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Pleniluni e quarti di luna

 

QUARTI DI LUNA

Divagazioni dal fondo del pozzo

(gennaio-febbraio 1997)

 

4 La luna dei lunatici

4.1 Tommaso Landolfi (1908-79) La pietra lunare (1939)

4.2 Ermanno Cavazzoni Il poema dei lunatici

L’influenza della luna sugli eventi terreni è cosa postulata da molti operatori di scienze più o meno occulte: è noto per esempio che gli astrologi le dànno grande importanza nelle loro elucubrazioni. Per essi Selene regge l’impalcatura sensibile dell’Io, che lo fa ricettivo ed emotivo. E’ una sensibilità che può esser dispersiva, legata all’infanzia e al senso di appartenenza al tutto. Porta candore, fiduciosità, inesperienza, sprovvedutezza al limite, sempre irriducibilità agli schemi della ragione, spirito di ricerca. A tutto questo la luna aggiunge femminilità.

II lunatico è ipersensibile, a volte nel senso artistico, altre in quello nevrotico; inquieto, forse angosciato, tendenzialmente insicuro e sottomesso, cerca un appoggio, ma si rivela imprevedibile, in grado di mettere in mostra estrosità «strane». È legato alle cose misteriose della natura, ma esprime questo legame in modo mutevole; ciò lo porta all’intuizione, alla preveggenza, alla percezione extrasensoriale, alla magia, alla malìa.

Inoltre, per via alquanto misteriose, la luna è legata a quei fenomeni di continuità fra il mondo animale e quello umano, il cui caso più tipico è la licantropia: gli uomini si trasformano in lupi mannari in notti di luna piena, come è già attestato da Petronio Arbitro (LXII).

I lunatici di cui parleremo oggi hanno caratteristiche di questa natura.

 

4.1 Tommaso Landolfi (1908-79) La pietra lunare (1939)

Lo studente romano Giovancarlo Scarabozzo va in campagna, a casa di uno zio, a P., un paese che somiglia a quello natale di Landolfi, Pico Farnese. I personaggi che danno vita alle prime, grottesche, vicende del romanzo sono strani, lunatici: per fare un esempio, il fratello della zia, quando sente una marcia, si mette comunque a marciare.

Presto Giovancarlo è attratto da un mistero: lo zio parla di una croce nera che si vedrebbe nei giorni di luna calante. Dal nero della sera spuntano due occhi, neri anche loro, di ragazza: fissano lo studente. È Gurù, costei, viene dalla montagna, in luogo dei piedi, cribbio!, ha due zoccoletti di capra, solo che l’unico ad accorgersene pare essere il nostro protagonista. L’ha proprio puntato, la satira: si fa accompagnare a casa da lui, con la scusa che è tardi, quasi mezzanotte. Restano fuori fin quasi all’alba, ma cosa successe nessuno lo sa. È misteriosa, Gurù. Forse perché ha in qualche modo a che fare con la luna.

C’è, a P., un palazzaccio con uso di fantasma: vecchie storie di violenze e anime dannate. Lì abita Gurù, cucitrice che passa il suo tempo a cantare.

Giovancarlo è poeta e ha poco successo con le donne, sta sveglio di notte, a veder la gente che gira nuda per casa; ha una cagna, con la quale vive fantasticherie eroiche, per fortuna da solo. Vede anche Gurù; chiede informazioni alla fantesca Giovannina; Gurù è una lunare, cioè sterile, ed è una «capra mannara».

Tanto per cominciare, Gurù doveva essere “lunare” (cioè sterile), come ai sarebbe certo dimostrato se ella si fosse sposata. È arcinoto che appunto fra le lunari - dette così non senza una ragione, - Quell’Amico (cioè il demonio, l’Infando) recluta di preferenza i lupi mannari. Che cosa siano i lupi mannari sanno persino i bambini in fasce; essi non sono propriamente streghe o stregoni, sebbene all’occorrenza possano preparare una fattura, ma “una cosa buona” non sono di certo e con Quell’Amico sono bene o male in relazione; fra i tanti svantaggi che questa istituzione infernale presenta c’è un solo vantaggio, e cioè che, in determinati frangenti, i lupi mannari possono proteggere dalla “cosa trista” (il fulmine); come uomini essi scontano i peccati dei loro maggiori e in generale di tutti i morti insepolti o inconfessi, come lupi sono senz’altro strumenti del demonio, che se ne serve in modi diversi, salvo il caso anzidetto. Non bisogna però credere che esista una sola specie di lupi mannari, teoricamente invece sono possibili scambi, totali o parziali, colla natura di qualsiasi bestia; nel tenimento di C. c’era una donna che regolarmente cedeva la propria testa a una sua vacca, ricevendo in cambio la cornuta cervice, nel tenimento di L. un’altra che diventava gufo laddove il gufo, divenuto a sua volta madre dei figli di lei, li nutriva di gechi e tarantole (origine di numerose altre complicazioni, nel tenimento di S. un uomo che si mutava in serpente e fischiava eccetera. Ora, era stato notato che Gurù se l’intendeva colle capre in generale, le quali venivano a lei da ogni parte come gli uccelli a S. Francesco. Se ne concludeva che ella era - secondo l’espressione della vecchia (la pinzochera Filomena, informatrice di Giovannino) - “capra mannara”.

Giovancarlo va da Gurù per interrogarla: sorpresa: non ha i piedi di capra. Seduzione: la ragazza ci sta. Racconta di una città abbandonata e nascosta, là sulla montagna.

Nasce uno strano amore, normale di giorno, ma quando si leva la luna Gurù ha inquietudini inaspettate.

(Viene qui presentata in funzione accessoria una bella banda di lunatici, che partecipano alle feste di paese: le sorelle Mammone, Buccitto, il pretore Patalocco amante della polvere, Trincanello, maresciallo in pensione che sta a letto tutto il giorno: ma lasciamoli al loro destino).

Non va in chiesa, la ragazza; di notte esce con Giovancarlo e una capretta bianca. Sta nascendo la luna.

