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Pleniluni e quarti di luna

 

HARUKI MURAKAMI

Tokyo blues

(maggio 1995)

 

1. PERCHÉ MI SON RITROVATO A LEGGERE TOKYO BLUES

Non so niente di letteratura giapponese.

Come molti, sono stato affascinato da certo bric-à-brac, le stampe di Utamaro, Madama Butterfly, ma, più essenziale per la mia generazione, lo zen di Jo-shu, i giardini di sabbia o le scarnificate cerimonie del tè. Esperienze mediate da altro: più americane — West Coast — che davvero asiatiche.

Però, si vedrà, questo aspetto non è secondario alla lettura di Murakami.

Ma divago: come mi sono imbattuto in questo libro per me sconosciuto? Devo questa lettura a un giovane amico, un ex allievo poco più che ventenne — un possibile figlio. Si discuteva di cosa si potesse leggere, di cosa andasse di moda leggere per le nuove generazioni.

Ci sono anche i giapponesi — dico io — per esempio questa Banana (che razza di nome) Yashimoto.

— Sì — mi dice — Kitchen non è un brutto libro, in fondo, ma non vale la pena. Troppo debole. Se vuoi qualcosa di più solido, leggiti Murakami.

Devo ricordarmelo, penso io, non fare confusione con la Murasaki , raffinata scrittrice classica che un’estate o l’altra mi propongo di studiare. Da tante, troppe estati.

La discussione si concluse su tutt’altri temi: quello principale era la moda delle birrerie finto — irlandese, gestite per lo più da giovani che le hanno in franchising da certe organizzazioni internazionali. Importano tutto dall’Irlanda, birra mobili bersagli per le freccette, persino vecchie riviste e libracci in gaelico che fanno colore locale e nessuno legge.

Non c’entra gran che col romanzo di Murakami: però, ho scoperto dopo, l'autore ha in qualche modo lavorato in bar con uso di musica, niente di molto diverso. In locali più o meno del genere sono ambientate molte scene di Tokyo blues.

Nel romanzo mi sono imbattuto per caso, in libreria (è pubblicato da Feltrinelli nella traduzione di Giorgio Amitrano, anche in edizione economica). Una bella copertina rossa con degli ideogrammi verdi, vibrante come certe cose futuriste, il nome dell’autore in grafia originale. Haruki Murakami. Dietro, le poche notizie che ho di lui: classe 1949, studi, viaggi, traduzioni. Altri libri. In Italia è uscito, da Longanesi nel 1992, Sotto il segno della pecora. Tokyo blues ha venduto milioni di copie in patria e fuori, cosa che mi insospettisce.

Dev’essere davvero un cittadino del mondo, questo scrittore: il libro l’ha scritto fra Mykonos e Roma. È una storia giovanile, di ragazzi, questo si capisce subito; racconta quel passaggio impercettibile fra l’adolescenza e la gioventù, una sorta di linea d’ombra anticipata, che arriva verso i vent’anni. E’ questa l’età del protagonista, e anche della gran parte degli altri personaggi.

Le prime pagine mi innervosiscono un po’. Credevo di aver acquistato un libro giapponese: cioè, un libro che rispondesse alla mia immagine un po’ oleografica del Sol Levante: non dico proprio geishe e musmè, ma almeno zen, ikebana, kakemono...

Invece, la Tokyo che mi appare è una città come qualunque altra metropoli, l’unica differenza è che nei ristoranti fanno cibi giapponesi: bento, soprattutto, che dev’essere una specie di vassoio pieno di cose strane. Però bevono caffè, birra, whisky... Siamo nel 1969: c’è nell’aria il clima della ribellione, ma resta uno sfondo, giusto per illuminare lo spirito del tempo.

Il protagonista del libro potrebbe essere lo stesso autore: ne è coetaneo. Uno studente, di nome Toru Watanabe; viene dalla provincia. Normali occupazioni, studia tutto sommato pensando più a quel che gli piace che ai risultati concreti. Studia — anche questo mi infastidisce — esattamente quello che studiavo io alla sua età o poco dopo: il grande teatro europeo, a partire da Sofocle ed Euripide. Come se io mi fossi messo a studiare il Kabuki, invece di leggerne un paio di pièces e lasciar perdere. Anche i romanzi che girano sono o europei o americani. Anche le musiche. Né a prima vista il libro è molto diverso da tante storie di campus: compagni strani, bevute, ragazze che vanno e vengono. Il linguaggio deve molto a Salinger, credo; anzi, lo dice lo stesso autore, per quanto io, non sapendo una parola di giapponese, non mi possa su questo fare alcuna idea precisa.

