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Pleniluni e quarti di luna
Frich-Froch imboscà o l’educazione dei veneti
(da Rive, n. 2, ottobre
2002)
Nella società moderna esistono apparati, spesso di grande dimensione e pervasività, attraverso i quali si formano le giovani generazioni: le scuole, innanzitutto. Sono così importanti che intorno ad essi si combattono aspre battaglie politiche, però, se li osserviamo più da vicino, scopriamo che non hanno il monopolio dell’educazione, anzi.
È un luogo comune che la formazione delle idee correnti, nella società moderna, avvenga attraverso i mezzi di comunicazione di massa. Opinioni, modi di dire e di essere, valori per mezzo dei quali si misura ogni cosa, su su sino ai sistemi di sentimenti e passioni, sino a quei complessi culturali che un tempo si dicevano ideologie, vengono in effetti insegnati, inculcati, imposti dalla televisione, dai giornali, dalla moda e dalla pubblicità. Questa affermazione vale per il nostro contesto sociale, per altri, ma non per tutti; i processi di cui stiamo parlando sono infatti soggetti a variabilità sia nel tempo che nello spazio.
Per porci in una prospettiva storica, siamo dunque costretti a chiederci: un tempo, quali erano i modi con cui si diffondeva un certo modo di pensare? c’erano delle agenzie (persone o istituzioni) delegate a crearlo e metterlo in circolazione? ammesso che ci fossero, su quali strutture sociali e quali strumenti potevano contare? Una risposta a queste domande deve essere assai articolata: per tentare di individuarla, dovremmo innanzitutto stabilire quanto le idee correnti fossero imposte, con la forza materiale o con quella morale della religione; come operassero gli istituti delegati “ufficialmente” alla formazione, dalla scuola alla Chiesa all’esercito; quanto peso avesse la tradizione e come operasse nel tessuto sociale; come certi modi di atteggiarsi fossero ben più che suggeriti dal contesto economico in cui gli uomini del tempo si trovavano a vivere. Non è qui la sede per avviare un programma di ricerca in tal senso, per quanto possa essere affascinante: è però possibile, situandoci da un punto di vista assai particolare, vedere in concreto come poteva essere veicolata un’ideologia, quali fossero i soggetti che se ne occupavano e in quali contesti ciò accadesse.
Per cominciare a porre qualche punto dal quale avviare il nostro lavoro, una strada può essere l’individuazione di qualche oggetto esemplare di una funzione sociale formativa: un testo, un’usanza, una credenza. Ciò avrebbe il vantaggio metodologico di porci da subito a confronto con qualcosa di concreto, cominciando col delineare una risposta alla prima delle nostre domande, e di basare su questa concretezza le nostre ulteriori osservazioni. Come individuare questi oggetti, ai quali attribuire provvisoriamente un valore esemplare? Non mi pare ci possa essere altra strada che ricercare nella memoria privata, familiare, o di “piccola cerchia” qualcosa il cui peso sia stato rilevante, che abbia dato per esempio luogo a qualcosa di simile a proverbi oppure a personaggi diventati luogo comune come fossero maschere, e così via. Poiché ci interessa qui soprattutto il modo con cui veniva veicolato un mondo di valori, in una prima fase potrà apparire abbastanza trascurabile l’oggetto che se ne fa trasmettitore: la procedura corretta consisterà nell’individuazione del suo modo peculiare di funzionare e della sua rappresentatività eventuale rispetto alla tipologia cui appartiene, per poi considerare se esso è congruente con quello di altri oggetti e classi tipologiche.