È una strada difficile, lungo la montagna. Ci stanno andando Gurù e Giovancarlo, fino a Sorvello. È notte. Gurù racconta storie di impiccati e fantasmi Vuole arrivare a Campello, il paese abbandonato: pare eccitata. Vien su maltempo, pioggia, lampi, grandine, tempesta; riappare la capra bianca, e fa una specie di baruffa con Gurù. Giovancarlo osserva impietrito.

Gurù si spoglia, la capra, in disparte, guarda. Scena di passione e violenza fra capra e ragazza, che diventa una rappresentazione dantesca: le gambe di Gurù si fanno zampe caprine, le zampe della capra diventano gambe femminili. I due esseri si scambiano anche gli occhi. Giovancarlo se ne rende conto, ma non prova meraviglia, solo una certa ripugnanza quando stringe quella che, in linea di massima, dovrebbe essere Gurù.

La pietra lunare - VIII

A tutti è certo avvenuto di condurre una donna lungamente desiderata in una locanda di campagna, mettiamo sui laghi. La stanzetta dove è apprestata la colazione odora di spigonardo ed è piena di luce; servito in tavola l’oste si ritira discretamente e l’audace amante resta solo colla sua donna. Questa allora, visto che non c’è più nulla da fare né contro di lui né contro se stessa e che è caduta nel tranello, d’altronde preveduto e tollerato, con un sorriso amaro e un gesto brusco imprende da se medesima a spogliarsi.

Non altrimenti “se così dev’essere sia cosi” parve dire Gurù mentre si sfilava la veste dal capo poi gli altri indumenti dalle gambe, donde uscì, pestandoli alquanto, come Venere dalla spuma. Paragone involontario per il giovane, data la tragica contingenza, e dunque tanto più calzante: della dea la fanciulla aveva la stessa linea slanciata, lo stesso seno sparto e così via. Ora sì che a Giovancarlo prese a girare il capo! Quei nuovi elementi, desiderio ammirazione, non sembravano punto contrastare allo sgomento e tutti insieme logicamente si fondevano a dargli una sorta di vertigine. Gli è anche che lui, si può dire, non l’aveva mai vista cosi, dati certi curiosi pudori di lei. Egli si protese ancora più, in silenzio; la pioggia e il vento duravano violenti, sulla scena s’al­ternavano i raggi lividi della luna e una tetra penombra.

La capra dava segni d’inquietudine guardando la fanciulla di sbieco. Ella si piegò, allungò le mani e prese ad accarezzarla sulla testa fissandola intensamente, come quando si cerca d’ammansare un feroce animale; quindi l’afferrò bruscamente per le due orecchie e voleva costringerla a guardarla di fronte. La capra, che un momento prima pareva dovesse cedere alla suggestione di quella carezza, stornava ora la testa con moto convulso; la fanciulla le artigliava con violenza sempre maggiore le orecchie e lentamente sforzava la sua riluttanza. Finché pervenne a volgere del tutto il capo dell’animale verso il suo viso; quello allora senza più lottare rimase appuntato e affascinato a guardarla negli occhi. Il cui sguardo brillava d’una forza e d’una profondità disumana. La fanciulla si chinò ancora di più, accostò il suo volto al muso della capra fissandola sempre più davvicino. La capra mugolando debolmente tentò di svincolarsi in un supremo convulso - e s’afflosciò impotente; gli occhi della fanciulla lucevano sinistri con riflessi d’una freddezza lunare, le sue braccia nude rilevavano l’estrema tensione dei tendini. Poi ella rovesciò l’animale, sollevandolo prima un poco e quindi abbattendolo al suolo sul fianco; fra l’erba la poca terra e il pietrisco bagnato la capra e la donna si rotolarono avvinte.

La donna divaricava le zampe della capra per meglio aderire al suo corpo e le abbrancava strettamente il collo e i fianchi; i seni piccoli e duri si schiacciavano conto il pelliccione ferino. La capra si lagnava, anche la donna prese a lagnarsi a sospirare e mugolare, ad ansare convulsamente come per voluttà; le loro membra i loro organi entravano in una comunione sempre più serrata. Una nebbiolina lunare avvolse le due forme, che pareva alitare dalle bocche perdutamente affrontate, dagli occhi che si fissavano con divorante intensità.

Le gambe affusolate della fanciulla (Giovancarlo se ne accorse all’improvviso con un tuffo), le sue natiche vellutate s’andavano coprendo d’una peluria bruna, mentre le cosce ferine s’inargentavano e il pelo se ne diradava insensibilmente. Scoppiarono due fulmini rincorrendosi e doppiando di vigore, sopravvenne un attimo di sospensione; lentò la pioggia, sì diffuse il madore soffocante di quando il cielo è ancora gravido, un largo squarcio si fece fra i nembi donde il beffardo volto della luna, molto in alto, poté affacciarsi più a lungo. I lagni gli ansiti delle due forme aggrovigliate raggiunsero un parossismo di violenza; il vapore lunare parve spumeggiare attorno a loro, da loro. La luna si nascose, contro la sua faccia s’accumularono nuvole e nuvole di pece, vi fu un istante d’oscurità completa. Giovancarlo non distinse più nulla. E Gurù sorse dal groviglio ormai colle sue gambe di capra; a pie’ della roccia una forma mostruosa restò distesa sul fianco, pesante e immobile, con lunghe bianche gambe di donna e torso bestiale. Passando vicino al giovane se ne rivelarono all’improvviso gli occhi bene aperti nell’ombra, fissi dal fango su di loro: quegli occhi erano umani! In compenso quelli di Gurù avevano acquistata una certa luce selvaggia.

