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Pleniluni e quarti di luna
QUARTI
DI LUNA
Divagazioni
dal fondo del pozzo
2.Viaggi
sulla luna
2.2
Ludovico Ariosto
2.3
Galileo Galilei
2.4 Savinien Cyrano de Bergerac
2.6
Giovanni Pascoli
Potremmo
partire con il nostro viaggio da Lucrezio: egli e convinto che
...è
certo
che altrove
ci sono altre terre e altri mari,
altre forme
ci sono di animali ed uomini.
(De rerum natura, Il, 1075-77, trad. Cetrangolo)
Un
inizio più pertinente è però Luciano di Samosata, che ne tratta nella Storia vera, che è vera storia, perché
l’autore si propone di raccontare un monte di fandonie, per passatempo e per
restare nell’abitudine degli scrittori: cosa fanno costoro se non mentire?
Come
è noto, il libretto è il racconto di un viaggio immaginario, su una Terra
antica, piatta, i cui confini, oltre l’Oceano, si uniscono al cielo. Passate
le colonne d’Ercole, il protagonista coi suoi compagni incontra stravaganti
avventure. Ci stanno fiumi che portano vino di Chio, donne-vite, coi grappoli
appesi alle mani. Una tempesta solleva la nave per giorni e giorni, la porta
sulla Luna. È una terra abitata come
Infine
la pace. Endimione vorrebbe che gli ospiti stessero con lui, anzi, offre in
moglie al capo dei greci suo figlio, perché nella Luna non ci sono donne. I
figli lassù nascono in modo strano, dai polpacci; poi però i neonati devono
stare a lungo nel ventre cavo dei padri. Altre creature nascono da alberi
cresciuti da un seme particolare. Ancora strane usanze: non si muore ma si
diventa aria; i lunari non mangiano i cibi, ma il loro fumo. I loro occhi sono
asportabili e intercambiabiii.
Di
nuovo sull’oceano, dopo percorse altre terre, i viaggiatori sono inghiottiti
con la nave e tutto da una balena; dentro di essa incontrano due greci che li
fanno fuggire. Soggiorno all’isola dei Beati, dove stanno i grandi del
passato, e poi nell’isola dei Sogni. Sprofondano in
un abisso nell’Oceano, e si conclude il racconto.
Primo
luogo comune:
Secondo
luogo comune: gli abitanti propri della luna sono strani, non coincidono con
quelli delle nostre esperienze. Sono ciò che sulla terra non c’è.
Tentativo
di porre un problema dal punto di vista lunatico: se non fosse cosi, come
potrebbe essere?
Un
aspetto particolare di Luciano è la rappresentazione ironica dell’idealismo:
gia
dalla premessa in cui si spiega che l’investigazione sui mondi metaterrestri
è fandonia, per passare all’estromissione della vita sessuale, in nome della
castità di Artemide-Selene; in effetti, è proprio lei a mancare dall’astro!
Lo
scrittore di Samosata ci diede anche un Icaromenippo,
che ebbe molti imitatori, dove il filosofo cinico Menippo, a imitazione del
volante figlio di Dedalo, visita diversi mondi più o meno abitati.
2.2 Ludovico
Ariosto
Ludovico
Ariosto propone una visione diversa da quella di Luciano: il mondo della luna
non è radicalmente diverso da quello della terra, ma ad esso omologo. Il greco,
nonostante l’atteggiamento scettico, ha delle prospettive idealistiche: è
possibile che, altrove, ci sia qualcosa che da noi non c’è, che non cada
nella nostra esperienza; il ferrarese, scettico per davvero, ritiene che non ci
possa essere niente di diverso dal mondo che conosciamo. Tutt’al più qualcosa
di speculare, di complementare, ma proprio per questo in qualche modo uguale,
come un’immagine riflessa che replica il suo originale: nella luna ci sta ciò
che sulla terra è stato dimenticato, perduto, che doveva essere e non è.
Troviamo
qui un’altro modo di intendere il termine «lunatico»: lo è colui che sul
pianeta di Selene ha lasciato qualcosa, ed è dunque irresistibilmente attratto
da essa, ché sa dove trovare ciò che di suo ha perduto.
Delle
cose che si perdono, due stanno particolarmente a cuore al poeta: la ragione,
trattata nel XXXIV, e il tempo, nel successivo. Ambedue i temi hanno ascendenza
molto antica (anche se, come è stato recentemente posto in luce, il tema della
luna come luogo delle cose perdute venne tratto dalle Intercoenales di Leon Battista Alberti); se ne possono trovare per
esempio tracce in Seneca.
Notiamo
ancora che il mondo di Ariosto è, sia pure in maniera molto ironica, cristiano:
fa il verso al Dante della Commedia. Siamo,
nonostante la recente scoperta dell’America (il monte del purgatorio è
situato da qualche parte dell’Africa, oltre l’equatore, ma che l’Africa
finisse nel profondo Sud era stato già mostrato da Vasco da Gama) in un
universo tolemaico, con tutti gli apparati dei cieli, compreso quello del fuoco,
ultima materia presente nelle zone alte. Stupisce perciò che dopo riappaia un
mondo tale e quale!, non la quintessenza che doveva formare il mondo celeste.
Orlando furioso
Canto XXXIV
(ottave 70-85)
Tutta la sfera varcano del fuoco,
et indi vanno al regno de la luna.
Veggon per la più parte esser quel
loco
come un acciar che non ha macchia
alcuna;
e lo trovano uguale, o minor poco
di ciò ch’in questo globo si raguna,
in questo ultimo globo de la terra,
mettendo il mar che la circonda e
serra.
Quivi ebbe Astolfo doppia maraviglia:
che quel paese appresso era sì grande,
il quale a un picciol tondo rassimiglia
a noi che lo miriam da queste bande;
e ch’aguzzar conviengli ambe le
ciglia,
s’indi la terra e ‘l mar
ch’intorno spande
discerner vuol; che non avendo luce,
l’imagin lor poco alta si conduce.
