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Pleniluni e quarti di luna

 

Achille Campanile 

e le ambiguità del linguaggio  

(novembre 1995) 

 

1. Come una voce per un dizionario letterario

Achille Campanile, pseud. di Gino Cornabò, Roma, 1900-77. Il fatto che abbia fatto nella sua opera professione di umorismo è bastato e avanzato per sconfessarlo agli occhi della critica e in genere nella considerazione dei nostri letterati, piuttosto restii a un approccio alla vita men che tragico.  Il loro aggettivo caratteristico quando sono in vena di elogiare uno scrittore è dolente!

Campanile scrisse molto, volendo vivere della propria penna. L’elenco che segue è solo una traccia, largamente incompleta.

Teatro: Centocinquanta la gallina canta (1924), L’inventore del cavallo (1925), Visita di condoglianza (1939), le fondamentali Tragedie in due battute, composte durante tutta la vita e di cui è uscita una scelta postuma, nel 1978.

Narrativa, se così si può chiamare la sua costruzione più tipica, fatta di racconti solo per modo di dire: Ma cos’è quest’amore (1924), Se la luna mi porta fortuna (1927), Agosto moglie mia non ti conosco (1930), Celestino e la famiglia Gentilissimi (1942), Il povero Piero (1959), In campagna è un altra cosa (1961), Ma­nuale di conversazione (1973), Gli asparagi e l’immortalità dell’anima (1974), Vite degli uomini illustri (1975), L’eroe (1976).

Fu giornalista e critico televisivo. Ebbe la disgrazia (gli suscitò ancora più antipatie di quante già si era conquistato nella critica) di essere apprezzato dal pubblico e da registi d’avanguardia come Bragaglia.

Il suo modo comico tipico è di forzare parole e situazioni, al limite della verosimiglianza, della logica e della stessa com­prensibilità, e anche oltre, creando con materiali apparentemente normali e quotidiani esiti assurdi. In questo ricorda certi drammaturghi reputati «seri», per esempio Ionesco. Ha trovato nel nostro teatro estimatori e qualche continuatore, il più interessante dei quali è attualmente Alessandro Bergonzoni.

Certo, è stato maltrattato: nelle storie letterarie si fa fatica a trovarlo, alla televisione, nonostante i debiti del mezzo nei suoi confronti o forse proprio per quelli, pare proprio dimenticato; ne è stata pubblicata un’edizione pomposa e lussuosa, tipo vecchie glorie da ricordare, ma curata in modo generico; per dire, il prefatore sostiene che la nascita del nostro è un mistero, perché al comune di Roma non c'è l’atto relativo: peccato che sia andato a cercare di Achille Campanile e non di Gino Cornabò (del resto, l’anonimo estensore del risvolto alle Tragedie in due battute crede che anche questo sia uno pseudonimo...). La critica ha comunque riproposto il problema Campanile, sia pure in modo perplesso: se ne sono occupati, fra gli altri, Carlo Bo, Enzo Siciliano, Umberto Eco, Guido Almansi.

Insomma è un autore da riscoprire, interessante anche se non è un «grande del Novecento».

 

2. La polisemia come strumento comico

 

La rivolta delle sette

da Manuale di conversazione

La cosa più strana, circa l’avvenimento di cui hanno parlato i giornali e che va sotto il nome di rivolta delle sette, è che essa era stata fissata per le sei. Ma in realtà poteva esser fissata per un’ora qualsiasi, poiché per sette s’intendeva non l’ora, ma le associazioni segrete che pullulano in quel paese. Sette, plurale di setta.

Purtroppo, finché c’è una sola setta, tutto va liscio; ma, quando esse cominciano a moltiplicarsi, si salvi chi può. E questa fu la causa non ultima dei guai a cui andò incontro il moto insurrezionale.