La fanciulla sospirò mormorando qualche parola inintelleggibile. Tutto infatti era in lei come quando Giovancarlo l’aveva vista (o aveva immaginato di vederla) la prima volta, l’espressione del volto, la voce. Solo, il giovane poteva ora agevolmente rispondere a una delle domande che l’avevano allora tormentato: si poteva, ora, vedere assai bene dove cessasse la natura umana e dove la caprina cominciasse, sul corpo snello di lei. S’attaccava, il pelo bestiale, un po’ sotto l’incavatura dei fianchi (sicché il delicato ombelico rimaneva scoperto) come, diremo, lo zendado d’una danzatrice orientale, o piuttosto il velluto d’una occidentale; di dietro restava scoperto il sommo delle natiche sotto alle due fossette, e il principio del fesso, simili a un colmo seno chiuso a metà nel giro d’una scollatura serrata. Non v’era infatti alcuna soluzione in quel connubio, né alcuna cosa ne turbava l’armonia intrinseca, a differenza di quanto avveniva per la forma distesa, cui le gambe femminili non s’addicevano; esse apparivano là un’enorme escrescenza, da qualche orribile morbo, su un corpo mutilo, mentre le sue zampe di capra la fanciulla sembrava averle sempre avute. Di più, pareva anzi a Giovancarlo di scoprire che un corpo femminile in generale potesse indifferentemente e logicamente conchiudersi con appendici caprine o femminili; altrimenti detto che quel corpo dovesse esser così. E ciò, questo intervento nelle cose supreme, per entro la nascita stessa della forma, gli rendeva più acre e sgomentevole il portento; insomma il giovane era specialmente spaventato dal fatto che tutto gli apparisse così naturale, nondimeno era portato a chiedersi se Gurù, in quel momento fosse in definitiva una capra o una fanciulla.

La linea d’attacco delle due nature non presentava niente di particolare; se mai il vello era sull’orlo appena un poco rilevato e staccato, quasi la parte donnesca di quel corpo fosse una bianca midolla di frutto a metà sgusciata da un mallo velloso. Forse questa era soltanto un’impressione, per qualche peluzzo rivolto verso l’alto, giacché quasi tutto il giro era anzi ravviato all’ingiù e non turbava affatto, in sostanza, la linea delle anche; quel vello, però, aveva qualcosa della rigida consistenza che doveva avere al scorza degli alberi sul corpo delle driadi. Per riassumere con un’immagine comprensiva e aperta a tutti, la fanciulla portava le sue appendici caprine come le sirene la loro coda; non ci si rimette di coscienza con questa immagine, né si nuoce alla precisione giacché non si dà chi, volendo, non abbia visto una sirena.

Ella sorrise con quel tanto di mestizia che le permetteva la sua nuova espres­sione quasi volesse dire: ecco vedi, qual era il nocciol di Gurù. O meglio così parve al giovane; in realtà quel sorriso (invero alquanto sinistro) non implica­va per nulla la memoria dell’altro stato. Infatti, senza punto smetterlo, la fanciulla s’avanzava verso Giovancarlo, fissandolo serratamente e colla palese intenzione d’abbracciarlo e abbandonarsi ad amorosi trasporti. Il giovane nel frattempo era venuto pensando: “ma che diamine mi passa per la testa! come, capra o fanciulla? ma se parla! eppoi tutto il resto! No, no, non è forse questa Gurù, la mia Gurù?” Chi poi volesse meravigliarsi delle sue deboli argomentazioni, come del fatto stesso che si ponesse tanto liberamente problemi consimili in tali frangenti, sarà bene rammentargli subito che da questo punto il giovane restò perduto tutto dietro certe apparenze, cambiando spesso obbietto alla propria attenzione, preoccupato di minute questioni come se le più gravi non fossero fatto suo. “Sì, questa è la mia Guru” aveva dunque concluso. Tuttavia quando Gurù gli si accostò come s’è visto, fu preso da una grande ripugnanza assai ingiustificata, e non sapeva come fare a pararsi dalle sue effusioni.

In quella che lottava debolmente una voce forte suonò improvvisa a poca distanza, salvandolo In buon punto. Non pioveva più, ma il cielo era quasi tutto coperto. -

«Olà Gurù!» esclamò la voce. Chi mai poteva essere in quella gran solitudine? Ma Gurù si staccò rapida dal giovane:

«Bernardo» disse senza mostrar meraviglia.

«Sempre alle mie calcagna» aggiunse borbottando.

Il nuovo venuto era un giovane dal viso adusto ed energico, quasi lucente come quello dei santi, e dagli occhi scintillanti. In tutto e per tutto andava acconciato come quegli uomini della montagna che, il giorno della processione, avevano colpito l’immaginazione di Giovancarlo; come loro portava lunghi cosciali di pelo di capra, la camicia di fustagno senza giacca, cerchi di metallo alle orecchie al modo zingaresco, e calzature locali, consistenti in una pianta di suola rovesciata attorno al piede e tenuta su da corregge attorte a spirali e avvolte attorno al polpaccio, con punte aguzze rivolte verso l’alto, nonché un poco in dentro, alla foggia ottomana. Dal fianco sui glutei gli pendeva una grossa roncola. Questo personaggio era inoltre fornito di una corta accetta, appesa per il ferro a uno dei suoi avambracci; facendola saltare come per gioco egli se ne veniva indolentemente verso Giovancarlo, il quale d’istinto aveva arretrato di qualche passo. Ma certo, a chi conosceva il tipo, sotto quell’aria indifferente doveva apparire accumulata la pìu sorda minaccia, giacché la fanciulla gridò a un tratto:

«Ma che vuoi fare! ma che credi! quello è un solare.»

«Che solare, come solare?» chiese poco convinto Bernardo fermandosi. «Insomma l’ho portato con me per spaventarlo e per divertirci.»

Bernardo bofonchiò qualcosa abbassando la testa. Ma non ebbe il tempo di decidere se le parole della fanciulla dovessero esser prese per moneta sonante o no, giacché uno scalpiccio si fece udire a poca distanza fra la mota e il pietrisco, smorzato a tratti dall’erba bagnata, annunciando l’arrivo di nuovi personaggi. Tre figuri inatti, in ogni cosa simili al primo per l’acconciatura, s’avanzarono verso di loro e si fermarono tutti insieme a pochi passi; di taglia alta e vigorosa (come del resto il giovane Bernardo), due parevano d’età matura, e c’era anche un vecchietto un po’ più piccino, però sempre rubesto. Il loro atteggiamento non era di minaccia, ma piuttosto di meraviglia.

