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Pleniluni e quarti di luna
Riflessi di storia mirese
da Mira – Guida per itinerari Venezia, Arsenale, 1985
Molti furono i
viaggiatori che, fin dai tempi lontani, scrissero di questo viaggio e dei molli
rollii propri all’andare per acqua. Per citarne uno: ecco Ogier d’Anglure.
Precursore dei moderni estensori di guide turistiche, egli si recò
nell’ultimo scorcio del Trecento in Terrasanta, a Gerusalemme, e fornisce a
chi intenda ripetere l’avventura tutte le più utili notizie in un’opera
famosa, Le saint voyage de
Jherusalem. Dopo una descrizione
delle ricchezze artistiche di Venezia da far invidia ai più moderni e
documentati baedeker, ricorda come gli capitasse, per assistere a un torneo –
con la stessa naturalezza con cui andremmo alla partita di calcio – di recarsi
«da Venezia a Padova per acqua», proseguendo poi sul litorale verso l’Istria
e Pola.
Logico che, col
passare dei secoli e l’aumentare dei traffici, si rendesse necessario qualcosa
di più che lo sporadico invio di barche lungo il Brenta. Si istituì, col
tempo, una linea vera e propria di trasporto pubblico: il Burchiello. Era,
nel periodo di massimo splendore, un’imbarcazione coperta, finemente
intagliata sui fianchi, che con cadenza quotidiana faceva la spola fra la regina
della laguna e la dotta Padova. Un’imbarcazione elegante, usata soprattutto da
villeggianti e da nobili, che si intrattenevano durante il viaggio, contemplando
la bellezza del paesaggio, in onesta (e meno onesta) conversazione con i
compagni e le compagne di percorso, e in soste alle locande, per attendere il
passaggio attraverso le chiuse o il cambio dei cavalli, che trainavano dalle
rive la barca come fosse una carrozza.
Più d’uno fra questi viaggiatori, illustri e non, immortalò il piacevole viaggio nelle proprie opere. Adriano Banchieri, per esempio, scrittore e musicista bolognese che aveva trovato lavoro come organista a Venezia, scrisse, all’inizio del Seicento, una curiosa operina per musica concepita come una sequenza di madrigali, spesso parodistici degli autori alla moda come Luca Marenzio o Carlo Gesualdo da Venosa: è La barca di Venetia per Padova; il Burchiello, appunto. In essa sono di scena i curiosi personaggi che si era soliti incontrare sull’imbarcazione: mercanti, studenti all’università di Padova, pescatori, i barcaroli, e poi donnine allegre, o delinquenti che svaligiavano i passeggeri. Si tratta, nel complesso, di un vivace e ancor fresco documento di vita di ogni giorno, piacevolmente allegro.
Il grande secolo
del Burchiello fu però il Settecento: e nella letteratura ne è rimasta grande
traccia. Lo canta - né poteva
farne a meno! attento com’era ai grandi e piccoli fatti della vita - Carlo
Goldoni, che gli dedica un poemetto in ottave, notando, con tirchia pignoleria,
come «Passasi con piacer di loco in loco, / e per lungo cammin si spende poco»,
e con cronometrica precisione che «quel vaghissimo naviglio, / di specchi e
intagli e di pitture ornato... ogni venti minuti avanza un miglio»; ne parla Gasparo
Gozzi, come pure il fratello Carlo. Non poteva non parlarne Giacomo Casanova: vi
si recò – era un burchiello
del servizio notturno, quello per i poveri – ancora fanciullo a Padova, per
studiare, in compagnia della madre e del poeta libertino Giorgio Baffo. Fu per
lui un giorno importante: vedendo dal finestrino, alle prime luci dell’alba,
gli alberi sulla riva, gli parve che si movessero; saputo che era
un’illusione, comprese, con grandi lodi da parte del Baffo, come non fosse il
sole a muoversi, ma la terra: da cui la sua propensione per il libero pensiero,
oltre che per tutte le altre, note libertà che si prese.
Il più illustre
navigatore in burchiello è forse stato Wolfgang Goethe: gli lasciamo la parola,
perché la descrizione del viaggio è ancora del tutto attuale:
Logico che la
tradizione dovesse riprendere. Ora, il Burchiello è
un’elegante e comoda barca a motore, che parte a giorni alterni da Padova e da
Venezia, e scorre tranquilla lungo il Brenta, fermandosi di tanto in tanto per
la visita alle ville maggiori, per il pranzo, per le chiuse... proprio come ai
tempi di Goethe. Non c’è dubbio che, per chi davvero voglia conoscere
l’essenza della Riviera e di Mira, sia il mezzo più indicato: quello con cui
più penetrante e sottile si respira il dorato profumo della nostalgia.