Difatti gli organizzatori fissarono la sommossa, come detto, per le sei del pomeriggio. Ora comoda, né troppo presto né troppo tardi, che permetteva a tutti di parteciparvi senza scombussolare né l’orario d’ufficio né quello della cena. I congiurati si passarono la voce, come è buon uso nelle congiure; e del resto non si può fare diversamente in questi casi, e bisogna farlo con le dovute cautele. Un congiurato, passando accanto a un altro, mormorava in fretta, senza guardarlo, per non dar nell’occhio agli altri passanti:

«Ci vediamo alla rivolta delle sette».

L’altro credeva che alludesse non alle associazioni, ma alle ore. Né, del resto, poteva stare a domandare spiegazioni, anzi, doveva filare via come niente fosse. Così pure, si svolgevano dialoghi di questo genere:

«Anche tu fai parte della rivolta...»

«Delle sette, sì.»

E i capi facevano circolare l’ordine: «Domani, tutti alla rivolta delle sette! Nessuno manchi».

Conclusione: la maggior parte dei congiurati si presentò alle sette invece che alle sei. Voi capite che, in una faccenda di questo genere, un ritardo può esser fatale. Determinò il fallimento. Fu per questo che, in un successivo tentativo, l’ora della rivolta fu fissata, a scanso d’equivoci, per le sette. Col che gli organizzatori ottennero che, nominando soltanto il moto sedizioso, si diceva contemporaneamente anche l’ora per cui era fis­sato e, d’altro canto, dicendo l’ora, si indicava anche a quale moto si alludeva, con evidente risparmio di tempo e di spesa, per tutto quello che si riferisce a stampati, circolari, ecc. Alcuni più pignoli dicevano:

«La rivolta delle sette delle sette».

Troviamo qui uno degli strumenti usati da Campanile per suscitare il riso: l’equivoco verbale, determinato dall’ambiguità di qualche parola, che può assumere significati diversi. È una risorsa antica dello scrittore comico, come pure del banale raccontatore di barzellette: lo scoprire che una parola può significare cose dif­ferenti, meglio se disparate, fa ridere.

Campanile usa qui il vecchio metodo con particolare maestria. L’accenno alle “sette” plurale di “setta” gli permette infinite allusioni, non ultima una descrizione ironica delle società segrete e l’attribuzione ad esse di un ottuso spirito burocratico, così malaccorto da non permettere nemmeno di comunicare un’ora giusta. Sono tutti elementi che cooperano al comico: ma ancora allo stato embrionale. Per saperne di più, dobbiamo aprire un intermezzo, usando qualcuna delle Tragedie in due battute: potremmo così chiarirci qualche idea sulle varianti del metodo campaniliano.

 

3. L 'ambiguità nei processi di comunicazione.

Perché “tragedie” se fanno ridere? perché si ride del male altrui, ed effettivamente molti dei temi trattati se non del tutto tragici sono almeno drammatici. Inoltre, qui si vede una “tragedia” tutta speciale, quella del linguaggio messo in scacco nel suo compito di comunicare.

Queste tragedie accompagnarono tutta la vita dell’autore, non si sa nemmeno quante siano (500? 5000?), né dove sono state pubblicate, se davvero lo sono state, né se davvero tutte quelle attribuite allo scrittore siano state composte da lui, perché esse diven­nero un genere, addirittura un genere di massa.

In esse si esplora l’ambiguità, in prima istanza quella verbale, ma in stretta relazione ad aspetti meno superficiali della comunicazione.

Vai la pena ricordare uno schema fortunato, proposto qualche decennio fa da Roman Jakobson per descrivere il funzionamento della lingua:

 

contesto

messaggio

mittente  =============================== destinatario

contatto

codice

 

Le fonti di ambiguità linguistica si annidano in tutti gli elementi del processo; essa è una forma di perturbazione che intralcia la comunicazione fra mittente e destinatario. In sede di conclusione si vedrà quanto questa sua natura sia importante.

Apriamo il nostro primo intermezzo, considerando alcune delle Tragedie in due battute.

 

PRESENTAZIONE

Personaggi:

IL SIGNOR PERICLE FISCHETTI

L’ALTRO SIGNORE

All’aprirsi del sipario IL SIGNOR PERICLE FISCHETTI si avvicina all’ALTRO SIGNORE.