Ci occuperemo di un libro, poco conosciuto alla critica “ufficiale”, dato il suo valore letterario non certo elevato, che ha però avuto un ruolo importante nella formazione ideologica[1] dei veneti, dall’epoca della prima guerra mondiale fino a ben oltre la fine della seconda. Si tratta di Frich-Froch imboscà, una specie di grottesco romanzo d’appendice scritto in un idioma dialettale genericamente veneto da un sacerdote, Giuseppe Flucco, che fu arciprete a Thiene a cavallo fra il secolo XIX e il XX, lasciandovi alcune tracce nella vita ecclesiastica (nel 1888 fece eseguire una pisside preziosa e, più tardi, iniziò i lavori per aggiungere due navate laterali al duomo della cittadina, che furono inaugurate nel 1914 e nel 1915); si dilettò anche di letteratura vernacola, il che diede come risultato novelle (Teste da pipa - Fregole - Novelle dialettali. Esumazioni storiche di profilature caratteristiche; Passemo tragheto!. Racconto tenero - delicato - sentimentale - fluido - poetico - storico – psicologico); teatro; e soprattutto la saga di Frich-Froch, che comprende Le avventure de Anzoleto Spasimi e Frich-Froch e il testo a cui ho già fatto riferimento.
La “storia” raccontata in quest’ultimo è semplice: Anzoleto Spasimi e Frich-Froch, già emigranti in America, tornano in Italia per arruolarsi volontari durante la prima guerra mondiale. Frich-Froch è un personaggio alquanto improbabile, mezzo italiano mezzo bulgaro, che non sembra esserci troppo con la testa; Anzoleto è più tosto: appare raramente, nel libro, e ogni volta ha percorso qualche grado di carriera nell’esercito, fino a diventare maggiore ed essere ucciso in combattimento. Frich-Froch, invece, aspirante eroe, trova il modo di imboscarsi come attendente di un ufficiale medico. Attraversa una serie di disavventure, spesso dovute alla sua tendenza ad alzare il gomito oppure ad avere troppa attenzione per il gentil sesso. Gira un po’ tutto il Veneto, riecheggiando le vicende del conflitto. Arriva anche a Thiene, dove per un periodo viene alloggiato col suo capitano proprio nella canonica di don Flucco, che si fa così personaggio del suo stesso romanzo; del resto, Frich-Froch è ben conosciuto per le sue precedenti avventure narrate dal nostro prete: questo lo porta a darsi un sacco di arie spassose per chi lo ascolta. Il racconto si conclude con la morte di Frich-Froch, proprio appena finita la guerra: senza una precisa necessità narrativa, forse perché era ora di smetterla.
Il libro di Flucco, edito dalla Tipografia e Libreria Antoniana di Padova, deve aver conosciuto numerose ristampe: ne ho sottomano una che non ha indicazione di data, ma a memoria mi sembra del tutto congruente con quella che apparteneva a mio nonno[2] (un “ragazzo del ‘97” vissuto fra Cazzago e Mira che la prima guerra mondiale l’aveva combattuta, a differenza di Frich-Froch, in prima linea), che era stata letta chissà quante volte, spesso ad alta voce nelle riunioni familiari serali, tanto da risultarne completamente sfasciata – un mazzo di fogli che toccava riordinare pazientemente – e che, bambino in visita da nonni e zii, era stata una delle mie prime letture.
Quando si parla di lettura, dobbiamo fare attenzione: le modalità con cui si fruiva un libro o di un giornale sono profondamente variabili nel tempo. Per noi (per la mia generazione e quella successiva, intendo: la seconda metà del XX secolo) la lettura è un’attività individuale. Prendo il volume che ho scelto, mi metto in un angolo riparato, isolato, e stabilisco, con l’autore un dialogo, per così dire, personale[3]. Non è sempre stato così: abbiamo notizie, anche recenti, di una lettura intesa come attività sociale. Le testimonianze sulla fruizione di libri che ho potuto raccogliere nella mia famiglia sono corrispondenti ad altre esperienze: in molte case, abitate da esponenti della classe sociale che Manzoni avrebbe definito “popolo”, formata da contadini evoluti, artigiani, commercianti, e certi operai che si distinguevano dagli altri per avere una loro coscienza culturale, c’erano libri. Non molti, ma in genere significativi per la formazione. Tali libri venivano letti in modo pubblico e partecipato: la sera, in genere, o la domenica, ad alta voce. Spesso diventavano oggetto di commento. Alcuni erano classici della letteratura popolare: il Guerin meschino, ad esempio, o i Reali di Francia[4]. Altri avevano soggetto religioso; altri ancora, ed è il caso del lavoro di Flucco, erano scritti apposta, spesso da sacerdoti, che ne facevano un surrogato, quanto più efficace, della predica.