Non interessa qui
tanto notare che, per essere menzionate allora, le località di Mira e di Oriago
dovevano avere una certa importanza; piuttosto, è bello scoprire come Dante
abbia perfettamente individuato, con pochi magistrali tratti, la natura del
territorio mirese: si è tentati di pensare che il poeta conoscesse direttamente
quest’area. La palude, la barena sono ancora adesso una sua rilevante
caratteristica: e il sangue che scorre dalle vene di Jacopo, da rivoli che
s’allargano a formare un lago, descrive suggestivamente i fiumi e i canali,
che scendono a formare la laguna. Per gli eruditi, il luogo della morte di
Jacopo è individuabile: si tratta della località detta Malcanton, allora
allagata in seguito a uno dei molti tagli operati nella lunga lotta fra
Veneziani e Carraresi; sembra che l’ambasciatore volesse recarsi a Gambarare,
ma restasse bloccato appunto al Malcanton, in seguito al taglio aperto sul
canale e di cui non era a conoscenza.
Per Mira ebbe
ventura di passare il grande filosofo francese Michel de Montaigne, durante il
viaggio che lo portò, fra il 1580 e il
Questa lapide c’è ancora a Villa Contarini, sul portale lungo il fiume; è interessante notare come quello ricordato fosse un fatto di attualità: il re, di cui parla Montaigne, è Enrico III di Valois, allora regnante in Francia. Egli effettivamente si fermò a villa Contarini, nel 1574, tornando in Francia per essere incoronato. In quell’occasione si diede nella villa una grande festa.
I successivi
appunti di Montaigne illuminano sul funzionamento del carro di Fusina:
Ci recammo a Lizza Fusina, dove pranzammo. È poco più
di un’osteria dove ci si imbarca per recarsi a Venezia. Vi si recano tutte le
barche che scendono il fiume, e vi sono meccanismi e pulegge. Due cavalli le
fanno girare come quelli che volgono i frantoi per l’olio. Le barche, per
mezzo di ruote che vi si mettono sotto, vengono alzate su un tavolato di legno.
per gettarle quindi nel canale che conduce al mare sul quale giace Venezia. Ci
fermammo a mangiare, e, presa una gondola, dopo cinque miglia, arrivammo a
Venezia.
Sabato 12 novembre, partimmo al mattino e, dopo cinque
miglia, arrivammo a Lizza Fusina. Qui, uomini e bagagli, salimmo in barca per
due scudi. Egli [Montaigne] era solito soffrire l’acqua; ma, essendo
dell’opinione che fosse soltanto il movimento a dargli noia allo stomaco,
volendo sperimentare se il movimento del fiume, eguale e uniforme considerato
anche che la barca era tirata da cavalli, gli dessero noia, vi fece esperimento
e trovò che non ne ebbe male alcuno. Su questo fiume bisogna passare due o tre
chiuse, che si chiudono e aprono per chi passa.
Qualche decennio
più tardi, Alessandro Tassoni, in quel capolavoro in bilico fra epica e
commedia che è La secchia rapita,
descrive, un po’ serio e un po’
faceto, le truppe in campo per una battaglia, divise per luoghi di appartenenza:
vi appaiono fieramente in armi anche le forze del Mirese: «... e,
di là della riviera / della Brenta, le terre ove serpeggia /
Gasparo Gozzi era
un vero e proprio aficionado di
Mira, e in molti luoghi delle sue opere se ne parla. C’è persino la relazione
di una gita, che condusse lo scrittore in gran compagnia d’amici alla villa
Contarini dei Leoni, per ammirare l’allora appena compiuto affresco del
Tiepolo, raffigurante l’accoglienza ad Enrico III di Francia, giunto in quella
villa: lo stesso episodio cui è dedicata la lapide già notata da Montaigne. Un
altro letterato veneziano molto legato a Mira fu Antonio Longo, che anzi vi
teneva una villa.
Tuttavia, le cose
forse più tipiche e interessanti le disse allora Carlo Goldoni. Il
commediografo, attento, da buon pittore della vita quotidiana, ai costumi del milieu
borghese veneziano, indugia, a
descrivere le piacevolezze dei viaggi in barca lungo il Naviglio. Già allora
doveva esser viva la tradizionale ospitalità mirese: Goldoni è infatti
colpito, oltre che dalla dovizia di ville e di parchi, dalle osterie e dai
ristoranti.