 

IL SIGNOR PERICLE FISCHETTI

presentandosi all’altro signore: Permette? Io sono il signor Pericle Fischetti. E lei?

 

L’ALTRO SIGNORE

Io no.

 

(Sipario)

 

Qui è presente l'ambiguità del codice: la lingua non permette di essere sempre chiari, poiché le parole hanno più di un significato, essendo chiarite dal contesto. È una variante della polisemia che abbiamo già individuato nella Rivolta delle sette. La forma “tragedia in due battute”, isolando dal contesto i fenomeni semantici, rende più facile scoprire i nervi del sistemalingua e mostrarne le potenzialità di farsi soggetto di sofferenza.

 

 

IL SIGNORE POCO SOCIEVOLE

Personaggi:

IL SIGNORE SOCIEVOLE

IL SIGNORE POCO SOCIEVOLE

 

IL SIGNORE SOCIEVOLE

fa per presentarsi, con la mano tesa: Permette?

 

IL SIGNORE POCO SOCIEVOLE

No.

 

(Sipario)

 

Qui l'ambiguità è del contatto: certe forme di comportamento servono per stabilire un contatto; non sempre funziona, perché è in agguato l’equivoco. In questo caso l’atteggiamento linguistico produce un’interpretazione distorta, è proprio la modalità in cui viene impiegato il canale ad essere mal interpretata[i].

   

LO SCANDALO

Personaggi:

L’INQUILINO

IL PADRONE DI CASA

La scena si svolge nell’ufficio del PADRONE DI CASA.

All’alzarsi del sipario, L’INQUILINO viene a fare un reclamo al PADRONE DI CASA

 

L’INQUILINO

indignato, al PADRONE DI CASA: Signor padrone di casa, c’è nel casamento una signora che fa i bagni di sole su un balcone, in costume troppo succinto e in vista di tutti. Chiedo il vostro intervento acciocché facciate cessare questo intollerabile scandalo.

 

IL PADRONE DI CASA

Ma, scusate, questa signora è giovane?

 

L’INQUILINO

Sì.

 

IL PADRONE DI CASA

È bella?

 

L’INQUILINO

Sì.

 

IL PADRONE DI CASA

E allora perché protestate?

 

L’INQUILINO

Perché sono il marito.

 

(Sipario)

 

Qui l’ambiguità è centrata sul contesto: i quadri di riferimento sono proprio cambiati, diversi da quelli “naturali”, percepibili perciò come estranei. Ognuno degli interlocutori conosce una parte diversa dei fatti ai quali ci si riferisce e, pur comprendendo reciprocamente i rispettivi discorsi (almeno sul piano della decodifica dei singoli loro componenti), non riescono a elaborare alcuna concordanza interpretativa, fino a che tutto precipita in un finale che scioglie l’equivoco come al quinto atto di una grande commedia classica.

Incidentalmente: sono ben più di due battute, perché, dovendo elaborare un contesto, occorreva costruire un mini sviluppo drammatico.

 

LA REALTA ’ ROMANZESCA

Personaggi:

UN SIGNORE QUALUNQUE

UN ALTRO SIGNORE QUALUNQUE

UNA SIGNORA QUALUNQUE, in lontananza

La scena rappresenta un luogo e un’ora qualunque.

 

IL SIGNORE QUALUNQUE

all 'ALTRO SIGNORE QUALUNQUE, indicandogli la SIGNORA QUALUNQUE :

Vede quella signora?

 

L’ALTRO SIGNORE QUALUNQUE

Sì. Ebbene?

 

IL SIGNORE QUALUNQUE

Abbiamo fatto il bagno nella stessa vasca, senza nemmeno conoscerci.

 

L’ALTRO SIGNORE QUALUNQUE

Possibile?

 

IL SIGNORE QUALUNQUE

Sì: lei prima e io dopo. In un albergo.