«E gli altri?» chiese Gurù. Uno degli uomini fece un gesto doppio come a dire: qua e là per la montagna.

«Giovancarlo!» disse allora la fanciulla con solennità «e tu fatti avanti; questi è Bernardo di Spenna, maestro di rapine e di cacce, te ne ho già parlato. E questi Sinforo il Rosso, che un guardiacaccia sminuzzò. Ed ecco Antonio lo Sportaro, così detto perché raccolse in una piccola sporta i resti mortali di un suo nemico (“Alfonso il Botto” interloquì l’uomo precisando). Ma le loro imprese non sono tutte qui. Gli altri sono per la montagna. Il vecchio è Vincenzo di Squarcia…»

Ella li presentava come fossero stati suoi cani, resisi famosi per gesta venato­rie; come del resto aveva presentato la gente del paese, e le erbe. Essi appro­varono con gravi cenni del capo. Nel giovane quei nomi suscitavano vaghi ricordi: Sinforo il Rosso, Bernardo di Spenna... i briganti. Ma forse no, confon­deva...

«Vincenzo di Squarcia» non trovò nulla di meglio, nella sua confusione, che in­terrompere «Vincenzo di Squarcia... o non è quello che prese il mio bisnonno verso il Ponte di Freddo e chiese per il suo riscatto un prezzo a quei tempi favoloso...?»

«Un momento, secondo chi è il tuo bisnonno...» Giovancarlo disse il suo nome.

«Ma sicuro, figliolo, sicuro!» riprese allora il vecchio, bonario, parendo illuminarsi a quel ricordo. «Devi essere un bravo ragazzo tu, a ricordarti così della gloria passata di un povero vecchio! Sicuro!» Egli si sedé su una pietra e trasse dal seno della camicia una lunga pipa, disponendosi a rievocare quelle gesta. «Mandai il suo orecchio a casa sua, alla casa vostra laggiù e, sai, dovettero vendere l’oro, i gioielli, l’arcolaio d’argento per rimediare in pochi giorni una somma tanto forte... Eh, la casata n’ebbe un gran colpo! Mah, bei tempi!» sospirò. «Persino l’arcolaio e il fuso d’argento!» concluse ridacchiando con soddisfazione. Quindi riprese lentamente:

«Sai come fu? Era un uomo coraggioso lui, e se ne veniva verso il valico per il grande sentiero (era diretto a G.) solo in compagnia del suo guardiano, del suo uomo morto, un certo Napoleone, che forse vedrai quassù, e che ancora ci serba rancore, il pazzo…»

«Napoleone? ma sì, ma sì, l’ho sentito rammentare...»

«Ebbè, giunti verso lo Scinto, dove il sentiero s’internava fra i boschi folti, un fischio acuto, un colpo di fucile e Napoleone gli cadde stecchito due passi davanti. Noi eravamo nascosti nel bosco, poi uscimmo e...»

«Evvia, zio Cenzo» interruppe Sinforo il Rosso «non cominciamo ora coi ricordi…»

«Ma però» volle ancora dire il vecchio «Quel Napoleone era un uomo, anzi è! Che tempi!…»

«Giusto voi» riprese allora Giovancarlo con una certa violenza «voi Sinforo il Rosso, non sareste per caso quello che una notte penetraste addirittura nel palazzo giù, approfittando della dabbenaggine d’un garzone il quale aprì prima d’aver spiato dalle finestre...?»

«È appunto così, ma c’erano altri con me» rispose Sinforo il Rosso con frettolosa modestia.

«...E cercavate la mia trisavola, Colomba Madeccia, ma non vi venne fatta, perché essa, passando su…»

«Passando su...?» L’uomo s’era tatto attentissimo e con una specie di fremito sollecitava minaccioso il seguito.

«...Passando su una palanca da tetto a tetto» proseguì confuso il giovane «raggiunse la vicina casa d’una fittavola la quale...»

«La quale...?»

«Ma insomma se il seguito lo sapete meglio di me! Stava facendo il pane davanti alla madia.»

«Non so nulla!» tuonò Sinforo il Rosso «cioè questo lo so perché corsi subito dalla fittavola, lo immaginavo. Ma alle corte prosegui!»

«La nascose appunto dietro il coperchio sollevato della madia» finì il giovane assai turbato.

«Il coperchio... la madia... per l’anima di...!» proruppe il bandito battendosi la fronte. «È l’unico posto dove non guardammo! E quella fittavola colla sua aria innocente... Ma la ritroverò, oh se la ritroverò! Furono almeno cinquemila ducati perduti!»

«Ma se c’erano anche i piccini nel nascondiglio in cantina, e il vecchio infermo!» riprese Giovancarlo in vaga aria di sfida.

«Questo poi no, nossignore, ci guardai...»

«Dove! In quello in basso lo credo, ma dico il nascondiglio alto sulla parete; da dentro non si poteva chiudere, dunque uno doveva restar fuori per forza, ecco perché la mia trisavola fu costretta a fuggire...»

«Anche questa?! Oh per la morte di Dio» esclamò furibondo e mortificato Sinforo il Rosso.

«Ma insomma che credevate che in casa ci fosse solo lei? Bei banditi eravate in fede mia!»

«Basta basta» s’intromise a questo punto l’impaziente Bernardo. «Non è questo il momento. E piuttosto che cosa facciamo qui che non andiamo?»

Gurù era sembrata fiera dell’audacia mostrata da Giovancarlo nella discussione. «Smettetela» disse appoggiando Bernardo. «Piuttosto sappiate, se ci tenete» aggiunse rivolta ai quattro uomini «che questo è Giovancarlo Così e Così, un solare.» Gli uomini lo guardarono con curiosità senza capire.