Alla fine del
secolo scorso, con occhi molto diversi, un altro grande scrittore e poeta visita
Mira: Gabriele d’Annunzio. Coerentemente con la sua posa di vate
tardoromantico, egli vi trova un clima di decadenza, dalla grande carica
poetica.
Ecco Fusina e la
sua laguna, visitata d’autunno:
Ed ecco il viaggio
lungo il Brenta, verso Malcontenta:
Il tram costeggia
Statue sui pilastri dei cancelli, statue nel mezzo di un
Orto, tra i cavoli. Statue su i muri di cinta.
Le ville sono state restaurate, trasformate in case
volgari, abitate da gente modesta; ma le statue testimoniano il lusso della vita
anteriore. Ancora qualche parco che scende fin su la riva.
Gli alberi sono colorati
dall’autunno. Tutta la campagna è dolce, delicata, sotto un sole lento.
Navigano per
Oltre a questi,
molti altri letterati hanno scritto di Mira, oppure vi si sono riferiti nella
vita. Due Viaggi in Italia – di
Goethe (ne abbiamo parlato a proposito del burchiello) e
del Taine - vi fanno riferimento; un racconto di Aldous Huxley, Littie
Mexican, è denso di velate suggestioni miresi e brentane. Venendo più avanti,
sono noti i rapporti che con Mira ebbero due grandi della cultura veneziana: il
drammaturgo Giacinto Gallina e Riccardo Selvatico: fine scrittore, il secondo,
ma soprattutto sindaco di Venezia e fondatore della Biennale internazionale
d’arte.
Affezionato alla
cittadina sul Brenta fu Ugo Fasolo, fine giornalista e narratore, recentemente
scomparso.
La tradizione letteraria mirese continua tuttora, e numerose sono le pubblicazioni che si susseguono anno dopo anno: ricordiamo un po’ alla rinfusa alcuni autori: Lorenzo Marcato Quagliardi, Alberto Finistauri, Cesare Tomasetig, Antonio Minto, Giorgio Beninato. Sicuramente, a questi, con gli anni, si aggiungeranno molti altri nomi, a testimoniare la vitalità della cultura mirese.
Lo scorrere molle
del fiume riflette da secoli le splendide architetture delle ville. Sulle rive,
antichi parchi, alberi secolari: l’arte del giardinaggio, che disciplina la
natura e la stessa vita delle piante, è connaturale alla Serenissima, grande
manipolatrice di equilibri naturali, a salvaguardia di se stessa e del proprio
ambiente. Nel Settecento, i giardini delle ville sul Brenta raggiungono il
loro massimo splendore. E, sempre nel Settecento, Mira diventa oggetto di
un’altra grande arte. La pittura scopre un nuovo genere, la veduta: e
i paesaggi sul Brenta sono subito al centro di questo interesse. Altre volte, i
panorami sono soltanto contesto di più importanti lavori. Giovambattista
Tiepolo, per esempio, affresca il salone di villa Contarini dei Leoni,
illustrandovi la storia della visita di Enrico di Valois a Mira: un evento del
1574. Ma sullo sfondo della scena è
Nel Settecento si
estende la voga della villeggiatura sul Brenta: come in ogni stagione turistica
che si rispetti, i disegnatori e gli incisori fanno a gara per rappresentare i
luoghi della Riviera. L’abate Coronelli, cosmografo della Serenissima
Repubblica, produce un coscienzioso catalogo disegnato delle ville sul Brenta.
Un incisore dal nome esotico, Johann Christoph Volkamer, naturalista di
provenienza tedesca, nelle sue molte, eleganti tavole, accoppia curiosamente le
immagini delle ville con quelle di diverse varietà di agrumi: un limone
mostruoso per
Nell’Ottocento,
caduta
Bravissimo pittore
romantico, specialista in scene di genere, attento studioso dell’arte
veneziana, fu ottimo ritrattista. Suoi i ritratti di personaggi della casa sabauda.
Di Fusina, verso
la sboccatura del Brenta, era originario Luigi Nono, che, con genialità, ha
rappresentato l’arte veneziana dalla fine dell’Ottocento al primo Novecento.