 

(Sipario)

 

Qui l’ambiguità riguarda il messaggio: lo dimostra il fatto che essa è fortemente voluta dal mittente (il quale è di per sé ambiguo, o meglio ricerca l’ambiguità: per usare ancora la terminologia di Jakobson, possiamo dire che c’è un’ambiguità centrata sul mittente, che vuole essere frainteso, come ce n’è una centrata sul destinatario, che non è in grado di capire: cfr. Il signore poco socievole).

Se il  messaggio qui può essere ambiguo è perché equivoci sono i fatti cui si riferisce: si sta parlando di una cosa, ma si vuole nascondere che si intende parlare di un’altra, trascurando una variabile essenziale, in questo caso il tempo. Si tratta di una tattica consolidata, tipica per esempio degli imbroglioni e dei truffatori: del resto, la comunicazione non è mai completamente esibita, mantiene sempre delle zone d'ombra, dove si possono insinuare interpretazioni diversificate e, soprattutto, esse si possono volutamente suggerire.

 

VECCHIA GALANTERIA

Personaggi:

LA VECCHIA MARCHESA

IL VECCHIO DUCA

 

LA VECCHIA MARCHESA

Questo tramonto è bellissimo.

 

IL VECCHIO DUCA

Vi piace? È vostro.

 

(Sipario)

 

4. Dalla lingua al mondo

L'ambiguità non è solo linguistica, almeno nel senso stretto della comunicazione verbale: c’è tutto un ambito linguistico allargato (un ambito semiologico) che è quello delle convenzioni sociali. Esso comprende quei discorsi, atteggiamenti e azioni che si dicono, prendono e fanno perché così usa, senza domandarsene il significato. A volte ciò può fare effetti strani, come per questi due personaggi, in cui la buona educazione non fa i conti con l’indisponibilità (o, che è lo stesso, la disponibilità democratica, per tutti e nella stessa misura) di un «bene» come l’emozione estetica che può dare la natura.

 

CAPRICCIO

Personaggi:

IL PICCINO

SUO PADRE

IL PICCINO

Papà, io non ho mai ammazzato nessuno. Potrei ammazzare il signor Giuseppe?

 

IL PADRE

Va bene, ma il signor Giuseppe soltanto.

 

(Sipario)

   

Dovremmo fare attenzione a quel che diciamo: troppo spesso ci facciamo belli di stereotipi, di modi di dire che sono come un riflesso automatico a certe domande. Tutto ciò viene criticato nelle Tragedie in due battute, colpendo impietosamente il luogo comune e l’uso ripetitivo della lingua. Cercate di capire quel che state dicendo! perché ogni parola che vi sfuggirà dalla bocca potrà essere usata contro di voi. Coi bambini, soprattutto: i quali hanno un approccio alla parola meno vincolato dai modi di dire, dalle convenienze sociali, per cui più facile è l’equivoco.

 

POSTUMI DELL’ERUZIONE VULCANICA

o

NONNA ESEMPLARE

Personaggi:

L ‘ANNUNCIATRICE

NESSUN ALTRO

C’è stata una spaventosa eruzione. Cessata l’attività del vulcano, la popolazione rientra in paese e la vita riprende. Si cerca di riparare ai guasti, ci si aiuta tra superstiti. I genitori della piccola Iva, una bimbetta di sei anni, sono morti ed essa è rimasta con la vecchia nonna Eva, o Evelina, e col nonno. Rientrata con gli altri scampati al flagello, la brava vecchina s’occupa subito di togliere qualche scoria di lava giunta fin davanti alla porta di casa, indi fa un po’ di toletta al vecchio marito che, in quindici giorni di assenza da casa, è ridotto come un ecce homo e poi fa far colazione alla nipotina, con una frittatina e un po’ d’uva. Ma ascoltiamo tutto questo dalla bocca della graziosa ANNUNCIATRICE.

 

L ‘ANNUNCIATRICE

facendosi alla ribalta: Eva, l’ava, leva la lava, lava l’avo e alleva l’Iva con l’ova e l’uva.