Altri fiumi, altri laghi, altre campagne
sono là su, che non son qui tra noi;
altri piani, altre valli, altre
montagne,
c’ han le cittadi, hanno i castelli
suoi,
con case de le quai mai le più magne
non vide il paladin prima nè poi:
e vi sono ample e solitarie selve,
ove le ninfe ognor cacciano belve.
Non stette il duca a ricercare il tutto;
che là non era asceso a quello
effetto.
Da l’apostolo santo fu condutto
in un vallon fra due montagne istretto,
ove mirabilmente era ridutto
ciò che si perde o per nostro diffetto,
o per colpa di tempo o di Fortuna:
ciò che si perde qui, là si raguna.
Non pur di regni o di ricchezze parlo,
in che la ruota instabile lavora;
ma di quel ch’in poter di tòr, di
darlo
non ha Fortuna, intender voglio ancora.
Molta fama è là su, che come tarlo
il tempo al lungo andar qua giù
divora:
là su infiniti prieghi e voti stanno,
che da noi peccatori a Dio si fanno.
Le lacrime e i sospiri degli amanti,
l’inutil tempo che si perde a giuoco,
e l’ozio lungo d’uomini ignoranti,
vani disegni che non han mai loco,
i vani desidèri sono tanti,
che la più parte ingombran di quel
boco:
ciò che in somma qua giù perdesti
mai,
là su salendo ritrovar potrai.
Passando il paladin per quelle biche,
or di questo or di quel chiede alla
guida.
Vide un monte di tumide vesiche,
che dentro parea aver tumulti e grida;
e seppe ch’eran le corone antiche
e degli Assirii e de la terra lida,
e de’ Persi e de’ Greci, che già
furo
incliti, et or n’è quasi il nome
oscuro.
Ami d’oro e d’argento appresso vede
in una massa, ch’erano quei doni
che si fan con speranza di mercede
ai re, agli avari principi, ai patroni.
Vede in ghirlande ascosi lacci; e
chiede,
et ode che son tutte adulazioni.
Di cicale scoppiate imagine hanno
versi ch’in laude dei signor si
fanno.
Di nodi d’oro e di gemmati ceppi
vede c’han forma i mal seguiti amori.
V’eran d’aquile artigli; e che fur,
seppi,
l’autorità ch’ai suoi danno i
signori.
I mantici ch’intorno han pieni i
greppi,
sono i fumi dei principi e i favori
che danno un tempo ai ganimedi suoi,
che se ne van col fior degli anni poi.
Ruine di cittadi e di castella
stavan con gran tesor quivi sozzopra.
Domanda, e sa che son trattati, e
quella
congiura che si mal par che si cuopra.
Vide serpi con faccia di donzella,
di monetieri e di ladroni l’opra:
poi vide boccie rotte di più sorti,
ch’era il servir de le misere corti.
Di versate minestre una gran massa
vede, e domanda al suo dottor ch’importe.
- L’elemosina è - dice - che si
lassa
alcun, che fatta sia dopo la morte. –
Di varii fiori ad un gran monte passa
ch’ebbe già buono odore, or putia
forte.
Questo era il dono (se però dir lece)
che Constantino al buon Silvestro fece.
Vide gran copia di panie con visco,
ch’erano, o donne, le bellezze
vostre.
Lungo sarà, se tutte in verso ordisco
le cose che gli fur quivi dimostre;
che dopo mille e mille io non finisco,
e vi son tutte l’occurrenzie nostre:
sol la pazzia non v’è poca nè assai
che sta qua giù, nè se ne parte mai.
Quivi ad alcuni giorni e fatti sui,
ch’egli già avea perduti, si
converse;
che se non era interprete con lui,
non discernea le forme lor diverse.
Poi giunse a quel che par sì averlo a
nui,
che mai per esso a Dio voti non ferse;
io dico il senno: e n’era quivi un
monte,
solo assai più che l’altre cose
conte.
Era come un liquor suttile e molle,
atto a esalar, se non si tien ben
chiuso;
e si vedea raccolto in varie ampolle,
qual più, qual men capace, atte a
quell’uso.
Quella è maggior di tutte, in che del
folle
signor d’Anglante era il gran senno
infuso;
e fu da l’altre conosciuta, quando
avea scritto di fuor: «Senno
d’Orlando».
E così tutte l’altre avean scritto anco
il nome
di color di chi fu il senno.
Del suo gran parte vide il duca franco;
ma molto più maravigliar lo fenno
molti ch’egli credea che dramma manco
non dovessero averne, e quivi denno
chiara notizia che ne tenean poco;
che molta quantità n’era in quel
loco.
Altri in amar lo perde, altri in onori,
altri in cercar, scorrendo il mar,
ricchezze;
altri ne le speranze de’ signori,
altri dietro alle magiche sciocchezze;
altri in gemme, altri in opre di
pittori,
et altri in altro che più d’altro
aprezze.
Di sofisti e d’astrologhi raccolto,
e di poeti ancor ve n’era molto.
(ottave 87-92)
Prima che ‘l paladin da quella sfera
piena di luce alle più basse smonte,
menato fu da l’apostolo santo
in un palagio ov’era un fiume a
canto;
ch’ogni sua stanza avea piena di velli
di lin, di seta, di coton, di lana,
tinti in vani colori e brutti e belli.
Nel primo chiostro una femina cana
fila a un aspo traea da tutti quelli,
come veggiàn l’estate la villana
traer dai bachi le bagnate spoglie,
quando la nuova seta si raccoglie.
V’è chi, finito un vello, rimettendo
ne viene un altro, e chi ne porta
altronde:
un’altra de le filze va scegliendo
il bel dal brutto che quella confonde.
- Che lavor si fa qui, ch’io non
l’intendo? –
dice a Giovanni Astolfo; e quel
risponde:
- Le vecchie son le Parche, che con
tali
stami filano vite a voi mortali.
