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Pleniluni e quarti di luna

 

QUARTI DI LUNA

Divagazioni dal fondo del pozzo

(gennaio-febbraio 1997)

5. Chiari di luna

5.1 Variazioni su Pierrot

5.1.1. Jules Laforgue (1860-87)

5.1.2. Teofilo Valenti

5.1.3. Antonio Rubino

5.1.4. Gian Pietro Lucini (1867-1914)

5.2 Contro la luna

5.2.1 Marinetti simbolista

5.2.2 Marinetti e il selenicidio

5.2.3 Enrico Cavacchioli

«Chiaro di luna» è espressione idiomatica per dire una mancanza, un’assenza: come ve la passate, con questi chiari di luna? Forse l’origine del modo di dire va cercata nel fatto che la luce lunare è in qualche modo ridotta, deprivata, povera.

Certo, la povertà ha un suo particolare fascino, perché induce alla speranza. È il mondo della semplicità, dunque anche della verità.

Fra Ottocento e Novecento più che la luna è il chiaro di luna a dominare la poesia: verità intesa come povertà, quelle poche cose che sono vere nel profondo e niente di più.

Gli atteggiamenti sono diversi: c’è chi ama questa verità, o questa presunzione di verità, chi la ironizza, chi la detesta e vorrebbe gettarla via, ucciderla, far scomparire la luna dietro miriadi di lampadine elettriche.

Il nostro ragionamento metterà in fila questi atteggiamenti, cercando un ordine logico dove quello cronologico manca.  

5.1 Variazioni su Pierrot

La luna è stata ospite a lungo del teatro, dove i notturni si sprecano. La scena tipica è quella della serenata al chiaro di luna, con uno straziato Romeo, armato di liuto o ribeca, che canta il suo strazio d’amore sotto il verone della sua Giulietta.

La commedia dell’arte metteva in scena, prendendole amabilmente in giro, queste sofferenze, affidandole a qualche Ortensio, o Ottavio, o Leandro: amorosi che per dar corpo al proprio amore avevano bisogno di Arlecchino o Brighella, perché persi dietro all’apparenza fantasmatica e ideale del sentimento. Non si può, pensavano costoro, abbassare alla contingenza quotidiana l’amore, meglio isolarlo, allontanarlo, nel puro fulgore luminoso dell’astro notturno. Diventano così, da amanti, maschere: umane caricature di un comportamento nobile e derisorio.

Di tutte le maschere, quella che più incarna tale idea, quella più lunare è certo Pierrot. La sua faccia infarinata, il suo collare, l’abito, tutto è luce, bianco, ma opaco, povero: notturno.

Bianco è il Pierrot del circo, il clown che propone all’augusto le sue scempiaggini: abbiamo già trovato qualcosa di simile nella coppia narratore/prefetto in Cavazzoni.

L’occhio di Pierrot ha sempre una lacrima a scendere lenta, stella o forse gemma di incerta sofferenza.

Malinconia.

Ma non è luna piena. Il berretto nero oscura parte del tondo e ne fa una falce abbondante.

No, non vi è mai luna piena; Pierrot, come gli scrittori che di volta in volta gli danno voce, non è mai completamente incorporato nell’astro. Resta un residuo ironico che ci porterà fuori dalla luna classica e romantica, oltre a quella eterna degli astrologi e dei lupi mannari, verso gli esiti contemporanei.

Il tempo di cui ci occuperemo comincia sul finire della grande stagione simbolista, in cui la luna campeggiava fra i grandi emblemi, magari adombrata sotto le spoglie del cigno di Mallarmé (Le vierge, le vivace et le bel aujourd’hui...). I simbolisti, sui quali non ci attardiamo, sono già compresi, in nuce, nella poesia di Baudelaire, di Hugo, soprattutto di Nerval.  

 

5.1.1 Jules Laforgue (1860-87)

La luna popola un intero libro di Laforgue: Imitation de Notre-Dame la Lune (1886); nel titolo, che si potrebbe tradurre Imitazione di Madonna Luna c’è il richiamo all’immagine lunare di Maria, insieme a un modo di porsi un po’ medievale: il poeta annuncia, in altri libri (cfr. ad es. le Moralités legendaires) il medioevo liberty che imperverserà di lì a quindici o vent’anni.

La grande dominante della sua luna è l’ironia.

Dell’ambiente lunare Pierrot è un abitante necessario. Le sue caratteristiche si legano in gran parte al freddo: rigidezza come ghiaccio, sguardo dolce, che perdona e ammalia, sorriso impenetrabile. Pierrot ha un po’ del dandy, l’intelligenza e il gusto per la bellezza, ammantato com’è di malinconia, e di eleganza straniata e sterile.