Ciò non stupisce: nel mondo cattolico c’è una grande tradizione pedagogica, che suggerisce di educare attraverso il divertimento: al bambino malato, cui si devono dare medicine amare, si unge di zucchero l’orlo del bicchiere; al popolo, incapace di sapere cosa sia il proprio bene, si devono dare storie che, per così dire, contrabbandino i valori che invece ne faranno la salvezza[5]. Ciò spiega perché spesso i preti-scrittori preferissero temi di natura francamente comica; anche di natura comica era la gran parte delle rappresentazioni che avvenivano nei teatri parrocchiali, la cui lunga fortuna meriterebbe uno studio approfondito. Per questa via ci imbattiamo, infatti, in uno dei riferimenti culturali di don Flucco: la commedia dell’Arte, saccheggiata in effetti dalla tradizione teatrale ospitata nelle canoniche. Di qui l’autore trae una giustificazione per l’uso del dialetto[6], che viene peraltro mantenuto a livelli di facile leggibilità, in considerazione del pubblico a cui l’opera è diretta. È probabile che il nostro scrittore conoscesse la letteratura popolare dei secoli precedenti soprattutto attraverso il famoso libro di Giulio Cesare Croce, Bertoldo e Bertoldino[7]; egli stesso, oltre a imitarne molti artifici narrativi, lo cita esplicitamente[8]. In questo libro ancora leggibile, che deriva in gran parte da testi e tradizioni precedenti, si racconta di un villico, che si ritrova alla corte del re longobardo Alboino, qui diventato mitico e del tutto privo di spessore storico; il protagonista, appunto Bertoldo, nome passato in proverbio per significarne limiti e virtù, è una specie di idiot savant, uno sciocco che spesso le azzecca più dei dottoroni: scarpe grosse e cervello fino[9]! Frich-Froch vorrebbe essere qualcosa di simile, e a tratti ci riesce; però in lui prevale l’aspetto grottesco e la scempiaggine, per cui se ne ride e non si impara niente, almeno in modo diretto: l’unico modo di leggerlo è considerare il suo comportamento per evitarne i tratti sciocchi e incivili.
Il procedimento dominante nelle storie di Bertoldo è il dialogo, e ciò si capisce dal momento che Croce si ispira alla Commedia dell’Arte, ai suoi tempi nel massimo del fulgore. Flucco lo imita, distribuendo le battute fra i suoi personaggi con la vecchia logica della spalla e del comico, in una struttura che potrebbe sembrare da clownerie ma profuma con generosità di scherzo da sacrestia. Sono giochi banali che funzionano sempre, al punto che si ritrovano uguali in molti “moderni” varietà televisivi; di essi troviamo documentazioni anche antiche, magari ignote allo stesso nostro autore. Negli stessi anni in cui egli scriveva, un narratore ceco, di grande levatura costui, Jaroslav Hašek, lavorava a una sorta di epopea ambientata nella guerra mondiale. Non concluse la sua opera, poiché la morte lo colse in ancor giovane età, ma ebbe il tempo di scrivere quattro delle sette parti previste. Il buon soldato Švejk, questo il titolo corrente della traduzione italiana[10], presenta curiose affinità con il libro di Flucco: innanzitutto la volontà di scrivere un libro a tesi, quindi i procedimenti usati, fra cui il continuo confronto comico fra diversi idiomi; un protagonista in bilico fra saggezza e idiozia, destinato in ambedue i casi a fare l’attendente di un ufficiale; infine, alcuni espedienti come quello di allontanare più che avvicinare i protagonisti ai luoghi delle operazioni e la ripetizione delle situazioni comiche fino a farne un vero e proprio tormentone (l’ubriachezza sia per Švejk che per Frich-Froch). Con questo confronto si potrebbe continuare: dovremmo dunque concluderne che la letteratura ispirata alla guerra produca tal sorta di scritture?