Quanto dura un de’ velli, tanto dura
l’umana vita, e non di più un
momento.
Qui. tien l’occhio e
per saper l’ora ch’un debba esser
spento.
Sceglier le belle fila ha l’altra
cura,
perché si tesson poi per ornamento
del paradiso; e dei più brutti stami
si fan per li dannati aspri legami. –
Di tutti i velli ch’erano già messi
in aspo, e scelti a farne altro lavoro,
erano in brevi piastre i nomi impressi,
altri di ferro, altri d’argento o
d’oro:
e poi fatti n’ avean cumuli spessi,
de’ quali, senza mai farvi ristoro,
portarne via non si vedea mai stanco
un vecchio, e ritornar sempre per anco.
Era quel vecchio sì espedito e snello,
che per correr parea che fosse nato;
e da quel monte il lembo del mantello
portava pien del nome altrui segnato.
Ove n’andava, e perché facea quello,
ne l’altro canto vi sarà narrato,
se d’averne piacer segno farete
con quella grata udinza che solete.
canto XXXV
(ottave 1-30)
Non so se vi sia a mente, io dico quello
ch’al fin dell’altro canto vi
lasciai,
vecchio di faccia, e sì di membra
snello,
che d’ogni cervio è più veloce
assai.
Degli altrui nomi egli si empia il
mantello;
scemava il monte, e non finiva mai:
et in quel fiume che Lete si noma,
scarcava, anzi perdea la ricca soma.
Dico che, come arriva in su la sponda
del fiume, quel prodigo vecchio scuote
il lembo pieno, e ne la turbida onda
tutte lascia cader l’impresse note.
Un numer senza fin se ne profonda,
ch’un minimo uso aver non se ne puote;
e di cento migliaia che l’arena
sul fondo involve, un se ne serva a
pena.
Lungo e d’intorno quel fiume volando
girano corvi et avidi avoltori,
mulacchie e vani augelli, che gridando
facean discordi strepiti e romori;
et alla preda correan tutti, quando
sparger vedean gli amplissimi tesori:
e chi nel becco, e chi ne l’ugna
torta
ne prende; ma lontan poco li porta.
Come vogliono alzar per l’aria i voli,
non han poi forza che ‘l peso
sostegna;
si che convien che Lete pur involi
de’ ricchi nomi la memoria degna.
Fra tanti augelli son duo cigni soli,
bianchi, Signor, come è la vostra
insegna,
che vengon lieti riportando in bocca
sicuramente il nome che lor tocca.
Così contra i pensieri empi e maligni
del vecchio che donar li vorria al
fiume,
alcun’ ne salvan gli augelli benigni:
tutto l’avanzo oblivion consume.
Or se ne van notando i sacri cigni,
et or per l’aria battendo le piume,
fin che presso alla ripa del fiume
empio
trovano un colle, e sopra il colle un
tempio.
All’Immortalitade il luogo è sacro,
ove una bella ninfa giù del colle
viene alla ripa del leteo lavacro,
e di bocca dei cigni i nomi tolle;
e quelli affige intorno il simulacro
ch’in mezzo il tempio una colonna
estolle:
quivi li sacra, e ne fa tal governo,
che vi si pòn veder tutti in eterno.
Chi sia quel vecchio, e perché tutti al rio
senza alcun frutto i bei nomi dispensi,
e degli augelli, e di quel luogo pio
onde la bella ninfa al fiume viensi,
aveva Astolfo di saper desio
i gran misteri e gl’incogniti sensi;
e domandò di tutte queste cose
l’uomo di Dio, che così gli rispose:
- Tu déi saper che non si muove fronda
là giù, che segno qui non se ne
faccia.
Ogni effetto convien che corrisponda
in terra e in ciel, ma con diversa
faccia.
Quel vecchio, la cui barba il petto
inonda,
veloce si che mai nulla l’impaccia,
gli effetti pari e la medesima opra
che ‘1 Tempo fa là giù, fa qui di
sopra.
Volte che son le fila in su la ruota,
là giù la vita umana arriva al fine.
La fama là, qui ne riman la nota;
ch’immortali sariano ambe e divine,
se non che qui quel da la irsuta gota
e là giù il Tempo ognior ne fa
rapine.
Questi le getta, come vedi, al rio;
e quel l’immerge ne l’eterno oblio.
E come qua su i corvi e gli avoltori
e le mulacchie e gli altri vani augelli
s’affaticano tutti per trar fuori
de l’acqua i nomi che veggion più
belli:
così là giù ruffiani, adulatori,
buffon, cinedi, accusatori, e quelli
che viveno alle corti e che vi sono
più grati assai che ‘l virtuoso e
‘l buono,
e son chiamati cortigian gentili,
perché sanno imitar l’asino e ‘l
ciacco;
de’ lor signor, tratto che n’abbia
i fili
la giusta Parca, anzi Venere e Bacco,
questi di ch’io ti dico, inerti e
vili,
nati solo ad empir di cibo il sacco,
portano in bocca qualche giorno il
nome;
poi ne l’oblio lascian cader le some.
Ma come i cigni che cantando lieti
rendeno salve le medaglie al tempio,
così gli uomini degni da’ poeti
son tolti da l’oblio, più che morte
empio.
Oh bene acconti principi e discreti,
che seguite di Cesare l’esempio,
e gli scrittor vi fate amici, donde
non avete a temer di Lete l’onde!
Son, come i cigni, anco i poeti rari,
poeti che non sian del nome indegni;
sì perché il ciel degli uomini
preclari
non pate mai che troppa copia regni,
sì per gran colpa dei signori avari
che lascian mendicare i sacri ingegni;
che le virtù premendo, et esaltando
i vizii, caccian le buone arti in
bando.
Credi che Dio questi ignoranti ha privi
de lo ‘ntelletto, e loro offusca i
lumi;
che de la poesie gli ha fatti schivi,
acciò che morte il tutto ne consumi.