Tutto è bianco nel mondo dei Pierrot, persino il cibo: cos’altro se non riso? Il cuore è una luna, bianca e tatuata di frasi leggibili, di una scrittura che evoca la fine inevitabile: ecco la ragione della malinconia. Cortei funebri di vergini, faticosi, accompagnati da teorie di maschere biancastre: questa la loro vita. Un tema importante è quello delle fasce, per curare le ferite, bianche come la luna, come la veste di Pierrot, come il cigno che canta per morire.

Questi esseri lunari possono solo amare simulacri idealizzati, statue bianche di marmo, che rappresentano una specie di assenza della carne, la smaterializzazione ideale e insieme splenetica (per questa via Laforgue continua Baudelaire). (“Sterile” è aggettivo spesso attribuito alla luna da Laforgue: che si lega naturalmente al vecchio mito di Artemide.)

I Pierrot sono puri come la luna. Non sono forse nemmeno intelligenti, solo sensibili asparagi idrocefali, testa grossa gonfiata più che piena.

 

I Pierrot

 

I

È, su di un collo che rigido emerge

da una gorgiera inamidata idem,

una faccia imberbe al cold-cream,

un’aria da asparago idrocefalo.

 

Gli occhi sono immersi nell’oppio

dell’indulgenza universale,

la bocca clownesca ammalia

come un singolare geranio.

 

Bocca che va dal buco senza tappo

gelidamente esilarato,

alla trascendentale evanescenza

del vano sorriso della Gioconda.

 

Col cono farinoso ben piantato

sulla nera calotta di seta,

fanno ridere le loro zampe di gallina

e arricciano Il naso a trifoglio.

 

Hanno come castone d’anello

lo scarabeo egiziano,

e all’occhiello sfoggiano

il piscialletto dei prati fuori porta.

 

E vanno, cibandosi d’azzurro,

e qualche volta anche di verdura.

di riso più bianco del loro costume,

di mandarini e uova sode.

 

Sono gli adepti della Setta Livida,

con Dio non hanno nulla da spartire,

e fischiano: «Tutto va per il meglio

nella mezza quaresima migliore!»

 

 

II

 

Il cuore bianco tatuato

di sentenze lunari,

hanno: «Fratelli, bisogna morire!»

come Evoè e per parola d’ordine.

 

Quando una vergine trapassa

seguono il suo corteo,

tenendo il collo ben dritto

come si regge un bel cero.

 

Parte assai faticosa,

tanto più che non hanno nessuno

a casa che li frizioni

con un unguento coniugale.

 

Quei dandy della Luna

s’impongono, in effetti,

di cantar «Permettete?»

alla bionda e alla bruna.

 

È gente, invero, scettica;

e se vi paion vittime,

qua e là, della Gonna,

fascia per cicatrizzare,

 

siate pur certi che si fingon tonti

per avere dei seni,

cuscini di ripiego

per le loro teste sapienti.

 

Ingrossano il collo

e fingono di capire

a rovescio, con la voce tenera,

ma gli occhi cosi truffaldini!

 

- Per altro d’usanze finissime,

e sempre assai corretti,

(scuola dei cromlech

e delle tubature d’officina).

 

 

III

 

Come la notte vanno a molestare

nel fondo dei parchi le statue,

ma offrendo soltanto alle meno spogliate

il loro braccio e tutto quel che segue,

 

se sono a quattr’occhi con la donna

han sempre l’aria di fare da terzo,

confondono l’oggi col domani,

e chiedono Nulla con anima!

 

Giurano «T’amo!» con un’aria assente,

la voce bianca, estatica,

e chiudono le frasi più forsennate

con certi: «Mio Dio, non insistiamo!»

 

Finché ebbra (e còlta da non si sa quale

bisogno di luna!) Ella s’oblia

nelle loro braccia, assai oltre

le buone convenienze.

 

 

IV

 

Truccati d’abbandono, con le maniche

a salice, essi fan loro giuramenti

per esser veri troppo veementii

poi tumultuano in bianche gighe,

 

sbraitando: Angelo! tu m’hai capito,

per la vita e per la morte! - e pensano:

Ah! passarci sopra la spugna!...

E in loro non è un partito preso,

 

Ma, ahimè! l’idea della donna

che ancora in questo secolo

si prende sul serio, li torce

in un riso dalle gamme laceranti

 

Non gettate loro la pietra,

o voi fanatici della giarrettiera!

Via, non gettate la pietra

ai bianchi paria, ai puri pierrot!

 

V

 

Bianchi chierichetti della Luna,

e lunologhi eminenti,

la loro Chiesa è aperta a chi càpita,

chiara d’altronde come nessun’altra.

