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Pleniluni e quarti di luna

 

 

UN INCROCIO NEGLI ANNI 60

Gorgona e l’estetica informazionale

(pubblicato in Biennale in Riviera, Mira, a.i.a.p. Riviera del Brenta, 1997)

Non c’è dubbio che gli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento abbiano costituito una fase importante della riflessione estetica, riferita in modo particolare alle problematiche del fare artistico. Gorgona, movimento volutamente “internazionale” e attento alle implicazioni teoriche del proprio essere progetto artistico (non manca nel suo seno la figura professionale dell’estetico, che funge da tecnico della riflessione teorica) si intreccia in modo indissolubile con molti di questi fili, e sarebbe complesso ricostruire tutte queste relazioni.

Un aggancio mi sembra però particolarmente pertinente e, perché no?, di “attualità”, potendo fornire ancora indicazioni valide, non completamente sviluppate né tanto meno esaurite.

Gli studi dell’estetica cosiddetta “informazionale” o “tecnologica” (qui mi riferisco a Max Bense e Abraham Moles) hanno messo a tema il rapporto ineliminabile e diretto che lega l’arte e il discorso sull’arte alla comunicazione e all’informazione, partendo dalla considerazione che l’opera d’arte è, innanzi tutto, un’azione comunicativa che porta in sé una certa quantità di informazione.

Un blocco importante di queste riflessioni è riferito al concetto, mutuato dalla termodinamica, di entropia (questione approfondita soprattutto da Bense, che parte dalle affermazioni di Birchoff, secondo cui la misura di un evento estetico consiste nel rapporto che si realizza in essa fra ordine e complessità, e dalla teoria dell’informazione elaborata da Shannon, in cui il concetto di entropia è applicato alla validità comunicazionale del messaggio). Come è noto, l’entropia misura la “quantità di ordine” di un sistema termodinamico chiuso; ne consegue che tanto maggiore è l’entropia, tanto più prevedibile è la situazione del sistema e dei suoi elementi in un certo momento. L’uso informazionale di questo concetto consiste nell’affermare che tanto maggiore è la prevedibilità di un oggetto informativo, vale a dire tanto maggiore è la sua entropia, tanto minore informazione esso trasmette; tale informazione può essere misurata (in bit, ossia in scelte fra possibilità binarie: tale strumento di misurazione era stato elaborato da Shannon).

Ne derivano alcune conseguenze:

- si ha maggiore informazione quanto più vi è disordine e imprevedibilità;

- l’oggetto estetico ha tanto maggior valore quanto più è portatore di informazione, ossia quanto è più portatore di neg-entropia;

- poiché l’ordine del mondo è assimilabile a ciò che tradizionalmente si dice destino (in termodinamica si afferma che l’entropia dell’universo cresce in modo irreversibile), la creazione, manifestazione libera della volontà dell’artista, è un’azione deliberata contro il destino del mondo. A differenza dei processi termodinamici, che inevitabilmente sottraggono energia al sistema e ne aumentano l’entropia, nei processi artistici aumenta l’energia del sistema e ne diminuisce l’entropia;

- arte e tecnica sono nettamente distinte: puntando la prima all’innovazione, alla creazione, la seconda alla ripetizione; esse però non sono estranee, perché la tecnica può cercare l’originalità (innovazione) e produrre oggetti “fragili”, destinati a vivere rapidamente la loro esperienza nel tempo (di questa natura sono strumenti la cui azione è in qualche misura “decisione” e intervento nel fluire degli eventi: interruttori, filtri, relé, computer...); la tecnica ha in questo bisogno dell’arte;

- l’estetica non può mai darsi a priori, né è assolutizzabile; essa è in continuo movimento: infatti essa è scienza dell’oggetto estetico, non ha essere proprio. Poiché l’oggetto estetico ha per sua natura il movimento (altrimenti diverrebbe prevedibile e perderebbe ben più che il valore, la sua stessa natura di oggetto estetico), si può parlare di “estetica aperta”, infinito procedimento teorico parallelo allo svolgersi del fare artistico.

Fin qui Bense, che delinea la sua definizione dell’arte su un piano oggettivo, “scientifico”, o comunque attento alla natura “sociale” di essa. Moles affronta la questione del fare artistico più dal punto di vista del creatore. Innanzi tutto, non si può pensare, e qui l’accordo con Bense è ovvio e totale, che l’arte sia imitazione: nemmeno di modelli augusti come la Venere di Milo; in questo caso, anzi, in cui modelli accettati dànno luogo a imitazioni prevedibili, nell’illusione di creare la bellezza, si ha il fenomeno del Kitsch: che consiste nel deprivare l’oggetto di ogni significatività, riducendo l’arte a tecnica artistica, o accademica. L’opera va cercata più in un modo diverso di comportarsi nei riguardi delle cose, in un pensiero artistico: l’opera si confonde con il processo della creazione.