Sarei dell’opinione che la forma impiegata da questi due autori derivi dalla loro volontà di presentare, sotto mentite spoglie, una tesi, dal momento che essi intendono svolgere un compito educativo o, come ho detto all’inizio, formativo. Che risponde a princìpi diversi: mentre Hašek si propone di denunciare l’inutilità della guerra e l’impossibilità di sopravvivere per l’impero austro ungarico, babelico dedalo di popoli e di lingue, che si serve di un esercito dove trovano ricettacolo le peggiori passioni umane, Flucco non scorda di essere un prete cattolico, anzi, come si descrive egli stesso, “un ottimo Sacerdote, longo, seco, coi ociai: anima candida; cuor grando; bravissimo geologo, paleòlogo, archeòlogo…”: ironicamente, dacché sono gli stessi studi che si attribuisce Frich-Froch quando vuol darsi delle arie. I valori che il suo libro propone sono anzitutto quelli della mediocritas: attenti a non esagerare perché è pericoloso, meglio tenersi tranquilli. Potremmo dire che i suggerimenti che dai personaggi del romanzo dovrebbero travasarsi sui lettori sono gli stessi che, più o meno sul serio, Manzoni impartisce a Renzo: non immischiarti in cose più grandi di te, perché c’è qualcuno che se ne potrà occupare meglio. Insomma, una morale di tipo paternalistico, in cui appare chiaramente una specie di gerarchia etica: i sacerdoti in testa, a seguire ufficiali e medici, infine qualche donna di particolare virtù. Attenti, però, perché le donne sono un pericolo, il più grave dei vizi, quello che può farti perdere tutto: un messaggio fortemente antifemminista, dal momento che l’unica autonomia che viene lasciata al femminile è quella, negativa, di sedurre per traviare.
L’ambiente che circonda Frich-Froch è presentato secondo una prospettiva del tutto terrena: ciò che colpisce il lettore di quest’opera è l’assoluta prevalenza dell’aspetto mondano e materiale della vita[11]. Il personaggio più “spirituale” è proprio Frich-Froch che, di tanto in tanto, ricorda con tenerezza la moglie morta, che una volta o l’altra si augura di raggiungere in paradiso; gli altri ridono di questa sua innocente fantasia, e intanto organizzano alla meno peggio la vita dell’aldiquà. Ambiguo, infine, risulta l’atteggiamento nei confronti della guerra: nel libro vi sono certo tracce del pacifismo della Chiesa, però molto annacquate. In realtà, prevale un altro sentimento, quello che porta a ridere dei parafernali degli apparati bellici, per esorcizzarli, in qualche modo; e circola abbondantemente l’idea che più lontani si sta dal fronte e meglio è. Mai e poi mai, però, Flucco mette in dubbio il principio di autorità, per cui, alla fine, la guerra tocca farla: e se tocca, tocca. Di fronte a questo, non c’è alcuna autonomia del singolo. Per coloro a cui va male, quelli che in guerra soffrono e muoiono, certo, c’è sempre una grande riserva di pietà; ma il buon cristiano non può pensare all’autocoscienza o alla ribellione.
In sostanza, l’uso del comico e del grottesco, che potrebbe essere potenzialmente eversivo, diventa invece supporto dell’autorità. Non si tratta certo di un modo di procedere nuovo o strano: fra gli altri, lo aveva già individuato un grande studioso russo, Michail Bachtin, in un libro che ha avuto un’immensa influenza negli studi antropologici e letterari fra gli anni Settanta e Ottanta del Novecento[12]. Per quanto riguarda il comico, egli delinea una dialettica, che lo pone come avversario istituzionale del potere, talmente forte da permeare di sé fin dall’antichità alcune pratiche sociali, come può essere ad esempio il carnevale. La cui natura è istruttiva: mentre dura, i rapporti sociali, le gerarchie, i privilegi, le regole, i tabù, sono come sospesi, se non rovesciati, ma non si tratta, come si potrebbe pensare, della messa in atto di un’eversione; al contrario, è uno spazio determinato, e ben delimitato, in cui l’affermazione della libertà finisce paradossalmente per rafforzare i dispositivi di sudditanza. D’altra parte, il popolo sembra gradire questo gioco, che ha il vantaggio di fornire dei meccanismi di socializzazione: esso infatti avviene sempre in piazza (in pubblico: ora si farebbe in televisione) e richiede la creazione di forme di identità collettiva, di identificazione, ecc. Dal realismo grottesco delle manifestazioni carnevalesche proviene il teatro comico, che abbiamo visto essere alla base delle storie di Frich-Froch. Quando studiamo i meccanismi che portano al riso, all’identificazione della comicità nei comportamenti, alla costruzione di situazioni comiche o grottesche, dovremmo sempre aver presente questa dialettica. È ben vero che il giullare è colui che, sbeffeggiando i potenti, dice la verità, però è altrettanto vero che ciò è concesso soltanto a lui. Proprio nel momento in cui denuncia la malafede, l’inumanità del potere, nell’attimo stesso in cui si legittima come portatore della verità, il giullare afferma implicitamente che questa conoscenza, questa possibilità di parlare spetta a lui soltanto. È una libertà e un privilegio; gli altri debbono, invece, sottostare al potere. La possibilità di dire la verità diventa per paradosso la più chiara dimostrazione della sua impraticabilità sociale. Il giullare che vede oltre viene immediatamente messo a tacere, può essere libero solo fino a quando la sua libertà entra in un dispositivo di dominio altrui.