S’avviarono; il giovane sentiva bene che avrebbe dovuto fare qualcosa contro i due offensori della sua famiglia, ma non ne aveva assolutamente alcuna voglia, e seguiva la compagnia con poca coscienza di sé e della propria condizione. Il cielo s’era quasi tutto schiarito, ma tirava ancora un vento umido. Eppoi a Giovancarlo in quel momento altro premeva; restato un tantino indietro colla fanciulla. «Ah è così» le mormorò «m’hai portato con te per spaventarmi e divertirvi alle mie spalle? Ti prevengo che hai fatto male i tuoi conti.»

«Sciocco» mormorò in risposta la fanciulla «è stato per salvarti», e gli strinse furtivamente una mano. Ma dove andavano, poi?

 

Arriva Bernardo, con altri due tipi strani amici di Gurù. Lei spiega perché ha portato Giovancarlo, un “solare”, per divertirsi a spaventarlo. Presentazioni:

Bernardo di Spenna, Sinforo il Rosso, Antonio lo Sportaro. C’è anche Vincenzo di Squarcia. Vecchi briganti, diventati ora, si pensa, fantasmi. Hanno ammazzato o maltrattato certi antenati di Giovancarlo, che, dal canto suo, si arrabbia con Gurù. Ma no, ribatte la ragazza, ho detto così per salvarti, non per prenderti In giro.

Da una capanna scendono tutti sottoterra, dentro un crepaccio profondo. Mentre gli altri sembrano vederci benissimo, il luogo per Giovancarlo è buio, per quanto egli si renda bene conto di quanto succede. Si apprende che di gurù ce ne sono tante, maschi e femmine, e che però Gurù è la più gurù di tutti. Sono degli animali mannari, insomma. Gurù va in montagna una volta al mese (con la luna piena, forse). Giovancarlo comincia a vederci, è in una specie di spelonca da briganti. Gurù, mezzo coperta di una pelle, sembra la regina della festa. Gelosia reciproca fra Giovancarlo e Bernardo.

Tema della notte è una sfida con un certo Napoleone, antico famiglio dei parenti di Giovancarlo, un tempo fiero avversario dei banditi. Comincia la battaglia:

Napoleone resiste ma perde. La festa riprende. Si discute: che fare di Napoleone? Giovancarlo cerca di difenderlo, senza risultato, perché Vincenzo di Squarcia lo scanna e poi lo decapita. Festa, ancora, indovinelli, e gelosia, e lotta fra Giovancarlo e Bernardo.

Stanchezza, ma si sentono ululati: sono, pare, i lupi mannari. Arrivano dalle altre gurù. Una ha la pietra della luna. È preziosa: ma le gurù di montagna non sono raffinate. Chissà se Gurù sta baciando Bernardo?

Giovancarlo al addormenta. Quando si sveglia ha sensazioni acute e persistenti.

C’è solo Gurù con lui; gli altri, che si vedono, stanno sopra il crepaccio. Tre donne guardano la luna, spaventose: le Madri. Chiunque le guardi, si congela; anche Giovancarlo, ma poi si riscalda, mentre ha strane visioni.

Tramonta la luna; egli e Gurù rimangono soli, la ragazza canta una sua nenia. Ci sono strani fenomeni celesti: cinque lune appaiono in cielo, infine, Giovancarlo dorme per davvero. Quando si sveglia, non c’è più Gurù né nessun altro. Solo Châli, la cagna di Giovancarlo. Chissà come, arrivata lassù. Dopo aver incontrato un pastore e una pastora, il giovane arriva in paese, giusto per mezzogiorno.

Accompagnato dalla luna, dopo qualche settimana, Giovancarlo torna in città.

 

Il romanzo ha l’andamento dell’inchiesta, del viaggio dell’eroe dentro l’ignoto. In questo è apparentabile almeno in parte al Furioso. Ma ha un suo tempo interno, che equivale a quello di una lunazione: comincia con la luna piena, attraversa una fase di oscurità, che richiama il novilunio, ritorna alla piena luminosità del plenilunio.

Gurù è una lunare: proprio come Artemide/Selene rifiuta l’idea della riproduzione. Giovancarlo un solare. Sotto a questa constatazione sta la tesi che esistano due mondi paralleli, quello sotto il segno dei sole, quello sotto la luna, che sono estranei, In linea di massima, l’uno all’altro. Solo in certi momenti vi può essere un “passaggio”, un raccordo tra i due. Però il solare avrà sempre qualcosa di meno, rispetto al lunare: per esempio, sarà incapace di vedere al buio. Inoltre, il lunare, legato alla notte/morte, può impunemente attraversare il confine fra il mondo dei vivi e quello dei defunti.

La luna è legata ai fantasmi; l’astro stesso, bianco com’è, appare “spettrale”. È questo un ulteriore legame fra i due mondi; se gli spettri ci appaiono tramite il lucore lunare, allora la luna mette in contatto vivi e morti, presiede alla discesa agli Inferi.

La luna è legata anche al mondo infero: ciò si sapeva già in antico, tanto che ne era nato il mito di Ecate/Selene; dunque, la salita al satellite è equivalente alla discesa agli Inferi; immergersi in essi conduce, paradossalmente, alle altezze celesti. Il tutto coincide con tutto, gli opposti si toccano. È una storia che si può vedere nei classici: in Virgilio e nel suo grande imitatore Dante.

Le tre Madri che appaiono verso il finale sembrano essere legate alle Norne, divinità del destino nel pantheon nordico: erano tre: Urdr, che rappresentava il passato, Verdandi, Il presente, e Skuld, il futuro. Vivevano su Yggdrasil, l’albero cosmico. Esse decidevano il destino di uomini e dèi al di qua di ogni interesse. Determinavano alla nascita forza intelligenza e fortuna per ogni uomo, ne formavano il destino, così come quello di ogni clan e di ogni nazione. Sul campo di battaglia sono associate alle valchirie, che scelgono i guerrieri destinati alla morte.

È nota la passione sfrenata e divorante di Landolfi per il gioco d’azzardo, per il Caso che determina la vita: l’apertura alla possibilità per lui è la stessa cosa del riconoscersi sotto il dominio delle Norne.