Dal 1856 al 1912
fu segretario dell’Accademia veneziana Domenico Fadiga. La sua dimora
preferita era una villa sul Brenta a Mira, lungo quel Naviglio sul quale
affluivano i pittori veneziani intenti a captare la bellezza della Riviera e a
trasferirla sulle loro tele. Sono da ricordare Pietro Fragiacomo, Giuseppe
Ciardi, Egisto Lancerotto, ma due sono i maggiori: Ettore Tito, maestro
incontrastato dell’arte veneziana, che, aveva casa fra Mira e Dolo, e
rappresentava spesso paesaggi miresi, e Alessandro Milesi, pure autore di vedute
dal soggetto brentano.
Lino Selvatico,
notevole ritrattista di Padova, veniva spesso a Mira. Vi si trasferì
stabilmente Vittorio Tessari, nato a Castelfranco nel 1860, abile pittore di
genere e fine disegnatore. Mori nel 1947. Sulle rive del Naviglio dipinsero
anche Millo Bortoluzzi, di Dolo, ed Alberto Prosdocimi.
Nel periodo fra le
due guerre mondiali continuò l’attenzione dei pittori veneziani per
Nacque una
paesaggistica più moderna, tendente a una rappresentazione del vero immediata e
attenta alla verità atmosferica e ambientale. In quel periodo, presidente
dell’Accademia veneziana fu il mirese Giovanni Bordiga: fu lui a far chiamare
l’architetto Iscra, per il Parco delle Rimembranze, fra la chiesa di S. Nicolò
e villa Contarini.
Intanto, venne ad
affermarsi a Mira Beppi Spolaor: nato nel 1910, seguì gli insegnamenti di
Vittorio Tessari, ed ebbe qualche suggestione da Sogàro; tese tuttavia a
inserirsi sulla scia di Ettore Tito. Studiò alla Scuola d’arte dei Carmini, e
fu un personaggio della cultura brentana negli anni Trenta e Quaranta. Rappresentò
il paesaggio mirese in notevoli lavori ad olio; mori nel
Dopo la guerra, si
è invece fatto luce un altro mirese, Clauco Benito Tiozzo, nato a Buse, nel
territorio di Gambarare, l’1.3.1928. Ebbe per maestro Arturo Martini, che lo
portò con sé all’Accademia di Venezia: solo Zona, fra gli artisti miresi, la
frequentò prima di lui. Elaborò la sua arte spesso in contrasto con mode e
accademie, tendendo al recupero della maniera veneziana, traducendo il lessico dei classici in forme attuali. Il suo lavoro ha
imposto un’originale visione pittorica, collocandolo fra i protagonisti della
pittura veneziana contemporanea. Ha rinnovato tecniche antiche, come
l’affresco, sovente rimontato su tela o tavola, prendendo spesso a soggetto
scene brentane, cui il vibrante cromatismo assegna dimensione universale; anche
a queste opere si deve la notorietà della Riviera. Attualmente occupa la
cattedra di Pittura dell’Accademia di Venezia, che fu già di Ettore Tito.
Notissimo
restauratore, Tiozzo è apprezzato studioso dell’arte veneziana: i suoi
contributi appaiono regolarmente su riviste e in volumi, fra cui fondamentale
per l’area mirese è Le ville del
Brenta da Lizza Fusina alla città di Padova (1977); ha pubblicato inoltre racconti e novelle.
L ‘interesse per
la pittura e le arti a Mira è più che mai vivo: molti sono coloro che vi si
dedicano.
Il paesaggio del
Naviglio ha interessato anche la fotografia. Dei molti che si sono, con
successo, cimentati in questo settore, ricordiamo Giuseppe Bruno.
Se la pittura ha
goduto a Mira grandi fasti, non sono da meno il teatro e la musica.
Senza contare la
presenza di mostri sacri, come Eleonora Duse, che hanno cominciato proprio qui
la loro carriera, il teatro a Mira ha sempre avuto, fino a due o tre decenni fa,
una diffusione notevole. Ogni frazione aveva il suo teatrino e la sua compagnia.
Bande, suonatori
popolari, (qualche nome: Ortes detto «Campanea», maestro di banda; il
violinista Simionato; Gino Salviato, clarinettista) hanno goduto di una locale
celebrità. È da pochi anni
rinata
Barbara Marchisio, per esempio: il grande contralto rossiniano, che venne a concludere la propria vita proprio a Mira. E qui si fermarono, o vi ebbero amicizie, anche altre grandi voci della lirica: Adelaide Manso Borghi, Aureliano Pertile, Toti dal Monte... Forse però la gente ricorda con più affetto, cantanti meno noti, figli però di Mira, che non ne sono fuggiti: come il baritono Bettetto o Giulio Mion.