 

Vanno dicendo, con certe occhiate frolle,

e le maniche arcisacerdotali,

che questo basso mondo scandaloso

è solo uno dei mille colpi di dado

 

d’un gioco che l’Idea e l’Amore,

senza alcun dubbio anche per conoscere

la loro propria ragione d’esistere,

ha ritenuto di dare alla luce.

 

Che del resto nessuno vale il nostro,

che non bisogna trattarlo da pensione

in vista d’un albergo più immortale,

giacché noi siamo fatti l’un per l’altro;

 

e che infine, e nulla è meno sottile,

poiché tali gratuite antinomie

in fondo non ci riguardan mica,

l’arte suprema è Il Così sia;

 

e che la parte più bella, fratelli,

è vivere di punto in bianco

e, magari battendosi il fianco,

alzar le spalle davanti a ogni cosa.

 

(trad. di Ivos Margoni)  

5.1.2. Teofilo Valenti

Teofilo Valenti è un poeta che ha lasciato ben poche tracce, tre libri di poesia (Le visioni, Lo specchio e la rosa e Il poema della Sibilla), una data di nascita (1884) e nient’altro. Un poeta minimo e perduto, sottratto in qualche modo all’ombra da Glauco Viazzi.

Valenti riscopre il tema elegiaco del tramonto del sole, al quale sottentra la luna, mescolandovi elementi macabri che certo provengono da Baudelaire (come il titolo del sonetto). La luna veglia sul vuoto delle cose morte, celebrando, ogni notte, il funerale del mondo. Il chitarrino di Pierrot ora tace, sostituito da un ironico gracidare di rane; nonostante il décor della poesia sia del tutto vicino alla tradizione simbolista, appare ancor più prossimo, forse nemmeno intenzionalmente, all’ironia di Laforgue.

 

Crepuscolo de la sera

 

Rossigno lume su l’occaso dura,

che fa ogni cosa languida parere;

il serafino de le tristi sere,

veglia su la mestissima natura.

 

Volitano per l’aria densa e scura,

i vipistrelli, con lor ale nere;

cominciano le tenebre a cadere

sopra l’interminabile pianura.

 

S’addorme ne la nebbia la palude,

e, a fior de l’acque, la ninfea si chiude:

tra mezzo ai giunchi, gracidan le rane.

 

Per l’alta vanità celestiale,

echeggian lamentevoli campane:

gialla, tra i pioppi, una gran luna sale.

 

5.1.3 Antonio Rubino

Antonio Rubino (1880-1964), conosciuto dai più come brillante disegnatore per il Corriere dei piccoli, è meno noto per la sua attività di poeta, certo marginale nella sua opera, ma non secondaria, se si osserva l’abilità di verseggiatore che mostra nei commenti in versi alle sue tavole.

Anch’egli senti il fascino del simbolo, anch’egli prestò omaggio alla luna, vissuta con un intenso senso dell’orrore, parola chiave del sonetto dedicato alle «insidie lunari». Cos’è mai la luna, ormai che ha perso ogni dimensione ideale e salvifica? è un deposito di morte, su cui appaiono le stimmate del teschio, bianco come fosse vecchio di secoli. Questa luna ha ormai concluso il suo corso nel cielo del simbolo, da oscuro emblema della natura e dell’amore, è divenuta ormai chiaro rinvio alla morte, alla fine. Consunta, chiede di essere sostituita.

 

Insidie lunari

 

Simili a immensi mausolei diruti

guardan le cime ai laghi ferrugigni:

passa la luna, cadono i minuti

freddi sul cuore ignudo dei macigni.

 

Passa la luna fredda sui macigni

senza che il volto dell’orrore muti:

la gran ruina è piena di sogghigni

come un ammasso di teschi caduti.

 

Morta, che i campi della Morte irrighi

liquida luna, a cui bocche infinite

di teschi si protendono per bere,

 

io ti sento su me pendule bere,

intenta luna, poi che le stupite

vie del silenzio non un sogno irrighi.

 

5.1.4.  Gian Pietro Lucini (1867-1914)

Gian Pietro Lucini (1867-1914), il più grande poeta dimenticato del nostro simbolismo. Uomo sfortunato, tormentato dalla malattia, deciso, leopardianamente, ad affermare fino in fondo la vita e i suoi diritti, vicino alle novità della cultura europea. Al simbolismo, certo, ma anche al futurismo che ne costituisce una delle propaggini.

Egli ha ben chiara la natura teatrale dell’astro notturno, damina secentesca che aspetta solo l’omaggio della natura e del mondo. Pierrot abita una lunga sezione de I drami delle maschere (sic), in cui egli espone le sue malinconia, discorre della sua casa, canta la luna nelle sue quattro fasi, poi fa la riverenza e se ne va.