Oltre che del sepolcro usciran vivi,
ancon ch’avessen tutti i rei costumi,
pur che sapesson farsi amica Cirra,
più grato odore avrian che nardo o
mirra.
Non
sì pietoso Enea, né forte Achille
fu, come è fama, né si fiero Ettorre;
e ne son stati e mille e mille e mille
che lor si puon con verità anteporre:
ma i donati palazzi e le gran ville
dei descendenti lor, gli ha fatto porre
in questi senza fin sublimi onori
da l’onorate man degli scrittori.
Non fu sì santo né benigno Augusto
come la tuba di Virgilio suona.
L’aver avuto in poesia buon gusto
la proscrizion iniqua gli perdona.
Nessun saprà se Neron fosse ingiusto,
né sua fama saria forse men buona,
avesse avuto e terra e ciel nimici,
se gli scrittor sapea tenersi amici.
Omero
Agamennon vittorioso,
e fe’ i Troian parer vili et inerti;
e che Penelopea fida al suo sposo
dai Prochi mille oltraggi avea
sofferti.
E se tu vuoi che ‘l ver non ti sia
ascoso,
tutta al contrario l’istoria converti
che i Greci rotti, e che Troia vittrice,
e che Penelopea fu meretrice.
Da l’altra parte odi che fama lascia
Elissa, ch’ebbe il cuor tanto pudico,
che riputata viene una bagascia,
solo perché Maron non le fu amico.
Non ti maravigliar ch’io n’abbia
ambascia,
e se di ciò diffusamente io dico.
Gli scrittori amo, e fo il debito mio;
ch’al vostro mondo fui scrittore
anch’io.
E sopra tutti gli altri io feci acquisto
che non mi può levar tempo nè morte:
e ben convenne al mio lodato Cristo
rendermi guidardon di sì gran sorte.
Duolmi di quei che sono al tempo
tristo,
quando la cortesia chiuso ha le porte;
che con pallido viso e macro e asciutto
la notte e ‘l dì vi picchian senza
frutto.
Si che continuando il primo detto,
sono i poeti e gli studiosi pochi;
che dove non han pasco né ricetto,
insin le fere abbandonano i lochi. –
Così dicendo, il vecchio benedetto
gli occhi infiammò, che parveno duo
fuochi;
poi vòlto al duca con un saggio riso
tornò sereno il conturbato viso.
2.3 Galileo
Galilei
In
Galilei confluiscono la rappresentazione di Luciano - il mondo lunare
radicalmente diverso - e quella di Ariosto (la luna è fatta della stessa
sostanza che la terra).
Il
nostro non crede alla presenza di città e castelli sulla luna; se ci fossero,
argomenta, non è scontata la loro coincidenza con analoghe presenze sulla
terra. Noi conosciamo solo ciò di cui abbiamo esperienza, e ciò è una parte
ridottissima di quel che può esistere nel mondo; cercare sulla luna le stesse
cose che ci sono da noi sarebbe sciocco, se consideriamo che ci basta entrare in
un bosco o in una caverna per scoprire un sacco di cose di cui non avevamo
conoscenza, figurarsi sulla luna!
Però
non per questo lassù debbono valere regole diverse da quelle di quaggiù; né
è pensabile che gli astri siano fatti di sostanze differenti da quelle terrene.
Il mondo dell’uomo viene così enormemente ampliato: con Galileo i viaggi
sulla Luna sono ormai possibili, una mera questione di tecnica.
Ormai la luna non è più solo oggetto da poeti: lo scienziato, incurante dell’aura simbolica, dispone Selene sul tavolo anatomico scoprendo che inevitabilmente ha un cuore come ogni donna, dal che si vede la più che ragionevole verità della storia di Endimione.
dal Dialogo
sopra i due massimi sistemi del mondo
[Cosa c’è
sulla Luna?]
Sagr. Io non posso senza grande
ammirazione, e dirò gran repugnanza al mio intelletto, sentir attribuir per
gran nobiltà e pertezione a i corpi naturali ed integranti dell’universo
questo esser impassibile, immutabile, inalterabile, etc., ed all’incontro
stimar grande imperfezione l’esser alterabile, generabile, mutabile, etc.:
io per me reputo
Sagr. Che nella Luna o in altro
pianeta si generino o erbe o piante o animali simili a i nostri, o vi facciano
pioggie, venti, tuoni, come intorno alla Terra, io non lo so e non lo credo, e
molto meno che ella sia abitata da uomini: ma non intendo già come tuttavolta
che non vi si generino cose simili alle nostre, si. deva di necessità
concludere che niuna alterazione vi si faccia, né vi possano essere altre cose
che si mutino, si generino e si dissolvano, non solamente diversa dalle nostre,
ma lontanissime dalla nostra immaginazione, ed in somma del tutto a noi
inescogitabili. E sì come io son sicuro che a uno nato e nutrito in una selva
immensa, tra fiere ed uccelli, e che non avesse cognizione alcuna
dell’elemento dell’acqua, mai non gli potrebbe cadere nell’immaginazione
essere in natura un altro mondo diverso dalla Terra, pieno di animali li quali
senza gambe e senza ale velocemente camminano, e non sopra la superficie
solamente, come le fiere sopra la terra, ma per entro tutta la profondità, e
non solamente camminano, ma dovunque piace loro immobilmente si fermano, cosa
che non posson fare gli uccelli per aria, e che quivi di più abitano ancora
uomini, e vi fabbricano palazzi e città, ed hanno tanta comodità nel
viaggiare, che senza niuna fatica vanno con tutta la famiglia e con la casa e
con le città intere in lontanissimi paesi sì come, dico, io son sicuro che un
tale, ancorche di perspicacissima immaginazione, non si potrebbe già mai
figurare i pesci, l’oceano, le navi, le flotte e le armate di mare; così, e
molto più, può accadere che nella Luna, per tanto intervallo remota da noi e
di materia per avventura molto diversa dalla Terra, siano sustanze e si facciano
operazioni non solamente lontane, ma del tutto fuori, d’ogni nostra
immaginazione, come quelle che non abbiano similitudine alcuna con le nostre,
e perciò del tutto inescogitabili, avvengaché quello che noi ci immaginiamo
bisogna che sia o una delle cose già vedute, o un composto di cose o di parti
delle cose altra volta vedute; ché tali sono le sfingi, le sirene, le chimere,
i centauri, etc.