In Frich Froch imboscà questi principi vengono applicati, direi piuttosto consapevolmente. Flucco adotta un dispositivo letterario sofisticato per raggiungere i suoi scopi di formazione ideologica: in prima istanza, crea un personaggio sul quale il suo pubblico si può proiettare, poiché Frich-Froch partecipa della vita popolare (è povero ed emigrante, tuttavia, almeno crede, ha avuto un certo successo), mette in campo alcuni comportamenti che molti invidiano (dice sempre quello che pensa, non ha in sostanza rispetto per nessuno, anche se affetta grande disponibilità nei confronti dei capi), è pieno di debolezze che sono ampiamente diffuse (il vino, le donne, la poca capacità di sopportazione ad esempio per i gatti). A questo punto, il protagonista assume una funzione comica, realizzata attraverso i mezzi piuttosto elementari che abbiamo visto: straniamento, ripetizione, effetti linguistici, inadeguatezza clownesca a raggiungere gli obiettivi proposti. È lo stesso meccanismo di Bertoldo e Švejk, fino a qui; però l’atteggiamento autoriale nei confronti del personaggio appare differente. Mentre Croce e Hašek tengono in bilico i loro personaggi fra la comicità e la saggezza più o meno involontaria, Flucco si dispone risolutamente a mostrare la dappocaggine del suo eroe: che è scemo, buono a nulla, utile solo a far ridere i signori. Viene così meno ogni dimensione critica del comico, che viene a sua volta ricondotto a puro sostegno delle idee correnti. Deve essere un’idea che alligna facilmente in terra veneta, dal momento che la assume come guida anche, fra gli altri, Carlo Goldoni.
All’inizio di queste note mi proponevo di indagare sulle agenzie che promuovevano la formazione ideologica nella terra veneta durante gran parte del secolo passato, identificandone qualcuna. L’analisi della concezione del mondo soggiacente alla storia di Frich-Froch ha mostrato come essa si proponesse di sostenere l’ordine sociale costituito. Dunque, l’autore è certo uno dei soggetti implicati. È un sacerdote, e la cosa può apparire curiosa e superflua, dal momento che la Chiesa aveva di certo un ruolo importante nell’educazione “ufficiale”: esso non era però sufficiente, e dunque certi operatori si incaricavano di mettere in atto strumenti meno formali e per questo più efficaci. Libri come quelli di Flucco sembrano fatti apposta per una lettura comunitaria, una spettacolarizzazione: credo fossero davvero concepiti per animare le sere d’inverno o i pomeriggi di festa avendone la ricaduta ideologica di cui si diceva. Alla terza domanda che ci eravamo posti, possiamo qui rispondere solo in termini molto generici: soltanto una società molto coesa, in cui funzionavano in modo per così dire “naturale” istituti quali la famiglia o i gruppi parrocchiali, poteva fornire il contesto per una piena utilizzazione di strumenti come la lettura collettiva. Nella società attuale si tratterebbe di un progetto impossibile, essendo la comunicazione dominata da mezzi insieme più profondi e meno condivisi, o meglio, in grado di legare insieme piuttosto persone distanti che vicine.