Questo Pierrot, molto filosofo invero, è un povero di denari e di spirito, un derelitto che critica aspramente il mondo in cui vive, che è ancora quello di prima della grande Rivoluzione: crinoline e guardinfanti, culottes e spadini che difendono ingiustizie e sopraffazioni. Quando la luna cala, Pierrot mette in scena, con certi suoi burattini, una grande scena di Amore Romantico, alla tedesca, poiché ne sono protagonisti un letteratissimo Herr e una coltissima Frau, che citano autori, storie e miti, facendo magari delle sintesi ardite

 

                                                          meine Frau,

E poi? Ascesi il Golgota con Klopstock e visitai la Grecia

in compagnia di Lessing, ma ritrovai sul Blocksberg

Venere e le Tre Norne in famigliari dispute.

 

Ma l’amore promesso nemmeno nasce: aufwiedersehen, e Pierrot aspetta la luna nuova, quell’Ecate desiderata e temuta. Denuncia chiaramente la sua natura masochista, la maschera lunare:

 

Una segreta voluttà di sofrire, di gridar, di gioire

e di vivere in fine mi punge dentro.

 

Esigenze contraddittorie. Ma con la luna nuova Pierrot ha trovato la sua Niniche. Stanno insieme, sul ramo di un pero morto. Ha freddo, Niniche, ha sete. Sogna il paradiso, e muore. No, per Pierrot, se il paradiso dev’essere, sia in terra. Soluzione ancora una volta ideale: ma il ramo del pero si spezza, Pierrot e Niniche esanime cadono nelle tenebre. Ma forse il loro sacrificio non è stato inutile, perché sta per sorgere il sole di primavera.

Luna ambigua: attraversa nelle sue fasi il bene e il male, che propone ai poveri Pierrot di questo mondo. Ma i chiari di luna sono chiari di luna, e non possono essere abitati che da poveri: di spirito o di portafogli, non importa.

Lucini non si limita a questo: si impanca a ragionare della Diana moderna, della notte del poeta; soprattutto, in Le antitesi e le perversità il libro terzo è dedicato a un Intermezzo romantico. Sono quattro pezzi. Il primo, dedicato alla Luna classica e piena per le lunatiche, rievoca immagini della mitologia lunare classica, egiziana e indiana, per concludere a un’immagine di complicità fra la Luna e la donna, unica possibile, poiché

 

il Sole, che domina nudo

sul mondo coi baci del maschio

apre ferite, contamina e uccide.

 

Il secondo passo, Parade, trasforma la luna in una sorta di attrice erotica, che gioca a nascondino con le nuvole ad affascinare la natura assorta al suo palcoscenico celeste. Con Miraggi di luna si scivola rapidi, sull’onda di fantasie ro­mantiche, ansie di ribellione, ironie sull’amore, verso l’esito necessario: l’«espettorazione» di Un tisico alla luna che apparirà cosi importante a Lucini da riprenderla negli Scherzi delle Nuove revolverate.

Ormai Pierrot è allo stremo, la luna lo ha deluso, e si merita una perplessa maledizione, perché si è rivelata materiale, antiideale, proprio come le cose del mondo. Il teatro celeste si è fatto impudico, le nozze con la vergine hanno lasciato il posto a squallide scene di postribolo. Come si può ancora sognare? come rincorrere le belle e tristi meditazioni che fanno la poesia? Nemmeno più ironia si può mettere in campo, la sofferenza è troppa; le virtù richieste da questo nuovo mondo sono atroci per il povero Pierrot, «giovane impotente e smidollato» che esprime il proprio disappunto con lo stesso gesto infernale di Dante, sono virtù che implicano il suo corpo debole e malato. Malattia a cui partecipa la luna stessa, contagiata dalle sue pratiche adulterine come una qualunque Nana.

È questo il canto tragico della disillusione; oltre non si potrà andare: Pierrot conclude qui la sua carriera, e con lui la possibilità di intendere la luna - un mondo ideale che sfugga ai ricatti materiali del mondo e del tempo.

 

Espettorazione di un tisico alla luna

 

La chair est triste

MALLARMÉ, Brise marine

 

«Luna,

luogo comune delli sfaccendati

in ogni prova prosodica,

facile rima ai sonetti romantici,

belletto e vernice sentimentale alla bionda e alla bruna

per gustar le primizie de’ contatti antematrimoniali,

lenocinio archetipo alle adultere;

mezza maschera vuota di simboli,

tegghia d’ottone a friggervi i capricci di Diana,

crachat maggiore allo stomaco immedagliato del cielo;

Luna, ho creduto in te:

al tuo patrocinio incappai nella ragna tesa

da due sguardi e da quattro parolette,

buscai, solennemente,

da una verginità posticcia e macera,

l’imberciatura classica.