Queste perplessità per fortuna non prevalgono, e continuo a scorrere le pagine. Poco a poco si presenta uno dei filoni principali del libro: il rapporto fra Watanabe e Naoko. Non tanto la storia in sé, quanto la preparazione di essa, che è proprio l’apertura del racconto: scena europea, un caso fortuito (una canzone del Beatles, Norwegian Wood, che il narratore sente in aereo, durante un atterraggio) riporta Naoko alla mente del narratore. Quando la cosa ti si precisa, appare chiara la citazione proustiana.

(Di Proust Murakami deve esser stato attento lettore: molti altri richiami alla Ricerca del tempo perduto sono disseminati nel romanzo.)

 

2. LA STORIA

E’ chiaro che si tratta di una storia triste. Avrebbe interesse anche di per sé, perché Naoko è un personaggio complesso. Il suo legame con Watanabe deriva da una precedente amicizia, con un certo Kizuki; Watanabe era fra loro una sorta di ponte che permetteva loro di parlare, di comunicare; poi Kizuki è morto, Wata— nabe è andato a Tokyo. Naoko si ripresenta con la forza del destino, come una premonizione di qualcosa di pesante e insieme oscuro, un mistero doloroso.

Ben presto la narrazione si complica. Irrompe sulla scena un’altra ragazza.

Midori Kobayashi. È per la sua presenza che il volume mi ha affascinato. Figura complessa, Midori. Se Naoko sembra sospinta verso una morte per la quale prova orrore e repulsione, ma che allo stesso tempo la attira, Midori è ammaliata dalla vita. Non perché la sua vita sia felice: lei ha mille motivi di sofferenza, anche se fa l’impossibile per nasconderli. E’ un fascio di contraddizioni, questa giovane che ricorda certe swingers londinesi, sul tipo di quelle che Antonioni ci ha mostrato in Blow up. Ma la vita prevale su tutto in lei. È viva sempre, e vuol vivere, costi quel che costi.

Watanabe è attratto da lei, anche se non vuole confessarselo. E’ attratto, e forse più, anche da Naoko. Non fosse che per l’amico morto, che sente come tramite che lo unisce a lei.

Questo legame con Naoko diventa ancora più forte quando lei finisce in una casa di cura per malattie mentali, in montagna, lontano dalla metropoli.

Fra le poche scene ambientate fuori città ci sono quelle relative alle visite di Watanabe a Naoko in questo centro, sorta di comunità terapeutica guidata da medici di cui non si sa quanto siano loro stessi equilibrati.

Il romanzo, nelle linee generali, è giocato proprio sull’opposizione di questi due legami: Naoko/morte, Midori/vita, che Watanabe per un po’ snobba, ma nei quali si trova poco per volta impigliato.

Non voglio togliere il piacere della lettura: perché è un libro che vuole essere letto, dall’inizio alla fine e sa appassionare come un grande classico; per questo il mio "riassunto" si fermerà qui. A meno di un terzo delle trecento e passa pagine.

Non senza ricordare prima un altro personaggio: uno studente, Nagasawa, ricco, intelligente, determinato, cinico. Watanabe ne diventa il migliore amico: perché in fondo lo sente simile a sé: egli, come Nagasawa, vuole affermare se stesso. Ma per farlo non vuole passare sopra agli altri, ai loro sentimenti, alle loro sofferenze.

 

 

3. IL PROTAGONISTA

È buono, Watanabe: e crede di avere delle missioni nel mondo, innanzi tutto quella di liberare Naoko. Non gli interessa la carriera diplomatica, che vorrà percorrere Nagasawa, ma la carriera in una sorta di perfezione nella sincerità, nell’esser qualcosa di bene per gli altri.

Una specie di via alla santità, per quanto nel romanzo non appaia alcuna propensione religiosa: perché è così che si vive, e basta.

Watanabe è pulito: lo notano tutti coloro che incontra, piace per questo, si integra facilmente con gli altri. È una pulizia fisica, la sua, immagine di una profonda pulizia morale. Nel corso della narrazione, egli ha molte e molte occasioni di sporcarsi, di compromettere la propria austera moralità — che non è moralismo: non gli interessa niente di apparire, e molte delle sue azioni potrebbero sembrare riprovevoli per malintesi benpensanti.

Watanabe è rispettoso. Questo lo distingue per esempio da Nagasawa, il quale per ottenere il suo scopo non rispetta niente e nessuno, non ha alcuna comprensione per gli esseri umani, nemmeno per i propri affetti, meri strumenti per conquistare uno status sociale, nemmeno in fondo per se stesso. Watanabe cerca altro, cerca se stesso, anche in rapporto con l’altro, dunque è assolutamente aperto al mondo esterno, ma questa apertura necessita appunto di rispetto.