Salv. Io son molte volte andato
fantasticando sopra queste cose, e finalmente mi pare di poter ritrovar bene
alcune delle cose che non sieno né possan essere nella Luna, ma non già veruna
di quelle che io creda che vi siano e possano essere, se non con una larghissima
generalità, cioè cose che l’adornino, operando e movendo e vivendo e, forse
con modo diversissimo dal nostro, veggendo ed ammirando la grandezza e bellezza
del mondo e del suo Facitore e Rettore, e con encomii continui cantando
2.4 Savinien Cyrano de Bergerac
Noto
più che altro per il dramma di Rostand che, con scarsa fedeltà alla verità
biografica, ne fa una specie di eroe romantico, Cyrano de Bergerac (1619-55) fu
un temperamento bizzarro e fantasioso, soldato attaccabrighe e duellante, quindi
letterato, in vista nell’ambiente dei libertini, soprattutto del giro di
Gassendi.
Ormai
siamo in piena epoca scientifica, non c’è più dubbio sulla possibilità teorica
di raggiungere l’astro. Certo, progettare macchine adatte è un altro paio di
maniche; e le soluzione proposte sono ampiamente lunatiche, con una decisa
contaminazione fra ipotesi «scientificamente» ragionevoli (motori a polvere da
sparo) e farfallerie da baraccone. In fondo a Cyrano la tecnica interessa ben
poco: il viaggio sulla luna è un semplice pretesto per difendere le sue tesi
filosofiche. Per quanto riguarda la nostra storia, basterà osservare che si
torna a Luciano: la luna è una sorta di baraccone delle meraviglie, di
Luna-Park in cui ci sono cose mirabolanti e tuttavia, almeno in parte, modello
per le cose terrene. Oppure modello al contrario, cose da evitare. Qualcosa del
genere, seppure senza spingersi alla luna, capiterà nel secolo successivo a
Lemuel Gulliver, viaggiatore per conto di Jonathan Swift.
Cyrano
si mette in compagnia di altri personaggi famosi, (Pitagora, Democrito, Epicuro,
Copernico, Keplero...) che credevano a una vita sulla luna, a formare così una
bella compagnia di lunatici! Più o meno la lista coincide con quella di coloro
che sono visitati da geni provenienti dalla luna: Agrippa, Cardano, Faust,
Il
libro del nostro autore, scritto nel 1657 ma apparso postumo, è un romanzo
filosofico, ispirato in gran parte alle tesi di Gassendi: critica del dogmatismo
metafisico, conoscenza possibile solo in via sperimentale, opinione che gli
universali sono puri nomi, rifiuto della prova ontologica dell’esistenza di
Dio, per approdare a concezioni vicine a quelle di Epicuro: ricerca del piacere
e della felicità, che si possono trovare solo nella virtù; meccanicismo
atomistico, che ci riporta a Lucrezio, guidato però da un finalismo
provvidenziale.
In
gran parte queste tesi mostrano un debito allo scetticismo; forse l’essere
scettici è legato all’esser lunatici, e insieme legati a certe tradizioni
classiche, che si trovano in Plutarco e in Luciano.
Il
punto di partenza è l’autobiografia di Gerolamo Cardano, il quale ebbe - era
il 1491 - nel suo studiolo, la visita di due lunari. Bisognerebbe ricambiare, ma
come fare? Un primo tentativo si svolge con fiale riempite di rugiada: scaldate
dal sole, si vuotano, dunque dovrebbero galleggiare nell’aria; non funziona;
il nostro cade sulla Nuova Francia (il Canada), dove incorre in diverse
disavventure, senza abbandonare il suo progetto. Riesce infine a partire legato
ad una fila di razzi. Viaggio per giorni, caduta su di un albero, che si rivela
essere l’albero della vita, nel Paradiso terrestre, un luogo ameno in cui il
protagonista si ritrova giovane (dimostra 16 anni) e incontra un tale, che si
rivela essere il profeta Elia.
Cominciano
dialoghi filosofici, che saranno la costante di tutto il libro: Adamo si trasferì
sulla terra con la forza dell’immaginazione, Eva lo segue per simpatia essendo
parte del corpo di lui, Enoch sali al cielo rinserrando in certi vasi i fumi dei
sacrifici, come è noto riservati al paradiso; nel paradiso celeste andò anche
una donna, Achab, ai tempi del diluvio, e la seguirono molti animali. Viene
spiegata la natura dell’intestino: è il serpente tentatore dell’antico
testamento.
Il
protagonista dovrebbe mangiare il frutto dell’albero della conoscenza, ma gli
viene vietato, perché ha preso in giro le cose religiose; fa in tempo ad
assaggiare la scorza, che porta ignoranza.
Esce
dall’Eden. La luna è popolata da strani animali, simili a grossi uomini che
camminano a quattro zampe: sono gli uomini di lassù. C’è per fortuna uno
strano tipo, il demone di Socrate, che dice di essere nato sul sole, poi di aver
soggiornato a lungo sulla terra e di essere salito alla luna nei tempi di
Augusto, ma di tornare spesso sul nostro pianeta. Non vive da solo, deve
incarnarsi in corpi che cambiano (di praticare dunque la metempsicosi). Difatti,
ringiovanisce, perché cambia corpo, nei primi tempi della conoscenza col
nostro.