 

Luna,

clorotica fortuna d’argento a navigare,

della tua faccia mi feci un altare:

vi ho deposto, in offerta, le più tirchie ed avare soddisfazioni

de’ miei sensi impotenti e castigati,

tutto quanto lasciai, con falsa umiltà, alle gioie del mondo, alla tentata e recusatasi felicità.

 

Luna,

il mio cuor ti sospira e si svuota

d’amarezze e ti vomita bestemie:

sono un povero tisico che rece,

coi coalgoli rossi, il suo buon cuore.

 

Luna, balzata sul palcoscenico del firmamento,

mongolfiera celeste in convulsione sorretta dal vento,

simulata matrice in gestazione,

per scodellarci questa Primavera;

ho vergogna per Te, che senza velo

balli danza del ventre nel cielo.

 

Occhiaccio strabico e permaloso,

sbirciami in terra, sono il tuo sposo,

sogguarda dalla palpebra rossa e purolenta.

Testé, fosti uno spicchio verdognolo

gobbuto ad occidente

di un’acida e bacata melarancia:

sarai tra poco compressa e glabra pancia

d’adolescente isterica:

sarai libidinosa bocca spalancata,

con lunga lingua di luce a imbavare

i bei fianchi delle Nubi vaghe e strane,

prone al divano dell’orizzonte,

callipigie e impudiche cortigiane.

 

Questo a Te, questo a me

il contagio conserva alla fregola:

anche sopra le cime della notte

stirano e snodano le membra erotte dal peplo le Nubi,

pazze e infeconde, convulse e corrotte.

 

Luna,

civetta ipocrita a starnazzare

per l’aja insabbiata di stelle,

tra il Carro e lo Scorpione,

mezza-vergine falsa collaudata,

sopra il catarro e il colascione, dalla poesia classica;

ho le vertigini, non guardarmi più:

un giovane impotente e smidollato ti squadra le fiche,

Luna smorta, o sorella.

oggi compunta e avvelenata,

dispensatrice di atroci virtù».

 

È ora il tempo del rifiuto radicale. Pierrot non lo potrà fare, perché troppo si è coinvolto nella fuga ideale romantica e celeste. Non gli è possibile divorziare da una luna, sorella e sposa come Iside (va in questa direzione anche L’uomo senza qualità di Musil, estrema controfigura della nostra maschera), compagna della sua sofferenza, causa forse di essa, ma la cui perdita appare insopportabile. Insomma, Pierrot è ormai irrimediabilmente sconfitto. A decretare la fine sua e della sua dèa saranno Marinetti e i futuristi.

 

5.2 Contro la luna

5.2.1 Marinetti simbolista

Filippo Tommaso Marinetti, curiosamente, comincia la propria carriera di poeta nel 1898 pubblicando su una rivista un sonetto simbolista che ha per oggetto la luna: L’échanson, cioè Il coppiere. La luna qui appare come dispensatrice di vita e d’amore; il Coppiere, che appartiene alla vecchia razza di Ganimede, versa un liquore, certo l’Ideale caro all’intellettualità decadente. È una luna abitatrice di foreste e praterie, legata quindi alla natura proprio come poteva essere per Saffo o per Leopardi. Come se il tempo non ci fosse stato, non ci sia sotto il regno di Astarte, poiché è il Sole che lo segna e ci fa morire.

 

Il Coppiere

 

a E.A. Butti

 

L’oro del tramonto distilla tra le foglie delle querce

e il vento s’illanguidisce tra i gorghi palpitanti

degli alberi. La sera mite bagna i dolci prati.

E la luna, pallidissima, emerge dalle pianure.

 

Sale verso l’azzurro reggendo l’urna piena

delle chiarità che versa nel sonno dei rossi boschi.

E il bosco in un fremito tende i rami alteri

come coppe d’oro brandite con un gesto folle.

 

Il soave Coppiere effonde il suo chiarore

sulle coppe tenute da grandi braccia senili

mentre i tronchi gridano: «Versa, oh! versa Astarte

 

la tua essenza d’amore nelle nostre deboli vene

poiché morremo domani, e queste fragili coppe

sotto i passi del sole presto saranno infrante!»

 

Godiasco, settembre 1897

 

(trad. di Luciano de Maria)

 

Sotto il lume della luna sono pure alcune della opere in francese di Marinetti. La momie sangiante del 1914 mette in scena una cripta egizia profumata di resina e cedro, piena di sarcofaghi dalla forma umana; il Nilo passa vicino e corrode i muri, finché si apre una breccia, dalla quale appare il chiarore corrosivo della Luna. È stata lei a violare la tomba e batte sul sarcofago più sontuoso, il cui coperchio si apre, perché la mummia di Ilai, figlia del faraone Bocco­ris (XXIV dinastia) spinge per uscire... Nel complesso, il racconto riprende, in modo anche un po’ ingenuo, il vecchio mito di Osiride e Iside: Ilai piange il suo Nabar scomparso.