Perché in fondo Watanabe è davvero umano. E intende la propria umanità come ricerca, come tentativo di comprendere cosa sia essere al mondo e di dare un senso alla propria vita. Ed è convinto che per ottenere questi risultati non si possa che impiegare bontà, pulizia, rispetto. Non ha modelli in questo, Watanabe: semplicemente, lo sa. Quando si sovrappongono dei modelli all’umanità si fanno, ahimè, disastri.

 

 

 4. SUGGESTIONI, TEMI E STILI

Murakami ha fatto molte buone letture.

Il libro, per coloro cui interessano queste cose, ne porta molte tracce: di Proust abbiamo già detto, poi ci sono gli americani: Salinger, Scott Fitzgerald. In fondo quella narrata qui è una storia di formazione, la scelta che accompagna la giovinezza: morte o vita, bene o male. È la stessa che troviamo in grandi classici come il Werther di Goethe (Watanabe studia tedesco all’università, ad Amburgo inizia il romanzo), filtrata però attraverso modelli americani.

Questi influiscono anche per altre vie: in alcuni tratti il libro ricorda certe narrazioni picaresche, anche qui da spunti statunitensi: il nome che viene per primo in mente è Steinbeck, mi pare.

Significativa è la pluralità delle tecniche impiegate, che spaziano da costruzioni narrative moderne a forme desuete, come il romanzo epistolare. Potremmo forse dire che questo pluralismo fa classificare il nostro libro fra le opere postmoderne.

 

  

5. IL RUOLO DELLA MUSICA

Anche per questo tema ci si deve rifare a Proust: c’è, nel suo sterminato romanzo una melodia che di tanto in tanto riappare: la petite phrase di Vinteuil. Così in Tokyo blues sono tantissime le riapparizioni di una canzone dei Beatles, Norwegian Wood (del 1965, in Rubber Soul, con Michelle: famosa perché è la prima in cui i quattro di Liverpool usano il sitar): ovvia, sul piano narrativo (siamo nel 1969), la melodia ha un’importanza assai maggiore sul piano della costruzione narrativa. Si tratta di un pezzo in fondo banale, almeno per la musica: un paio di frasi dal vago sapore celtico, in un tempo ternario, più di sarabanda o lenta gagliarda che di valzer. Non manca tuttavia di un fascino dolce, avvolgente, sinuoso.

Più interessante il testo di John Lennon, non tanto in sé, quanto per le emozioni che ne trae Murakami. Lennon racconta di un tale andato a casa di un’amica ("ho avuto una ragazza in un tempo lontano, o forse dovrei dire che era lei ad avere me"), l’arredamento è di legno norvegese (da cui il titolo). Discorsi, che tirano fino alle due di notte, poi lei dice "Domani devo lavorare", lui risponde che no, lui è libero, e se ne va a dormire nel bagno. "E quando mi sono svegliato, ero solo, quest’uccellino era volato via" (this bird is flown, sottotitolo della canzone).

Storia innocente. Ma questa ragazza che fugge — molte volte nel romanzo — è Naoko, cui la canzone è legata come un leitmotiv. È un uccellino che nei momenti cruciali se ne vola via: e un'apertura, una promessa di libertà, e insieme un rimpianto. Poi c’è l’altro, decisivo aspetto, che Lennon accenna nei primi versi e che Murakami sviluppa: l’amore è appartenenza, avevo una ragazza (lei era mia) o forse ero io di una ragazza. Naoko è di Watanabe oppure Watanabe di Naoko? Certo, in molti casi è lei a cercarlo, tuttavia non si abbandona mai (nemmeno con altri si è mai abbandonata, nemmeno con Kizuki). Solo una volta cederà a Watanabe, ma in stato quasi di incoscienza, senza sapere propriamente cosa faceva.

Ritornerà spesso su quell’episodio, vorrebbe chiarirselo, ma non può: non sa essere, davvero, di nessuno. Sullo sfondo, dietro di lei è sempre un ricordo, quello della sorella morta suicida, che lei stessa, bambina, ha trovato impiccata. Naoko non può essere di nessuno, se non della morte; può però attirare nel suo cerchio magico altri, Kizuki, Watanabe... non perché lei voglia la loro rovina, ma perché quella è la sua natura, quello il suo essere al mondo.