Si
narra poi della strana lingua dei lunari: o suonano, oppure tremolano; non
mangiano, si nutrono di fumo. Hanno letti di fiori, servitori che gli fanno il
solletico per indurli a dormire, vanno a caccia con munizioni che ammazzano,
preparano e cucinano la selvaggina. Moneta di scambio è la poesia. Hanno uno
strano modo di fare la guerra: i contendenti devono essere in perfetta parità.
Sulla luna i vecchi obbediscono ai giovani.
Il
nostro viene portato a corte come scimmia femmina; qui trova uno spagnolo, che
era stato ritenuto maschio di quella specie. Costui è una specie di filosofo
dissidente, scappato per fuggire i sapienti accademici: crede che esista il vuoto,
che il tutto sia in tutto e gli opposti coincidano, discute la dottrina degli
elementi. Grandi discussioni fra i sapienti sulla natura del nostro, che intanto
impara la lingua: forse è un pappagallo implume, ignorante però, perché
propone una filosofia simile a quella di Aristotele. Maggiore successo ha con
una principessa, che però non lo frequenta più: c’è il libero amore, lassù,
ma è vietato avere rapporti con gli animali.
Le
città della luna sono di due tipi: ce n’è che si spostano di qua o di là a
seconda della stagione, altre si alzano o si abbassano sotto o sopra il livello
del terreno. Altre usanze lunari sono l’eutanasia, la cremazione di cadaveri,
l’antropofagia rituale. Orologi: lo gnomone è il naso, i denti sono
quadrante. Il naso grande è segno di buon carattere.
Viene
ospitato da un tale, nella cui casa si fanno lunghe discussioni filosofiche:
i
cavoli hanno l’anima? il mondo è infinito? certo che è eterno, gli uomini si
sono inventati la creazione perché non riescono a concepire l’eternità. Così
com’è il mondo è casuale, costituito da atomi, che fanno funzionare anche i
sensi.
Il dèmone
gli regala certi libri, fra cui quello sul sole (Stati
e imperi del sole) che
l’autore scriverà più tardi (qui si impara che i solari pensano che tutto
sia vero, compreso il paradosso). I libri lunari sono specie di giradischi: si
accendono e si sente come una musica. Viene comunicato che una dama vuol farsi
cristiana e il dèmone costruirà costruirà una macchina per tornare sulla
terra.
Intanto, comincia
a esprimere una serie di opinioni decisamente eterodosse: l’anima non è
immortale, la resurrezione dei corpi è fandonia, Dio gioca a nascondino con gli
uomini. Si capisce così che il demone è una specie di anticristo, difatti
arriva un diavolo che se lo porta via, e il nostro con lui. Arrivano sulla
terra, alla bocca dell’inferno: per fortuna il nostro grida «Gesummaria» e
scende, in un luogo agreste, in Sicilia.
da
Stati e imperi della luna
[Sull’intelligenza
dei vegetali]
Ci stende mmo
pertanto su morbidissimi materassi, ricoperti da grandi tappeti, dove vennero ad
avvolgerci i fumi come una volta in trattoria. Un giovane cameriere prese il più
anziano dei due filosofi per portarlo in una stanzetta separata, e il mio
precettore gli gridò:
- Tornate qui
da noi appena avrete finito di mangiare.
Ce lo
promise.
Questa
fantasia di mangiare appartato mi mise in curiosità di conoscerne la causa.
- Non riesce
a gustare - mi dissero - l’odore della carne e quello della verdura, se non
sono morte da sole, perché pensa siano capaci di dolore.
- Non mi
meraviglia tanto il fatto - replicai - che si astenga dalla carne e da ogni cosa
che ha vita sensitiva, perché anche nel nostro mondo i pitagorici, e pure
qualche santo anacoreta, hanno praticamente questo regime; ma non osare per
esempio tagliare un cavolo per paura di ferirlo, mi sembra del tutto ridicolo.
- Io invece -
rispose il mio dèmone - trovo molto buon senso nella sua opinione; perché
ditemi, quel cavolo di cui parlate non è come voi creatura di Dio? Non avete
tutti e due ugualmente per padre e per madre Dio e la privazione? Dio non ha
avuto, per l’eternità, la mente occupata dalla sua nascita come dalla vostra?
Sembra anzi che abbia pensato di più a quella del vegetale che dell’essere
provvisto di ragione, perché ha affidato la generazione dell’uomo ai capricci
di suo padre, che poteva a suo piacere generarlo o no, discrezionalità che non
ha voluto riservare al cavolo, perché invece di affidare alla discrezione del
padre la procreazione del figlio, come se avesse temuto maggiormente che si
estinguesse la specie dei cavoli più di quella degli uomini li ha costretti
loro malgrado a darsi la vita l’uno con l’altro, e non come gli uomini, che
in tutta la vita possono generarne al massimo altri venti, mentre essi producono
almeno quattrocentomila altri cavoli a testa. Affermare tuttavia che Dio ha amato
più l’uomo che il cavolo è come farci il solletico da soli per ridere.
Essendo incapace di passione, egli non può odiare né amare nessuno; e se fosse
suscettibile d’amore, lo sarebbe maggiormente per questo cavolo, incapace di
offenderlo, che per l’uomo di cui ha davanti agli occhi le offese che gli
farà. Aggiungete a ciò che non può nascere senza colpa, discendendo
dall’uomo che gli ha trasmesso il peccato originale; mentre sappiamo benissimo
che il primo cavolo non offese il Creatore nel paradiso terrestre.
Si dirà che
noi, e non i cavoli, siamo fatti a immagine dell’Essere Supremo. Quando ciò
fosse vero, noi abbiamo cancellato questa somiglianza macchiando l’anima per
la quale gli somigliamo, non essendoci nulla che sia più contrario a Dio che il
peccato. Se dunque la vostra anima non è più il suo ritratto, non gli
somigliamo di più per le mani, i piedi, la bocca, la fronte, le orecchie che il
cavolo per le foglie, i fiori, il gambo, il torsolo e il cappuccio. In verità,
se quella povera pianta potesse parlare quando la tagliano, non credete che
direbbe: «Mio caro fratello uomo, che cosa ho fatto per meritare la morte?