Le capre, legate al maltempo, avevano per gli antichi Greci un ruolo nella profezia: Diodoro Siculo dice che, a Delfi, certe capre avevano guidato l’attenzione degli uomini a un luogo dove uscivano dalla terra dei vapori. Queste capre danzavano. Gli uomini capirono che era una teofania, un oracolo da interpretare.

Gli Orfici comparano l’anima dall’iniziato a un capretto caduto nel latte (la capra di Gurù è bianca come quella di Esmeralda in Notre-Dame de Paris) (altra coincidenza divertente: la cagna di Giovancarlo si chiama Châli; la chèvre di Esmeralda ha nome Djali...); così si nutrono i neofiti, per accedere all’immortalità di una vita divina. Le pelli dei capretti sgozzati coprivano le Baccanti durante le orge dionisiache. Lo stesso Dioniso in preda alla trance mistica, nuovo nato a una vita divina, è a volte rappresentato come capretto; Zeus bambino succhiò il latte della capra Amaltea, che fu trasformata in ninfa e poi in divinità nutritrice e in figlia del Sole (nutritore per definizione).

In tutte queste tradizioni, la capra appare come simbolo della nutrice e dell’iniziazione, sia nel senso fisico che in quello mistico. (Gurù è una figura iniziatica, che porta Giovancarlo dentro un mondo inconcepibile e misterioso). La capra è però capricciosa: ciò definisce la gratuità del dono imprevisto della divinità.  

La luna, anche nel libro di Landolfi, appare molto legata alla campagna; difatti, nella vita moderna inquinata da mille luci, la luna non si vede. Forse, il lunatico moderno, il cui modello più tipico è Pierrot, che è tipicamente cittadino, vorrebbe tornare a questo contesto naturale.  

4.2 Ermanno Cavazzoni Il poema dei lunatici

E più vicino a questo mondo dei Pierrot è il libro di Cavazzoni (emiliano, nato nel 1947, ha pubblicato Il poema dei lunatici nel 1987. Dal romanzo Federico Fellini ha tratto un film piuttosto famoso, La voce della luna, interpretato da Paolo Villaggio e Roberto Benigni).

Al centro del libro è una coppia, il protagonista/narratore Savini e il prefetto Gonella, simile a quelle dei clown, un bianco pierrot e un augusto che ne riceve imbeccate per le sue scempiaggini.

È una storia che non è neanche una storia, piuttosto divagazioni narrative raggruppate intorno ad alcune ossessioni. La prima è l’idea che, nel fondo dei pozzi, ci siano dei messaggi in bottiglia; di qui parte il viaggio del protagonista (di nuovo troviamo la logica ariostesca dell’inchiesta), che di queste bottiglie si mette alla ricerca. Lui crede in questa attività come in una sua missione, gli altri invece lo considerano alquanto fuori di testa, insensato, un incrocio fra un mendicante e un mentecatto. Gran parte del libro si regge su questa confusione, su questi equivoci.

Un nuovo motivo di interesse è sempre legato all’acqua. Riguarda Nestore, un tale che, pare, ha l’erba in casa per l’umidità, e, i realtà, soffre perché è stato mollato dall’odiosamata moglie esigente, detta «vaporiera» per via della pettinatura, a cui lui sembra preferire gli elettrodomestici. Egli ha una consapevolezza: ci sono dei mondi paralleli, per esempio dentro gli scarichi, Il problema è conoscere i loro abitanti, che hanno strane caratteristiche di certo.

Qui fa irruzione il prefetto, a riposo per palese follia ma convinto di avere dal ministro mirabolanti incarichi. Parte l’indagine sui diversi livelli, dove si trovano insetti ripetitori, popoli distrutti dalla pubblicità come gli Aztechi, dove si discute dei limiti delle carte geografiche, delle madonne, che sono tante, e non una sola come si crede comunemente: bisogna far attenzione all’importante differenza fra madonne di campagna e madonne di centro abitato, e si distinguono all’odore.

da Il poema dei lunatici   Cap. VIII Popolazioni nascoste

[...] Gli Aztechi. - diceva il prefetto - sono rimasti nella foresta centinaia di anni, e nessuno sapeva che c’erano. Così son diventati fiorenti, tanto che dove prima c’era solo acquitrino e boscaglia, hanno fatto crescere le loro città.

Prendevano una montagna e ne facevan mattoni, calce, pietre da costruzione, metalli; hanno alzato piramidi immense, templi, muraglie, case che resistessero al tempo, palazzi fastosi. E usavano l’oro e le gemme come da noi si usa la latta e i cocci di vetro. L’argento poi lo impiegavano nelle grondaie, nelle inferriate, nei catenacci; i chiodi li facevano di platino e i bottoni dei loro vestiti di agata e di ametista e se gliene avanzava li ributtavano in mezzo alla ghiaia. Quando gli spagnoli li hanno scoperti, c’è stata tanta pubblicità che le navi facevano la fila per andarli a depredare. Così loro hanno perduto tutto quello che avevano; e quelli rimasti si sono ritirati nel fitto del bosco. Hanno continuato a avere città, ma hanno dovuto cambiare lo stile dell’architettura, per non dare nell’occhio e attirare di nuovo la bramosia degli spagnoli.

Prima di tutto non tagliano gli alberi, come facevano per dare spazio alle piazze e alle strade. Ma dicono: qui ci sarebbe una piazza grandissima, ma è coperta di bosco per non farla vedere; qui c’è la via sacra, ma è camuffata dalle piante selvatiche se no ci vengono anche a saccheggiare.

E le piramidi non le fanno più liscie e squadrata, con i gradini ad angoli retti, ma sono coperte da muschio, da rampicanti, e la pietra non è lavorata in cubi regolari da costruzione, ma l’han lasciata come si trova in natura, tutta scagliosa e accidentata, altrimenti chiunque li può individuare, anche da molto distante.