Un fuoco di legno norvegese, davvero un bel fuoco, per un rogo, sia pure un rogo d’amore.

Un altro tema musicale è legato alla figura di Reiko, una donna di trentott’anni, che rappresenta l’età adulta e di cui dirò dopo, viene dalle Invenzioni di Bach. Reiko in esse cercava qualcosa di equilibrato, di razionale; ma il progetto va storto. Sono possibili interpretazioni non canoniche anche di questa musica: lei, insegnante di musica, sente per caso una ragazza che la esegue in modo selvaggio, immaturo sul piano tecnico, eppure... Da qui prende il via una storia di grave disagio mentale, che la indurrà ad abbandonare marito e figlia.

Anche nel genio musicale più geometrico, come è quello del grande musicista settecentesco, dunque, è insita una potenzialità di follia.

Più in generale, nel libro sono presenti molte esperienze musicali: dai generi classici al rock, più o meno mescolati: e davvero in quegli anni capitava di sentire raffinati musicisti del XVIII secolo come Pachelbel, Telemann, lo stesso Bach, saccheggiati dai musicisti rock per le loro esercitazioni.

Non si trattava, credo, di operazioni superficiali; era un impadronirsi di materiali nel senso più profondo, per riviverne l’essenza. Nella coscienza collettiva di quegli anni la musica, in questa accezione così complessa, aveva un grande spazio, stabiliva la comunicazione, la ritmava, dava al mondo giovanile miti e riti non banali, perché comunque tutto era filtrato dalla sensibilità e dalla creatività. Così è per le musiche di Tokyo blues.

 

   

6. FOLLIA E SAGGEZZA: REIKO, LA DONNA ADULTA

Reiko è l’unica figura adulta di rilievo di un romanzo tutto giovanile. Figura importante, perché indica la via della saggezza. Ha trentott’anni. La vita l’ha segnata: è tutta piena di rughe! sembra più vecchia di quanto non sia. Tuttavia non è stata cancellata la sua antica bellezza.

Ha una grande risorsa: la musica. Che ha segnato tutta la sua vita, dandole tutto il male e tutto il bene.

Era una pianista promettente, la giovane Reiko. Poi qualcosa è scattato, dentro di lei. E’ impazzita. Cure, cliniche, guarigione, ma la musica, intesa come lavoro, non è stata più possibile per lei.

Si sposa, riscopre la musica: in modo più giusto, ora, per sé. Suona dalla mattina alla sera, ha una figlia, è felice.

Non dura: si prende un’allieva, un’adolescente demoniaca che la riconduce sulla strada della follia.

Trova la sua redenzione nella casa di cura dove sarà ricoverata Naoko, dove guarisce, si impegna come insegnante di musica e "terapeuta".

Avrà grande parte nei rapporti fra Watanabe e Naoko, essendo insieme la confidente e la "direttrice spirituale" di tutt’e due. E’ saggia ormai, attraversando due volte la follia ha trovato un equilibrio e un suo modo di essere al mondo. Proprio perché ha conosciuto il male, ora è capace di insegnare anche agli altri a vincerlo.

Il riferimento ovvio qui è Freud. E di nuovo appare il conflitto tra istinto di vita ed istinto di morte, tra Eros e Thanatos, con Reiko nella parte dell’analista. Uno fra i tanti recuperi del pensiero occidentale in questo libro denso di cose che ci parlano.

Reiko insegna a Watanabe la saggezza. Essa consiste nel lasciar che le cose accadano come devono accadere. Nel dare fiducia alle cose e agli uomini. Nel rischiare, anche: è il rischio pedagogico, quello che il maestro corre col suo allievo, che altrimenti non potrà arrivare all'eccellenza.

Reiko insegna a Watanabe la calma. Il tempo ha il suo ritmo, esso non ci appartiene. Proprio come la musica: essa è data, noi possiamo interpretarla.

Il tempo ha bisogno di scorrere, noi lo possiamo in parte indirizzare di qui o di là, ma non stravolgere.

Ma anche il paziente ha qualcosa da insegnare al suo analista, ha una funzione terapeutica. Reiko troverà la forza di uscire dal chiuso della casa di cura, nella vita del mondo, solo dopo l’incontro con Watanabe, e quando uscirà sarà proprio lui la prima persona che vorrà vedere.

Per tutto il tempo in cui è in scena Reiko lo è pure la musica: lei fornisce con la sua chitarra (lo strumento pop) la colonna sonora degli avvenimenti; parla a lungo di musica, comunque la musica le fornisce suggestioni, analogie, temi di cui il suo discorso è sempre fiorito.