Solo accennato in Déstruction, il tema selenico riappare prepotente nella maggiore opera poetica francese del nostro, La ville charnelle del 1908, in epoca ormai prossima dunque al Manifesto del futurismo.

Una poesia si intitola La mort de la lune. È una luna molto femminile e carnale, sul tipo di quella che appare a Lucini/Pierrot: «dondola i suoi fianchi / sulla grande culla del mare, / con indifferenza da ballerina stanca / per Il pizzicore vaporoso delle musiche». E canta, la luna, mentre «Le stelle felici, accorse da ogni dove, / tremavano d’angoscia vedendola così fragile / si coloravano d’amore vedendola tanto bella, / sotto i baci discreti della brezza sensuale». La scena avviene sul mare; la luna danzante accarezza coi piedi le gote dei marinai. Canta, l’astro notturno qui personificato: ma è il canto del cigno, perché «tutt’a un tratto, la Luna, come una bambina, / inciampò sulle drizze, / e cadde da lassù, a capofitto, / ferendosi e straziando la sua carne sui cordami. / Il suo corpo s’è frantumato sulla prua nera, / e il suo sangue scorreva, rosa, nella penombra / lungo il bompresso, annaffiando le onde.» Ma i marinai nemmeno se ne accorgono, addormentati al rollio del mare, finché il vento non strappa la luna dalle sartie e la butta tra le onde.

È la prima volta che Marinetti mette in scena la fine della luna. Non serve più, ormai, ha accarezzato gli uomini, ha dato loro delle illusioni, non più attuali. Muore, e nessuno se ne accorge, né c’è più un Pierrot a rimpiangerla: forse è morto prima di lei.

O forse qualcuno c’è: un poeta romantico attardato, che si accanisce a baciarla e invocarla fino a farla svegliare. È il tema di un’altra poesia della raccoata, un Dithyrambe a Camille Mauclair, ambientato in un cimitero, vicino alla tomba di Schumann, assunto come genio romantico esemplare.  

 

5.2.2. Marinetti e il selenicidio

Uccidiamo il chiaro di luna, manifesto del 1909, ha la forma di un racconto. I futuristi hanno deciso di passare all’azione, di uscire dalla città allegorica di Paralisi, di devastare Podagra, per costruire un simbolico Binario. È necessa­ria la guerra per versare il sangue, che scorrerà infine libero, fuori dalla prigione costrittiva delle arterie. Si forma l’esercito, la cui cavalleria è formata da pazzi fatti scappare dai manicomi, montati su leoni.

 

da Uccidiamo il chiaro di luna - 3

A notte piena, eravamo quasi in cielo, su l’altipiano persiano, sublime altare del mondo, i cui gradini smisurati portano popolose città. Allineati all’infinito lungo il Binario ansavamo su crogiuoli di barite, di alluminio e di manganese, che a quando a quando spaventavano le nuvole con la loro esplosione abbagliante; e ci sorvegliava, in cerchio, la maestosa ronda dei leoni che, erette le code, sparse al vento le criniere, foravano il cielo nero e profondo coi loro ruggiti tondi e bianchi.

Ma, a poco a poco, il lucente e caldo sorriso della luna traboccò dalle nuvole squarciate. E, quando ella apparve infine, tutta grondante dell’inebriante latte delle acacie, i pazzi sentirono il loro cuore staccarsi dal petto e salire verso la superficie della liquida notte.

Ad un tratto, un grido altissimo lacerò l’aria; un rumore si propagò, tutti ac­corsero... Era un pazzo giovanissimo, dagli occhi di vergine, rimasto fulminato sul Binario.

fl suo cadavere fu subito sollevato. Egli teneva fra le mani un fiore bianco e desioso, il cui pistillo s’agitava come una lingua di donna. Alcuni vollero toccarlo, e fu male, poiché rapidamente, con la facilità di un’aurora che si propaga sul mare, una verdura singhiozzante sorse per prodigio della terra increspata di onde inattese.

Dal fluttuare azzurro delle praterie, emergevano vaporose chiome d’innumerevoli nuotatrici, che schiudevano sospirando i petali delle loro bocche e dei loro occhi umidi. Allora, nell’inebbriante diluvio dei profumi, vedemmo crescere distesamente intorno a noi una favolosa foresta, i cui fogliami arcuati sembravano spossati da una brezza troppo lenta. Vi ondeggiava una tenerezza amara... Gli usignuoli bevevano l’ombra odorosa con lunghi gorgoglii di piacere, e a quando a quando scoppiavano a ridere nei cantucci giocando a rimpiattino come fanciulli vispi e maliziosi. Un sonno soavissimo vinceva lentamente l’esercito dei pazzi, che si misero a urlare dal terrore.