Anzi, la pietra non l’hanno neanche staccata, e dicono: “questa è la roccia per fare le piramidi, la roccia migliore, ma è meglio lasciarla così, dove si trova, non levigata, se no arrivano i predatori”. E dunque per loro le montagne di marmo sono città non costruite. Ci girano attorno e dicono: “bellissimo, qui c’è un’architrave non ancora scolpita, ma sarebbe superba; qui c’è un gigantesco obelisco di tufo, ma non è ancora staccato e drizzato; e è meglio.”

“Qui c’è il palazzo imperiale”; e ammirano i picchi di roccia e le pareti intatte della montagna. “Ecco il granito della fortezza - dicono - il porfido del colonnato; i basalti, le arenarie, le tormaline per i colori delle facciate; ecco le volte magnifiche delle sale e le cornici bianche di selenite...”

Poi camminano ad esempio nel greto sassoso di un fiume e dicono che quello è

in sostanza in pavimento selciato; lo si dovrebbe solo spianare e cementare. Ma è meglio non farlo, perché correrebbero i curiosi e gli spagnoli a frotte.

Quindi gli Aztechi non sono scomparsi, ma si sono intanati.

Hanno sempre una grande paura degli spagnoli che possan tornare. E allora per mimetizzarsi non abitano più il veccbio regno, che è stato lasciato andare in rovina; ma ormai è nel regno minerale che stanno, dove le città son sotto terra, nella forma più celata possibile, cioè allo stato di roccia.

E il loro sistema edilizio è di lasciare tutto com’è, adottato dopo l’arrivo degli spagnoli.

Loro tastano i marmi, ne riconoscono le qualità, la resistenza, la luce che danno, e vedono la città già finita. Aggirandosi in mezzo ai dirupi ne discutono, si dicono l’uno con l’altro i progetti più fantasiosi, e li variano continuamente, a seconda dell’umore, dell’umidità o del calore della giornata. E anche se non arrivano a farlo, per la prudenza che ormai hanno istintiva, edificano torri, quartieri, grandi acquedotti, baluardi, ponti, bagni. pubblici, osservatori celesti, e poi secondo l’estro di ognuno, statue, bassorilievi, fontane.

In un certo senso la loro civiltà è più fiorente che mai, perché la materia, dicono, a loro non può più resistere. Prendono un sasso e guardandolo per delle ore in tutte le venature lo cesellano come un merletto, ne fanno un gioiello finissimo, una capigliatura svolazzante di ninfa in cui si distingue ogni nastro, ogni capello. Poi lo buttano via questo sasso, e ne cercano un altro, per vedere le bellezze che ci sarebbero potute essere dentro.

E non solo: dalle sorgenti di roccia guardano sgorgare lo stagno e l’alluminio, e affiorate le vene rosse di rame. Possiedono immensi tesori sepolti nelle mi­niere: oro nascosto nelle piriti; smeraldi e acquemarine incrostati dentro al berillo; e giacimenti di quarzo, rubino, turchesi.

Ma non se li mettono addosso; loro sono vestiti da poveri, indiani di cotone leggero, e se ne stanno tra i monti e le sierre. Così queste loro nuove città nessuno può visitarle, anche se son sotto gli occhi di tutti; mentre le vecchie, che si vedono bene, sono rimaste deserte.

E non hanno smesso le loro scritture. Dicono anzi che dappertutto c’è scritto; che loro leggono i fogli di roccia quando si sfalda, come un libro stampato; c’è scritta la storia del passare del tempo, e le lettere sono come depositate dal corso dei fiumi, delle alluvioni, delle lave dei grandi vulcani, dai millenni di vita delle foreste, dei deserti, dei mari. Loro dicono che è la cronaca di tutto quel che succede, e che tutto c’è scritto, anche se per chi non se ne intende non sembra scrittura. Ma a loro va proprio bene così.

Dicono: “qua c’è vissuto un mollusco e c’è morto; è scritto con un disegno a spirale. Qui c’è stato un campo di felci; è detto in un sasso con una figura.”» «Ah, sono i fossili, è vero?», m’è venuto da dire.

«Si, ma gli Aztechi dicono che è la terra che scrive così, e ormai è anche il loro alfabeto.»

E il risultato dell’avidità degli spagnoli, voleva in conclusione dire il prefetto, e della loro invadenza, è stato quello di renderli impercettibili,’ cosicché ormai è come se non ci fossero più, è come averli perduti.

 

Il prefetto è perseguitato da certi vecchi, sui quali però trionfa. Per rendere migliori le carte geografiche, occorre farle trasparenti, in modo da poterle disporre una sopra l’altra. La ricerca diventa difficile, si dorme all’aperto, si vive alla giornata. Arrivano a una pizzeria, con una pizzaiola che turba il protagonista.

Il piatto forte di questa parte è la storia segreta di Garibaldi, che uno studente assicura essere stato tutto diverso, uno svampito di prima forza, che ha vinto una guerra combattuta per caso solo perché ha trovato come nemico un re con la passione per la matematica, che a forza di calcoli precisi del tutto trascurati dalle sue truppe, prese da occupazioni più umane, non è riuscito a far niente.

La pizzaiola nottetempo appare a Savini come una specie di gallo, ma è chiaro che lui ne è innamorato, quando la vede alla finestra di notte. Il prefetto tenta di dissuaderlo, Insieme con un tipo strano (ce ne fossero di normali nel libro!), il barbiere Gaudenzi. Scoppia una rissa fra il prefetto e uno strano zoppetto; arriva la polizia. Il prefetto, trasfigurato, sale al cielo: ormai vede tutto, ma il Savini è stato abbandonato.

(Si potrebbe qui ricordare un antecedente di Cavazzoni: temi del genere si trovano in un vecchio romanzo di Palazzeschi, Il codice di Perelà).

Ultima storia che viene a sapere il Savini è quella di Giuda Iscariota, che tradì Gesù per fedeltà suprema; in realtà pare che il vero tradito sia stato lui, che ha creduto nel suo maestro fino in fondo: va a finire che quello risorge, mentre il povero ex discepolo s’impicca: lo racconta uno che ha zoccoli di capra...