La lettura di Frich-Froch imboscà ci ha permesso di mettere in luce il funzionamento di alcuni strumenti di formazione ideologica in un tempo che, per quanto vicino sul piano cronologico, ci appare lontano su quello delle istituzioni sociali, e questo è stato un buon motivo per riprenderlo in mano. Ci si potrebbe però chiedere: vale la pena riscoprire e riproporre una lettura di questo genere? è un libro da consigliare perché il lettore ne tragga qualche ora di spensieratezza?
Può essere: certo ne godrà di più chi ha fatto in tempo a conoscere quel mondo che esso rappresenta e che è finito col miracolo economico, ma anche gli altri potranno goderne il profumo ormai esotico e i meccanismi comici che, per quanto banali, funzionano sempre. Diventerà, questo libro, un classico piccolo piccolo, e, dal suo paradiso, il bravo sacerdote di Thiene ne sorriderà felice.
[1] Con questa espressione intendo l’insieme dei valori che nutrono nel profondo il modo di essere al mondo di una persona; essi sono in generale piuttosto inconsci che consapevoli; hanno a che fare con un mondo etico (il dovere o il poter fare qualcosa), con un mondo estetico (questo è bello e vale, quest’altro è brutto e da disprezzare), con un mondo politico (a costui spetta dire e decidere sulle cose del mondo, a quell’altro tocca ascoltare e obbedire). Tali valori non vengono insegnati esplicitamente (potrebbero essere sottoposti a critica) ma suggeriti, attraverso strumenti variegati, diversi a seconda del tempo e del contesto sociale.
[2] La memoria può essere fallace: spesso si tratta di wishful thinking piuttosto che di un dato fondato sulla realtà; tuttavia, nel caso del mio libro, alcuni riscontri mi sembrano obiettivi: in primo luogo, il disegno del carattere in cui è stampato, certamente assai demodé: in secondo luogo, le illustrazioni, di scarsissima qualità grafica, che richiamano procedimenti tipografici d’antan. D’altro canto, proprio tali illustrazioni hanno lasciato in me qualche traccia profonda e riemergono a costituire motivo, mondo, senso: rivederle mi ha restituito, quasi come la madeleine di Proust, tutto un contesto temporale e materiale. Mi ritrovo presente la carta da beccaio con cui le macerie di quel povero libro erano tenute insieme, il filo di refe (fílo forsín, in veneto) che lo avvolgeva, le frange delle pagine diroccate dai tarli, la casa dei miei nonni che ora non riconoscerei più ma che potrei evocare in qualche frammentario dettaglio, le sedie impagliate piuttosto che il laboratorio di falegnameria del nonno. Ritengo che proprio questa capacità evocativa delle brutte figurine di Frich-Froch sia la garanzia del loro risalire a quel passato; in ogni caso, hanno cooperato alla mia capacità di identificare un mondo di valori che, se non ho approvato e fatto mio, mi ha comunque costretto a un confronto critico.
[3] Non tragga in inganno il fatto che troviamo già dall’antichità testimonianze di una lettura individuale (ad esempio, Agostino stupito dalla lettura silenziosa di Ambrogio o, più tardi, la celebre lettera in cui Machiavelli racconta al Vettori il suo colloquio solitario coi classici): si tratta di esperienze particolari, di intellettuali raffinati e d’avanguardia; le realtà corrente era diversa, ancora durante tutto il Medio Evo, pure in un ambiente colto come il monastero, la lettura è quella che si fa a turno, ad alta voce, durante i pasti.
[4] Ambedue queste storie sono state diffuse in Italia da Andrea da Barberino (nato all’incirca nel 1370, morto dopo il 1431), scrittore toscano che adattò al pubblico nostrano racconti di tradizione francese, soprattutto di argomento carolingio. Fu, a suo modo, scrittore di straordinario successo, continuamente riadattato e riscritto; venne usato proprio ai fini di formazione ideologia di cui ci stiamo occupando. Ciò appare evidente, ad esempio, nell’edizione Salani (Firenze) del 1906, nella quale un’introduzione “ai lettori” sostiene che lo “scopo unico dell’autore [è stato] attrarre ogni animo alla vita retta ed onesta per la via più piacevole”.