Qui troviamo piena sintonia con Gorgona: il processo della creazione, nel caso di quel gruppo, in certi casi non ha dato luogo a nulla, nel classico senso dell’opera prodotto di una tecnica artistica; siamo nel regno dell’happening, in cui il soggetto artistico si situa dentro un flusso di informazioni e messaggi, ai quali dona nuova energia scompigliandoli e disordinandoli.

Il valore centrale di questa estetica è il movimento: non esiste più finalismo, il fare tipico dell’arte di tendenza), per il quale occorre che si identifichi a priori un obiettivo interno o esterno al mondo dell’arte: a questa ipotesi si obietta che una ricerca contenente in sé il proprio risultato è contraddittoria; non esiste la volontà vitalistica di affermare il soggetto, c’è solo un mondo di cui l’azione artistica intensifica la capacità di autogenerazione.

Ne viene sconvolta la visione tradizionale dell’artista; costui diventa in realtà un manipolatore delle possibilità combinatorie, per esempio delle variazioni possibili su uno schema originale di base, da percorrere senza alcun ordine prestabilito.

Ciò comporta una separazione sempre più netta fra la fruizione di massa, che si accontenta dell’inautenticità estetica del Kitsch, e la creazione artistica, che si avvita per così dire su stessa, alla ricerca di quella spontaneità combinatoria che fu il gioco dell’arte ai suoi esordi.

Resta, anche in Moles, il conflitto-legame ineliminabile fra arte e tecnica: sono infatti le due facce del quadro di riferimento più tipico agli uomini: il fare, dentro al quale si iscrivono tutte le situazioni della vita. E anche questo fare, con tutte le sue possibilità combinatorie, mi pare appartenga al sentire di Gorgona.

Osservavo che c’è in queste vicende artistiche e teoriche un senso di contemporaneità, un germe di sviluppo non ancora concluso. Per la verità, credo si tratti di un processo dai tempi ancora più lunghi.

Sul finire del Settecento, cioè ai tempi in cui l’estetica nasceva come scienza filosofica, si riaccese una polemica, che datava da tempi assai più lontani ma che era stata per secoli e secoli sopita: la polemica sul bello e sul sublime. Per i sostenitori del primo, scopo dell’arte era creare la perfezione, l’oggetto in cui la forma si assolutizzasse in una permanenza assoluta, negando quindi il movimento insieme a ogni relazione dell’opera con altri esseri del mondo.

Per i sostenitori del sublime, al contrario, l’opera deve avere lo scopo di muovere il fruitore, eccitando in lui delle reazioni a qualche titolo, in genere tese a promuoverne dei comportamenti di un tipo piuttosto che di un altro.

La posizione di Moles e di Bense si inserisce perfettamente in questa vecchia discussione: per costoro il Bello come fine è da rifiutare, perché nel momento in cui nego in esso il movimento, in altre parole nel momento in cui ne realizzo e reduplico la struttura, esso diventa immediatamente inautentico: per il motivo che il Bello (ma qui non si può più usare questa parola: converrà parlare di valore estetico piuttosto che di bellezza) è tale in un momento del flusso, è soggetto al tempo, e non può essere fermato. (A ben vedere, queste tesi non sono cosi lontane da quelle romantiche, che a suo tempo difesero con forza i diritti del Sublime: si confronti, ad es., quanto afferma F. Schlegel). Per giustificare un Sublime parrebbe che sia necessario un fine esterno al fare artistico: credo che nei nostri autori si possa individuare tale fine nel movimento stesso, nell’inclusione di nuova energia nell’universo (nell’universo culturale) per ridurne l’entropia, sintomo dell’inevitabile fine.

Le polemiche di trenta o quarant’anni fa non solo sono ancora attuali, sono in qualche misura profetiche: molto del panorama culturale attuale, anche quello che si pretende “altro” e “alto” è in realtà Kitsch; l’uomo dovrebbe difendere se stesso, la sua cultura, dall’entropia che, almeno apparentemente, aumenta a dismisura.

 

Bibliografia

Max Bense, Aesthetica, Baden-Baden, 1965 (tr.it. Estetica, Milano, 1974).

Abraham Moles, Art et ordinateur, s.l. 1971

Abraham Moles, Le Kitsch. L’art de bonheur,Paris, 1971 (trad. it. Il Kitsch. L’arte della felicità,Roma, 1979).

Abraham Moles, Théorie de l’in formation et perception esthétique, Parigi 1972 (1a ediz. 1958).