Si discorre infine del tempo: un tale sostiene che dura all’infinito. Savini ormai non capisce più niente, nemmeno chi egli sia in realtà. L’hanno rinchiuso, ma dev’essere passato un mese, perché c’è la luna come all’inizio.

 

Non c’è solo questo nel libro, che è molto ricco di storie parallele, di personaggi più o meno stravaganti, di paesaggi normali e allucinati. Vi è una ricchezza immaginativa quale è raramente dato trovare, inserita in una grande tradizione padana, che fa pensare a poeti vetusti come Giacomino da Verona o Bonvesin de la Riva , oppure a grandi come Teofilo Folengo o il già citato Ariosto.

Un tema ricorrente è la realtà virtuale: le rappresentazioni mentali hanno la stessa forza, lo stesso valore dell’esperienza sensoriale. Nascono così mondi paralleli, quelli degli infiniti personaggi che abitano il mondo lunatico del libro.

Le carte geografiche rappresentano bene questo mondo: si sovrappongono alla realtà delle rappresentazioni; ma c’è sempre un distacco, perché poi le carte hanno bisogno di un tempo per essere redatte, il che implica che, quando le consulto pensando di avere una mappa realistica, sto guardando un tempo passato. Niente di più facile che cadere in questa fallacia della rappresentazione, che porta lontano. Il meccanismo è pressapoco questo: mi creo una rappresentazione, uno schema, per poter maneggiare una serie di dati della mia esperienza; assumo questa rappresentazione come autonoma dall’osservazione che l’ha generata; mi aspetto che la realtà sia sempre adeguata ad essa.

È un genere di contraddizione che si può ritrovare in molti campi del sapere, e caratterizza interi periodi storici. Per fare un esempio, prendiamo la concezione cosmologica aristotelico-tolemaica: il sole gira intorno alla terra. Non è questione di sapere se la teoria corrisponda o meno alla verità, ma di capire che si tratta appunto di una teoria scientifica, di uno strumento per poter prevedere quale sarà la posizione degli astri dopo un certo tempo. Per secoli questa teoria si è sovrapposta alla realtà, divenendo un paradigma ritenuto necessario dell’organizzazione del mondo; si è anche pensato che l’universo fosse isomorfo in tutte le sue varie manifestazioni se dunque c’era un centro fisico doveva essercene uno religioso, se c’era un alto e un basso fisico dovevano essercene altrettanti di morali, e via cosi, nelle concezioni teocosmologiche medievali, il cui più alto rappresentante è Dante, almeno come efficacia di realizzazione artistica. Non c’è molto distanza fra queste pretese di spiegare il mondo e quelle, farneticanti ma solo finché non si entra nel loro sistema, del prefetto, di Savini e dei loro amici.

Parallela a questa idea è quella che sì potrebbe chiamare «teoria del complotto». La sua forma normale è che le cose del mondo non sono mai quello che appaiono, per cui se, per esempio, la squadra di calcio del cuore viene sconfitta per due volte di fila non è perché i giocatori avevano poca voglia di correre e gli avversarie erano più forti, ma perché gli arbitri, d’accordo con la televisione e i servizi segreti centroafricani, hanno propinato, tramite una modella sudamericana, dosi quoti­diane di una droga che non lascia traccia al centravanti. L’uso costante che si fa di queste costruzioni mentali è di spiegare il male del mondo (o, che è lo stesso, il male che mi colpisce) attraverso il complotto: lo studente Cicillo Ciucci non va male a scuola perché è un po’ asino, ma perché il tale professore frequenta quel bar di Padova dove il maggiore Spadini, che comandava la squadriglia di cavalleggeri dove militava Cencio, fratello di Cicillo che non voleva mai andare in licenza, lo ricatta, per non svelare le sue vocazioni al poker notturno. In quest’ultima versione, la teoria del complotto ha prodotto danni incalcolabili; i protocolli dei Savi di Sion, il caso Dreyfus, i Rosa+Croce, i complotti satanisti, i grandi vecchi di cui è apparsa piena la nostra storia recente, ma se ne potrebbero citare altri, sono diventati credo politico anche di interi stati, e hanno portato a persecuzioni e massacri. Anche se si trattava soltanto di fantasie, di “spiegazioni” consolatorie. I lunatici sono simpatici nei romanzi, ma se niente niente gli dài spago e gli fai prendere il potere, la cosa è pericolosa.

C’è un altro aspetto interessante e sempre relativo alla realtà virtuale: la critica della concezione idealistica secondo cui l’opera d’arte è tutta nell’ispirazione (qualcosa del genere troviamo per es. in Benedetto Croce). Cavazzoni affronta il tema nell’episodio degli Aztechi, che non avevano bisogno più di costruire le loro città, perché bastava progettarle, pensarle come ovvio sviluppo della natura. Si tratta di qualcosa di lunatico, di una sostituzione cioè dell’immaginazione alla realtà.

Ipotesi di realtà virtuale è pure l’idea che ci possano essere nell’uomo facoltà paranormali, sviluppabili con un training apposito, che possano dare un qualche straordinario potere. Si confrontino la storia del prefetto che sa difendersi anche quando dorme, perché dorme a metà, e tutte le illazioni collegate, sul maestro giapponese in grado di reagire sempre e in ogni situazione. Nella pub­blicità si trovano un sacco di cose del genere: un po’ promesse come risultato di un allenamento, un po’ che dovrebbero derivare dall’acquisto di un prodotto. Ne faceva fede un profumo che avrebbe messo l’uomo in grado di non dover chiedere, mai.

Il libro nel complesso è un atto di resistenza della ragione contro tutti questi abusi, si potrebbe dire della credulità popolare se non ci cadessero anche fior di intellettuali. E insieme è un atto di pietà per coloro che sono, umanamente, lunatici: perché l’uomo è debole e non può fare a meno di darsi una qualche spiegazione. Perché i più lunatici di tutti sono gli scrittori, che non perdono mai l’occasione per dare spiegazioni complicate a cose semplici. Per non dire di coloro che si affannano a commentarli.