Cresco solo nei tuoi orti, e non mi si trova mai nei luoghi selvaggi, dove
vivrei sicuro; disdegno di essere opera di altre mani che non siano le tue, ma
ne sono appena uscito che vi ritorno. Mi sollevo da terra, mi schiudo, stendo le
braccia, ti offro i miei figli in seme e, per ricompensa della mia cortesia, tu
mi fai tagliare la testa!» Ecco cosa direbbe quel cavolo se potesse parlare; e
dato che non può lamentarsi, forse che dobbiamo fargli tutto il male che non è
in grado di evitare? Se trovo un poveraccio legato, posso forse ucciderlo senza
infamia, perché egli non si può difendere? Al contrario! L’impossibilità in
cui si trova di difendersi renderebbe più grave la mia crudeltà: infatti, per
quanto quella disgraziata creatura sia povera e priva di tutti i nostri
vantaggi, non merita perciò la morte. Ma come! Di tutti i beni dell’esistenza
ha solo quello di vegetare, e noi glielo togliamo. Non è tanto grande il
peccato di massacrare un uomo, perché un giorno rivivrà, quanto quello di
tagliare un cavolo e di togliere la vita proprio a chi non può sperarne
un’altra. Annientare l’anima di un cavolo facendolo morire. Invece,
uccidendo un uomo, ne cambiate solo il domicilio. Dirò ancora di più. Poiché
Dio, padre comune di tutte le cose, ama di uguale amore tutte le sue opere, non
è ragionevole che abbia distribuito i suoi benefici nello stesso modo a noi e
alle piante? È vero che noi siamo nati per primi, ma davanti a Dio non c’è
diritto di progenitura. Se dunque i cavoli non parteciparono con noi al dono
dell’immortalità, devono essere stati dotati di un altro privilegio che con
la sua grandezza compensa la brevità della sua esistenza. Forse un intelletto
universale, una conoscenza perfetta di tutte le cose nelle loro cause; ed è
forse anche per questo che Dio, primo motore, non ha fornito loro organi simili
ai nostri che hanno, come risultato, solo un semplice ragionamento debole e
spesso ingannevole, ma altri più ingegnosamente lavorati, più forti e
numerosi, che servono per i loro colloqui speculativi. Vi chiederete forse perché
non ci hanno mai comunicato grandi pensieri. Ma, ditemi, che cosa ci hanno
insegnato mai gli angeli più di loro. Come non c’è proporzione, né rapporto,
né armonia tra le deboli facoltà dell’uomo e quelle di tali divine creature,
così questi cavoli provvisti d’intelletto, per quanto si sforzassero di farci
capire la causa occulta di ogni avvenimento prodigioso, non vi sono riusciti,
mancandoci i sensi capaci di ricevere quegli alti messaggi.
Mosè, il più
grande di tutti i filosofi, poiché come tutti voi dite attingeva la conoscenza
della natura alla fonte della stessa natura, voleva significare questa verità,
quando parlò dell’Albero della Scienza, volendo significarci sotto tale
enigma che le piante possiedono fondamentalmente la perfetta filosofia. Ricòrdatene
dunque, o superbissimo fra tutti gli animali, che benché un cavolo che voi
tagliate non dica una parola, egli pensa. Ma il povero vegetale non ha organi
con cui poter lanciare urla come noi, non ne ha per agitarsi, né per piangere;
ne ha tuttavia altri con cui si lamenta del trattamento che gli riservate e con
cui attira su di voi la maledizione del cielo. E se mi chiedete come faccio a
sapere che i cavoli hanno questi bei pensieri, io domando a voi come fate a
sapere che non ne hanno, e che uno, per esempio, a vostra imitazione, non dica a
sera richiudendosi: «signor Cavolo Riccio, sono il vostro umile servitore
Cavolo Cappuccio».
(trad. di Giovanni Marchi)
Il
tema fu poi ripreso da altri, per esempio (1686) da Bernard de Fontenelle (Entretiens
sur la pluralité des mondes), in cui l’autore espone a una signora la
teoria di Copernico e ne approfitta per riportare l’idea che non ci sia niente
di strano nella presenza di esseri viventi sulla Luna, pressapoco sullo stile di
Galileo.
Queste
teorie, e forse la lettura dell’Icaromenippo
lucianeo, dànno il destro a Voltaire di scrivere Micromégas
(1752), il cui eroe, che giungere a visitare il sistema solare, arriva
nientemeno che dai dintorni della stella Sirio.
L’interesse
di Leopardi per la luna presa come oggetto poetico e simbolico è profondo e ne
tratteremo a parte; piace qui ricordare quella Operetta morale, perché si inserisce perfettamente nella tradizione qui
delineata: da Luciano di Samosata (utilizzato soprattutto l’Icaromenippo)
ad Ariosto, esplicitamente citato.
Il
genere è quello del racconto filosofico, nello stesso stile che abbiamo trovato
in Cyrano.
Dopo
tanti secoli,
Altre
storie le ricordiamo di passata per gli amatori: Nel Settecento (1785) in
Germania, ma scrivendo da vero lunatico in inglese, Rudolph Erich Raspe mandava
sul satellite, per ben due volte, il suo notissimo eroe, il Barone di
Munchhausen; un secolo più tardi (1865) Jules Verne ci spediva dei proto astronauti,
schiacciati dentro una capsula sparata da un cannone.
2.6 Giovanni
Pascoli
Concludo
gli accenni a questa complessa e ricca vicenda con una enigmatica pagina
pascoliana, Gli emigranti della luna, contenuta
nei Nuovi poemetti del 1909. Il poema
fu ispirato da una notizia letta su un giornale: certi contadini russi pensavano
di salire sulla luna per trovarvi terra e libertà, perché uno studente aveva
letto loro un libro di Verne, forse proprio Dalla Terra alla Luna.