 

   

7. PERCHÉ LEGGERE TOKIO BLUES

Il primo motivo per leggere Tokyo blues è che si tratta di un bel libro: un romanzo sapientemente costruito, con personaggi di forte spessore drammatico, sentimenti veri e intensi, il tutto da un punto di vista tutt’altro che scontato.

Ma questo lo accomunerebbe a molti libri che vengono uscendo, e dunque non è determinante.

In realtà, il motivo più profondo per cui consigliare quest’opera che viene da così lontano è, per paradosso, il fatto che potrebbe essere stata scritta qui.

E’ un documento della globalizzazione della cultura — non a senso unico come si potrebbe credere: i giapponesi hanno importato la musica europea, ma quando zen, quanto buddismo c’è nei testi delle canzonette nostrane, nella vita corrente, se persino i calciatori intelligenti si proclamano buddisti?.

Ormai questo intreccio, questo polimorfismo culturale, che si traduce in linguaggi eclettici, mai scontati, è il nostro mondo. È un bene? È un male?

Non intendo qui dare una risposta. Certo che gli artisti più attenti lo colgono e, proprio come qui, mescolano consapevolmente culture e storie, per una letteratura in cui sono scomparsi i particolarismi, o sono così esibiti da diventare un fatto di nicchia, un divertissement culturale.

C'è un altro motivo, forse più sostanziale, per leggere questo libro. In esso una generazione — la mia — riflette sulla sua giovinezza. Sui valori che ha determinato. Sui comportamenti che ha assunto o forse sognato. Sul mondo che voleva e su quello in cui le è toccato di vivere. Sulla propria cultura, su quanto di una tradizione quasi secolare — quella che parte dal Rinascimento americano, per passare attraverso il giro del secolo parigino, per la psicanalisi freudiana, quindi per le avanguardie storiche e il romanzo americano del Novecento, fino alla stagione hippy, sia sopravvissuto. Su quanto queste basi siano ora ancora efficaci. Cosa ha significato tutto quel che la generazione nata fra la fine della seconda guerra mondiale e i primi anni Cinquanta ha portato alla ribalta della storia?

Murakami risponde che la nostra esistenza in questo mondo è stata importante, che possiamo sperare nella salvezza, che non è stato tutto inutile come hanno voluto farci credere.

Egli stesso, in un poscritto, confessa che il libro gli è cresciuto fra le mani al di là della sua volontà, che dunque esso aveva una urgenza propria, una sua indispensabilità. Il fatto che sia diventato un best-seller, pur non avendone del tutto le caratteristiche (vi sono molti elementi intellettualistici, quasi saggistici), conferma che si trattava di un’opera necessaria. In Giappone, dove l’impatto della nuova cultura americaneggiante deve essere stato particolarmente forte, ma anche da noi: gli anni Sessanta non sono stati in fondo molto diversi.

Quello che mi ha più colpito è che il libro sia amato dai giovani — l’ho detto, me l’ha fatto scoprire un ragazzo.

Ciò mi ha dato un motivo di riflessione abbastanza sconsolata e una speranza.

Possibile, mi son chiesto, che destino ancora interesse vicende di ormai quasi trent'anni fa, che io posso capire, ma che uno di vent’anni più giovane dovrebbe aver superato? possibile che in questo ventennio la tradizione non abbia fatto passi avanti? Mi sono guardato intorno. Ahimè, è possibile. Quindici anni sono passati invano. Non è successo niente. Le canzoni che cantano i miei figli sono le stesse che intonavo io, e pazienza, posso averli plagiati a furia di ninne natte. Ma quelle che cantano in giro (vedi i karaoke, a proposito di cose giapponesi) sono sempre quelle. Non ce n’è stata una degna di essere ricordata, nel frattempo; non una migliore di Norwegian Wood, che certo non è il capolavoro di Lennon e McCartney. Ci tocca dunque ripartire da lì.

Ma resta la speranza. Se tanti hanno sentito la necessità di farli, quei conti, vuol dire che l’ora è giunta. Se i giovani hanno apprezzato quest’opera, significa che c’è ancora necessità delle cose che essa dice.

Dobbiamo ripartire, abbandonare le sciocchezze che nell’ultimo quindicennio ci sono state propinate come verità dalle mille forme di réclame, ritrovare i discorsi veri che stanno dentro di noi.

La nostra generazione le conosceva, queste cose. Aveva letto gli scrittori che le avevano indagate. Poi si sono perdute. Spetta a noi farle rivivere, farle circolare perché siano superate, come è giusto che sia.

Il libro di Murakami è un contributo importante su questa strada.