nessuna interiorità da tradire? nessun amore umano da comunicare? Che faranno, soli al mondo? lontani dalla sede loro consueta e rassicurante, lontani da casa?
Fra le infinite avventure occorse agli esploratori una, ricorrente, merita qui di essere ricordata. Capitò a più d’uno di essere preso a male parole o peggio da qualche selvaggio, a cui aveva scattato una foto. Perché quest’immagine, corrispondente com’era al suo modello vivente, legata ad esso da innumerevoli fili visivi, gli sottraeva, dicevano, un po’ di vita, un lembo d’anima. In fondo, è la stessa inquietudine che ti assale se devi farti ritrarre per la patente o il passaporto o peggio per pratiche di polizia (fronte e profilo, al collo un numeraccio, mento appena alzato, luce frontale dall’alto, occhi rigorosamente sbarrati: anche san Francesco ci farebbe la figura del pluriomicida, la santa accecata del quadro sarebbe comparsa nei verbali quale avvelenatrice efferata e seriale, o baldracca da trivio). C’è, nei selvaggi iconofobici, il presentimento che il ritratto segnaletico ha lo scopo di impadronirsi dell’anima dell’indagato, per trasformarlo in reo: ti teniamo, abbiamo qualcosa di te che non potrai mai riprendere, starà qui con noi, rasségnati a separarti da questo brandello di spirito; perché in fondo tu l’hai venduta al male, l’anima tua, e noi speriamo, avendone ripescato questo scampolo, di estrarla pian piano tutta e riscattarla al bene. No, non obiettare che è l’anima tua, quella. Cosa credi? tu come tutti vivi nello sguardo altrui; sii grato: ti si è detto, capisci, che un pezzo di te sarà visto come colui che è stato incamminato sulla strada del bene. Non sarà un velo di calza, un filtro colorato a nasconderti al mondo, e allora guardati anche tu, suvvia, riconosciti per quello che sei, così ti vedono gli altri, non illuderti!
Riconoscersi nel cristallo o nell’acqua calma dello stagno è, sembra, un passo importante verso l’età adulta. Nello specchio, la prima cosa che vediamo sono due occhi che guardano: immagine estranea che ci appartiene e insieme ci fissa, che si muove col nostro sguardo stesso, tant’è che non riusciamo a vederle, quelle iridi, quando le palpebre si chiudono. E se, questi riflessi, li stacco dal vetro, li eternizzo? li moltiplico, intorno, a perdita d’occhio, quasi? se mi faccio guardare da essi? Se non aspetto il poliziotto o l’ufficiale d’anagrafe, se il ritratto me lo procuro da solo? se mi chiudo dentro un cerchio magico, invalicabile, eternizzante?
Quando l’uguale si mostra all’uguale, non c’è ordine; nessuno dei due rinuncia a essere se stesso e dunque a cercare di sopraffare l’altro, possa essere pure il riflesso di se stesso. Quella di Narciso è appunto una favola: non ci si innamora della propria immagine. Il gatto, il cane che si trovino oltre lo specchio a vedere un altro da sé, uguale a sé, drizzano il pelo, ringhiano, non risparmiano unghiate inani: ahimé, contro un simulacro fantasmatico la guerra è inutile. Ogni guerra a ben vedere è inutile, proprio perché combatte contro un nemico speculare a chi la muove. Corri, scaglia il giavellotto, alza la spada, riparati con lo scudo, buttati a terra, cuor mio armato fino ai denti! ergiti nobile e sublime finché sei solo, non ancora provato! Verrà il tempo della sconfitta o della vittoria, che ne è solo un nome diverso: quella è la verità.
Mi piace pensare a questa storia seduto sul ramo di un vecchio salice proteso sullo stagno, mentre mollo a perpendicolo una pietruzza nell’acqua. Ecco, il primo cerchio somiglia già a un occhio, e si dilata, si dilata a dismisura, a coprire il mondo intero, sguardo che si confonde con tutto il guardabile, e insieme si spegne e muore, e io abbandono alla gravità un altro sasso e via ancora. Sono molti ora i gruppi di cerchi, si muovono, mi guardano. Se smetto e la superficie liquida si placa, gli occhi si precisano, sono i miei. Ma non posso fare a meno di lasciar cadere un sasso ancora, né di chiuderli, infine, per un attimo, gli occhi di carne, e riandare chissà perché all’immagine di una fabbrica che forse era un castello, di una barca che forse era nave corsara, di un cavallo che forse aveva sbalzato il suo campione.