[5] Per la metafora del bambino malato, cfr. Torquato Tasso, Liberata, I,3. È appena il caso di ricordare qui come il programma tassiano si inscriva nella più generale temperie religiosa della controriforma e delle sue incarnazioni pedagogiche, rappresentate ad esempio da Ignacio de Loyola e dai suoi gesuiti, nonché da molti altri ordini religiosi.
[6] Sulla lingua di Flucco si potrebbero fare molte considerazioni; mi limiterò alle più ovvie. In primo luogo, l’uso del dialetto gli permette una vivacità e un aggancio al concreto e al parlato che difficilmente avrebbe potuto realizzare scrivendo in lingua; inoltre, e proprio su suggestione della tradizione dell’Arte, in cui le maschere ricavavano effetti comici dall’uso contrapposto dei diversi idiomi loro propri, viene usato molto spesso l’espediente di far parlare personaggi che non sanno il veneto, ottenendone dei risultati buffi. Infine, il dialetto di Flucco non è, come ci si potrebbe aspettare il vicentino se non proprio quello di Thiene: è invece un veneziano abbondantemente sciacquato in Arno (si veda l’uso delle doppie, che il veneto di solito non sente) e che si ispira largamente alla koinè goldoniana. Un uso insomma fortemente letterario, non spontaneo, tuttavia impiegato in modo corrivo per gettare un’esca al proprio pubblico: vedete, sembra dire Flucco, voglio mettermi al vostro livello, parlo persino la vostra lingua, io che pure saprei di latino!
[7] Se ne può vedere l’edizione (Milano 1965 e 1984) a cura di Giampaolo Dossena, di cui si potrà consultare anche la stimolante introduzione; utilissimi sono inoltre gli studi in proposito di Piero Camporesi.
[8]
«El fato che ve conto ze vero, autentico genuin, che no ghe ne zonto una...
gnente de mio; basta dire che dal prinsipio al fin la ze tuta nà fiaba, che
me contava me nona la sera per farme indormensare, e me nona gera na persona
studiata, parché la saeva a memoria gnente altro che Bertoldo, Bertoldin e
Cacasèno, e la saeva parfin parlare in bulgaro che ze tuta dire". G.
Flucco, in Le avventure de Anzoleto Spasimi e Frich-Froch,
introduzione.
[9] Bertoldo assumerà la funzione di giullare di corte, quello che permette a ricchi e nobili di divertirsi; Frich-Froch è il sollazzo di ufficiali e loro amici un po’ in tutto il libro che stiamo leggendo.
[10]
Jaroslav Hašek, Il buon soldato Sc’veik, traduzione di Renato
Poggioli e Bruno Meriggi, Milano, prima edizione 1961-63.
[11] Sembra paradossale che un’ideologia materialista, particolarista, lontana da ogni preoccupazione spirituale provenga da un sacerdote. Ben poco è, in Frich-Froch imboscà, lo spazio riservato alla religione e alla fede. Tanto più che si tratta di un libro prodotto in quel Veneto che è stato, per buona parte del secondo dopoguerra, bastione di una società che si voleva fino in fondo cristiana. Forse, il prezzo del dominio ideologico che la Chiesa ha esercitato così a lungo sulla terra veneta è stato proprio la sua pressoché totale secolarizzazione, l’abbandono di una prospettiva davvero religiosa, di cui ha mantenuto in molti casi unicamente il simulacro. Che si è rivelato, alla prova dei fatti, desolatamente vuoto.
[12] Michail Bachtin, L’opera di Rabelais e la cultura popolare. Riso, carnevale e festa nella tradizione medievale e rinascimentale. La traduzione italiana, pubblicata nel 1979 da Einaudi a Torino, è curata da Milli Romano. Al di là dell’indagine sui procedimenti di Rabelais e della stessa dimensione temporale dichiarata nel sottotitolo, il libro si propone di indagare proprio quei meccanismi del comico e del grottesco nei suoi usi sociali che sono alla base anche del lavoro di Flucco.