BYRON E
Il poeta giunse a
Mira nella primavera del 1817: era da poco arrivato a Venezia, dove aveva
alloggiato in casa Segati, e, evidentemente ritenendo opportuno conformarsi alle
usanze locali, pensò subito di cercare una casa di villeggiatura, in riva al
Brenta, dove passare i propri momenti di tranquillità e riposo. Trovò ben
presto: forse, la sua scelta fu influenzata dalla storia del palazzo in cui
stabilì la propria residenza.
Anticamente di
proprietà della famiglia Foscarini, vide due rampolli dell’illustre stirpe al
centro di oscure trame sentimental-spionistiche, sul genere caro allo scrittore
inglese. Nel 1622, fu la volta di Antonio Foscarini: un falso delatore denunciò
una relazione amorosa fra lui e – altra
suggestione già byroniana! – la
contessa inglese Anna d’Arundel. Si trattava, chiaramente, di cosa pericolosa
per la sicurezza della Repubblica Serenissima, e pesanti furono le grane per il
povero Foscarini. Più avanti un altro della famiglia, Melchiorre, fu coinvolto
nella relazione fra sua moglie e Antonio Farsetti: la vita in villa era spesso
teatro di simili tresche.
Byron non perse
tempo a ridare vita all’antica tradizione del palazzo: tanto per cominciare,
vi portò la figlia del suo ospite veneziano, Marianna Segati, con la quale, si
narra, intrecciò una relazione fin dai primi giorni del suo soggiorno nella
Serenissima. Ma non era tipo da accontentarsi di un unico amore: e fu proprio a
Mira che trovò una delle donne che più lasciarono il segno sulla sua vita:
quella Margarita Cogni che, per essere moglie di un fornaio, egli chiamò sempre
Ma lasciamo la
parola allo stesso Byron: così scrive al suo editore John Murray, il primo
agosto del 1819:
Poiché desiderate conoscere la storia di questa
Margarita Cogni, sarete accontentato: vi avverto solo che può esser lunga. Il
suo volto ha l’antica bellezza veneziana e la sua figura, anche se forse
eccessivamente alta, non è da meno, specie se adorna del costume nazionale.
Nell’estate del 1817, Hobhouse [un
amico di Byron n.d.r.] ed io stavamo
girovagando a cavallo lungo il Brenta, di sera, quando notammo in un gruppo di
contadini due belle ragazze:da tempo non ne vedevamo di così graziose...
Erano cugine:
Margarita era sposata, l’altra nubile. Byron si organizza un appuntamento con
«...può averne altre cinquecento, ma prima o poi torna
sempre da me». Le ragioni erano anzitutto la sua persona, scura, alta, tipica
faccia veneziana, splendidi occhi neri, e altre qualità che non è necessario
specificare; aveva ventidue anni, e non avendo mai avuto figli non si era
rovinata la figura né altre cose;
inoltre era una vera veneziana, nel dialetto, nel modo di pensare,
nell’espressione, insomma in tutto e per tutto, con l’ingenuità e l’umore
buffonesco dei suoi concittadini... Per altri aspetti era un poco selvaggia e
prepotente, non si faceva scrupolo di presentarsi quando ne aveva voglia, senza
badare a tempi lunghi o persone; e se trovava altre donne sul suo cammino era
capace di prenderle a sberle.
Dopo varie scenate
con altre amiche del poeta, e adducendo a motivo le continue liti col marito,
Margarita si installa a casa di Byron, e vi rimane a lungo, senza che egli mai
vi avesse esplicitamente consentito. In fondo, gli faceva anche comodo, poiché
la donna si rivelò brava massaia, e le spese del poeta si ridussero rapidamente
della metà. Fu dura la fatica per liberarsene, anche perché essa doveva essere
davvero affascinante, anzi, una della poche donne che potessero dire di aver
davvero conquistato l’indiavolato inglese. Ma divenne a un certo punto
difficile sopportare i suoi comportamenti spregiudicati e piuttosto violenti,
per cui, con estrema difficoltà,
Stupisce che in
questa farandola di avventure, piaceri e amori, avanzasse ancora tempo per
scrivere: invece, la vitalità di Byron doveva essere eccezionale: durante il
soggiorno veneziano, e quindi anche nella villeggiatura a Mira, riuscì a
portare a termine il Childe Harold
Pilgrimage, e a scrivere il Don
Juan e varie altre opere poetiche: quelle che, vendute a caro prezzo in
Inghilterra sull’onda dello scandalo, gli permettevano di condurre in Italia
una vita sfrenata e senza preoccupazioni economiche.