Irruenti, le belve si precipitarono a soccorrerli. Per tre volte, stretti in gomitoli balzanti, e con assalti uncinati di rabbia esplosiva, le tigri caricarono gli invisibili fantasmi di cui ribolliva la profondità di quella foresta di delizie... Finalmente, fu aperto un varco: enorme convulsione di fogliami feriti, i cui gemiti svegliarono i lontani echi loquaci appiattati nella montagna. Ma, mentre ci accanivamo tutti, a liberar le nostre gambe e le nostre braccia dalle ultime lia­ne affettuose, sentimmo a un tratto la Luna carnale, la Luna dalle belle coscie calde, abbandonarsi languidamente sulle nostre schiene affrante.

Si udì gridare nella solitudine aerea degli altipiani:

- Uccidiamo il chiaro di Luna!

Alcuni accorsero alle cascate vicine; gigantesche ruote furono inalzate, e le turbine trasformarono la velocità delle acque in magnetici spasimi che s’arrampicarono a dei fili, su per alti pali, fino a dei globi luminosi e ronzanti.

Fu così che trecento lune elettriche cancellarono coi loro raggi di gesso abbagliante l’antica regina verde degli amori.

E il Binario militare fu costruito. Binario stravagante che seguiva la catena delle montagne più alte e sul quale si slanciarono tosto le nostre veementi locomotive impennacchiate di grida acute, via da una cima all’altra, gettandosi in tutti i precipizi e arrampicandosi dovunque, in cerca di abissi affamati, di svolti assurdi e d’impossibili zlg-zag. Tutt’intorno, da lontano, l’odio illimitato segnava il nostro orizzonte irto di fuggiaschi. Erano le orde di Podagra e di Paralisi, che noi rovesciammo nell’Indostan.

La conquista si conclude con un passo ulteriore: non è più il binario a servire, quando si arriva alla fine delle terre; occorre salire, su un potente aeroplano, col quale continuare la guerra, vissuta come un intenso atto d’amore, in cui, ancora, il sangue sarà versato «per ricolorare le aurore ammalate della Terra».

Sono qui ripresi in modo evidente i temi del futurismo; sottolineerei almeno un aspetto: la natura non ha più niente da offrire all’uomo, che non può fare altro che «ucciderla», toglierne di mezzo ogni pretesa. Esso deve creare il proprio ambiente, renderlo uguale a se stesso, o comunque adatto alle proprie necessità; non più il chiaro dl luna, ma la ricchezza indotta dall’elettricità.

Qui il chiaro di luna è vissuto secondo l’accezione privativa del modo di dire: se gli sostituiamo la luce elettrica, la nostra vita sarà meno povera.

Né il poeta può essere più il Pierrot della tradizione, abitatore di Paralisi, destinato all’inazione noiosa e vuota. Il poeta, viceversa, dovrà trasformarsi in soldato, partecipare alla lotta per la vita, metaforizzata da Marinetti nella guerra. Coloro che hanno intuito questa verità, la necessità di abbattere la natura per superarla, sono stati ritenuti «matti»; gli abitanti di Paralisi hanno costruito istituzioni apposite per impedir loro il movimento, l’azione, l’essere quella forza vitale che demolisce ogni nostalgico passato della fioca luce lunare per affermare invece un futuro che si vuole assoluto e unilineare progresso. Meglio non si saprebbe dire la posizione della seconda rivoluzione industriale, niente di nuovo aggiungono gli alfieri della «rivoluzione» informatica.  

 

5.2.3 Enrico Cavacchioli

Il tema della crisi e della morte della luna è trattato con grande precisione in una poesia scritta nel 1914 da Enrico Cavacchioli (1885-1954), scrittore e poeta che attraversò molte esperienze ed ebbe anche un nome come drammaturgo.

 

Maledetta la luna

Preludio antiromantico

 

Quando Pan impugnò la sua siringa d’oro

e la luna si sporse al balcone barocco,

gli alberi s’inchinarono in stile settecento:

gridava una civetta: Viva il romanticismo!

 

La notte azzurra sembrò sospesa nel grido occhialuto

con la tortura spasmodica delle sue stelle rosse:

ulcere fosforescenti, contagio di mondi divini.

Belarono i fiumi correnti, canzoni d’Arcadia e di sonno,

con le bocche bavose di tutti i contemporanei:

nella contemplazione si fossilizzarono gli occhi

cisposi di lacrime stanche, con un alone di luna.

 

I roseti fiorivano napoleonicamente

nei giardini storditi dal canto degli usignoli.

Dagli antri di muffa grigiastra, sorrisero le ninfe

quasi che sgocciolassero la lunga risata satanica

nelle sorgenti livide, scaturite dal monte.