I riferimenti di Pascoli sono pero a qualche trattato di astronomia, fase
l’Astronomie populaire di
Camille Flammarion, apparso nel 1881. Questa singolare figura di scienziato e
divulgatore ha diversi tratti lunatici: è convinto della trasmigrazione delle
anime, e dedica il suo primo lavoro, scritto a vent’anni, a La pluralité
des mondes habités, che affascinarono anche altri poeti.
Pascoli
diffonde sul suo discorso un’aura indecisa, imprecisa, di sogno; per quanto vi
si possano riconoscere ampi stralci narrativi, non vi è una trama vera e
propria, piuttosto la presenza di figure simboliche che si muovono fra terra e
Luna, tra realta e sogno.
Il
poema è diviso in sei brevi canti: Il
brodiag e lo studente, Com’è la luna, In sogno, Ritorno in sogno, L’altra
faccia lunare, In cerca della guida.
Bello
sarebbe trovare nell’astro quei luoghi, quei mari che promettono Tranquillità,
Sogni, Serenità; anche se essi confinano col Mare della Morte. E l’altra
faccia della Luna, quale sogno, quale mistero nasconde? Ci potranno stare lassù
degli amanti, fianco a banco eppure lontani, separati e uniti dal lago Dolce,
dal Mare dei Sogni? E ci sarà lassù
Dal
nostro punto di vista, è interessante soprattutto il primo canto: il brodiag e
lo studente rappresentano i due aspetti che abbiamo individuato nella vicenda
dei viaggi sulla luna, l’alterità radicale e irraggiungibile delle antiche
filosofie, le moderne tesi scientifiche che hanno livellato tutto sulla materia
e sulle sue proprietà.
Pascoli
resta tuttavia perplesso: il cielo e la luna continuano a mantenere il loro
fascino ancestrale, le nuove idee permettono di pensare a conquiste che l’uomo
non sapeva nemmeno di poter sperare. Ma in fondo era un’ossessione già di
Alessandro Magno, o almeno il poeta gliela attribuiva in Alexandros:
Non altra
terra se non là, nell’aria
quella che in
mezzo del brocchier vi brilla,
o Pezetèri: errante e solitaria
terra,
inaccessa.
Dal
desiderio sfrenato di conquista, alla fantasia di poter realizzare questo
desiderio. I contadini russi sono giustificati, in più, dal bisogno, dalla
fame. Forse ci sono campi, lassù; e poi, si sa, la fame accende la fantasia.
Gli emigranti nella luna
Canto primo
Il brodiag e lo studente
I
Mancava ormai la legna e l’acquavite.
Non venne il sonno e ritornò la fame.
Disse un brodiag ai contadini: «Udite?»
Si lisciava la gran barba di rame
senza parlare, e si togliea tra il pelo
le foglie secche e qualche fil di
strame.
Quelli aprivano gli occhi color cielo,
zuppi di sogno. «Il vento!» disse; «il
vento
del nord! Quest’anno tarderà lo
sgelo!»
E l’isba scricchiolò con un lamento
lungo ad un urto. Alzò le spalle un
vecchio
senza levare dalle palme il mento.
Gli altri alla romba porsero
l’orecchio.
«Hai pane, tu» ghignò il brodiag «tu,
fieno!
legna nel canto! latte anche nel
secchio!»
«Che farci?» disse il vecchio. «Olio,
non meno!...»
Il lume un po’ guizzò palpitò
sfrisse,
si spense. Il vecchio disse: «Olio,
nemmeno».
Che farci! Serrò gli occhi. Altro non
disse.
Ecco e s’empiva l’abituro d’una
pallida nebbia. Ché via via men fisse
vanian le stelle all’alba della luna.
Il
E la luna calante batté gialla
sull’impannata. Netta, senza brume,
stava,
sul liscio mar di neve a galla.
L’immensa taiga biancheggiava al
lume.
Qualche betulla nuda, qualche
cono d’abete, e solchi d’ombra
d’un gran fiume.
E si levò tra quelle genti un suono
dolce di voce: «Il giovine straniero
giunto tra noi, che parla a noi, ch’è
buono...
egli sa tutto; vede anche il pensiero
chiuso nei cuori... egli leggeva un
giorno
un libro, Il libro che ci dice il
vero...
a questa Terra. E ci si va. C’è
gente
che v’andò, che ne parla, ora, al
ritorno...»
La giovinetta voce piovea lente
le sue parole. Balenava un raggio
or qua or là da due pupille attente.
E il contadino e il boscaiol selvaggio
e donne e bimbi nella solitaria
capanna, udian la storia del passaggio
a quella luna, per il mar dell’aria.
III
Scrollò la testa, il vecchio, e disse:
«Tale!
L’uomo non vola, o garrula ghiandaia,
come gli uccelli e come le parole!
L’acqua ci può. Sul fiume va
l’alzaia,
non già per aria. L’aria è aria;
nulla.
Ma l’acqua è cosa, quando pur
traspaia.
Fole da dire sotto una betulla,
d’estate, a sera…» Ed ella disse:
«Allora
le nuvole?…» E il brodiag: «Ecco,
fanciulla!
Terra e lombrichi vede chi lavora
la terra. C’è nel mondo altro, che
il grano!
Il sole cade; e l’uomo fa l’aurora!
Uno bisbiglia; e l’ode uno lontano
le mille miglia! I carri vanno a torma,
da sé, con un fragore d’uragano!
E c’è chi vola senza lasciar
l’orma.
Sì! Sì... come la nuvola che batte
nella luna, e si ragna e si deforma...»
Le sue parole in un chiaror di latte
passavano, nel loro alitar su.
Come nuvole presto fatte e sfatte
le rimirava l’umile tribù.
Ma
non c’è più tempo per dirne niente, specie ora che son cose superate dai
tempi, che sulla luna l’uomo è già arrivato e può andarci ogni volta che
vuole.