Io ti cullai così, cantando, o mio piccolo amore:

«Maledetta la luna! Maledetta ella sia,

piccola ancella che porta il soggolo della beghina

e mormora ipocrituzze preghiere da innamorati!

Il mondo si converte in un convento corrotto

mentre sbadiglia la cronica veglia di dodici ore,

ed i fratelli notturni pensano l’ultimo inganno

avvolti nel suo manto come in cotte d’argento.

 

Maledetta la luna! Che s’indugia nel trivio,

sgonnellando come una meretrice gaglioffa:

e non vuole interrompere questa cristianità

che ci suggella a fuoco le midolla ammarcite!

Brilla nell’ombra a un tratto la lama d’un coltello,

così lucida che sembra un lampo di fuoco:

assassini, briganti, ladri e omicidi romantici

fuggono nel mistero in un brivido d’oro.

Tu che mi sei vicina, ti stringi al mio petto robusto

se ti raggiunge il grido d’un moribondo lontano:

e poi che il grido è rosso e profumato di sogno

cerchi la bocca mia, come un vulcano d’amore...

 

Ma quando una campana s’agita all’alba, e sta:

spalancando a volate la sua gola di bronzo,

sotto le coltri oscure della crosta terrestre

scivoli, brancolando in un altro emisfero,

che finalmente t’ha raggiunta l’estrema invettiva

del mio sonno irrequieto tormentato di baci,

e nel cielo verdigno lo spetro del mio desiderio

come un eroe futuro va: cavalcando il sole!

 

 

Epilogo moderno

 

Anche tu la conosci, o Bella, la malattia

grigia del nostro secolo: quella che fa morire

giorno per giorno, come se da una montagna celeste

rotolassimo i pesi della nostra gioia

e la mancanza di lei ci ardesse nei polmoni.!

 

Piccolo sentimento di borghesia rattrappita

che s’avvolge in pelliccie che non potrà pagare:

desiderio dell’impossibile, sete di infinità,

febbre di quello che diverremo domani

ci martella le tempie così fragili

che quasi potresti schiacciarle come il naso di un gatto!

 

E mentre la politica ci solletica i piedi

con la sua lingua perfida acidula e rovente,

e le religioni bugiarde ci chiudono gli occhi viziosi,

se tu vuoi vivere, devi creare un bel cuore meccanico,

ed aspirar l’effluvio rovente delle fornaci,

e tingere il bel volto nel fumo delle ciminiere,

elettrizzarti in milioni di volt, alle dinamo:

devi fare della vita, un automatico sogno,

martoriato di leve e di contatti e di fili!

 

Quando il tuo cuore sarà come un rocchetto di Ruhmkorff

e le tue mani tenaci avranno un furore metallico,

ed il tuo petto potrà gonfiarsi più del mare,

oh, grida allora la tua vittoria definitiva!

Che se la macchina greggia ha sorpassato l’uomo

nella sua perfezione regolare e brutale,

l’uomo sarà il Re della macchina bruta,

dominatore di tutte le cose finite e infinite!

 

Sia maledetta la luna!

 

Salta agli occhi, nel finale, la scelta consapevole dell’artificialità: l’uomo deve trasformarsi in macchina per avere ragione delle macchine, per evitare di finire stritolato dalle sue stesse creature. Questo tema è rimasto attualissimo, tanto che la figura dell’uomo che è anche un po’ macchina, del cyborg, degli esseri bionici è una componente essenziale dell’immaginario contemporaneo. Cavacchioli ritiene, coerentemente con l’impostazione futurista, che questa sia l’unica via praticabile aperta all’uomo.

È una posizione che, allora come ora, dà molti motivi di restare perplessi. Un’obiezione che immediatamente si pone, per esempio, è che, nel momento in cui tutto si fa artificiale, non esiste più niente di naturale e non ha più ragion d’essere nemmeno la distinzione stessa fra artificiale e naturale. Tutto diventerebbe pertanto oscuro, informe e indistinto, si perderebbe la nozione stessa di individuo. Poco male, per quanto ciò importi l’abolizione dello stile di pensiero proprio all’Occidente da qualche millennio. Poco male, se non restasse un rischio: che qualcuno resti Uomo in questa natura artificiata, e si ritrovi ad essere dominatore di tutto il resto, padrone di un mondo che, avendo perso con l’individualità la stessa nozione di ribellione, non potrebbe nemmeno pensare di ribellarsi (perché poi il pensiero, in un uomo interamente macchina, non potrebbe che essere mero calcolo predefinito, privo di volontà autonoma). Sarebbe allora, se Cavacchioli, con i suoi amici futuristi, fosse stato buon profeta, una situazione di dominio, di asservimento, di schiavitù quale mai si è dato nella storia dell’umanità. Allora sì che sarebbe un chiaro di luna mai visto!