(Sipario)

 

Questa storia ci porta in un altro campo: esploriamo il modo di dire, senza ambiguità, la stessa cosa, lo stesso contenuto referenziale, con parole diverse, tanto diverse che diventano addirittura un’altra “lingua": quella della prosa (nella lunga didascalia introduttiva) che si contrappone a quella della “poesia" (la battuta dell'annunciatrice)  se l’applicazione di principi retorici al limite elementari come l’allitterazione e una struttura ritmica embrionale può dirsi poesia, o almeno impiego di stilemi poetici. D’accordo, non è il caso di pensare che Campanile ci avesse fatto caso, la sua cultura teorica è probabile non fosse troppo attenta alle novità: però qui troviamo un’idea di poesia che circolava in certe estetiche anni Sessanta (la prima a venire in mente è quella di Max Bense), secondo cui la poesia si differenzia dalla prosa perché veicola con meno suoni una maggiore comunicazione, magari al prezzo di accrescere la propria ambiguità. E qui l'operazione è fatta in modo esemplare!

 

IL TALE E L’ALTRO

Personaggi:

IL TALE

L’ALTRO

IL TALE

Si viaggia meglio in ferrovia che in automobile, come dice Dante.

L’ALTRO

Dante non s'è mai sognato di dire una cosa simile.

 

IL TALE

Ma io non parlo di Dante Alighieri, parlo d’un mio amico che si chiama Dante.

 

(Sipario)

 

Qui il meccanismo è più complesso, poiché non si svolge completamente nell’ambito linguistico, ma coinvolge un mondo referenziale esterno, non reale ma in questo caso mitologico (appartenente dunque a un altro linguaggio), che serve in verità da contesto comunicativo. I casi che abbiamo visto fino ad ora in realtà erano di tipo metalinguistico, e potevano fare a meno di un rinvio al contesto; nei casi normali senza di esso la comunicazione appare però difficile. Esso si struttura in modo complesso: non si limita ad essere un piano di realtà, al quale il parlante rinvia; possiede una forza di denotazione anche mitologica o simbolica, senza contare il suo contenuto connotativo. Quando "l'altro" parla di Dante, costui è per antonomasia il sommo poeta, per cui l’ascoltatore capisce che si tratta di lui; ma per "il tale" è una persona vivente, con cui ha delle relazioni dirette. Le espressioni antonomastiche hanno anche un uso proprio, per cui separando rigorosamente i due piani si spezza l’illusione retorica.

 

    UNA VITA DI STRAVIZI

Personaggi:

LA LUNA

IL LAGO

 

LA LUNA

specchiandosi nel lago: Dio, come sono pallida stasera. Forse avrei fatto meglio a non levarmi.

 

IL LAGO

Sfido io, sempre con questa vita notturna! Prendi esempio dal sole, che si corica al tramonto e all’alba è su.

 

(Sipario)  

 

Il gioco è analogo, si avverte la precarietà del consiglio “medico”: quando si scopre che la luna è notturna per definizione, tutto cambia, il proverbio perde ogni validità.

Il proverbio (ne appare uno anche nel prossimo brano) organizza le parole in un modo cristallizzato, come il mito. È la sua forza, ma anche il suo limite.

(Sia concesso riportare di passaggio un aneddoto; la carriera di Campanile iniziò appunto con un proverbio: commentando sul giornale in cui scriveva la storia di una povera vedova, morta sulla tomba del marito che andava a visitare ogni giorno. Campanile intitolò: «Tanto va la gatta al lardo...». Il caporedattore era Silvio d’Amico, il grande critico teatrale che, pensando di avere a che fare o con un genio o con un matto, incoraggiò Campanile a scrivere.)

 

IL DIAVOLO E IL TEOLOGO

Personaggi:

IL TEOLOGO

IL DIAVOLO

 

IL TEOLOGO

Ma dimmi, perché tu tenti gli uomini?

 

IL DIAVOLO

Perché tentar non nuoce.

 

(Sipario)

 

Tentar non nuoce: certo, forse... ma a chi? Tentare cosa? Poiché è evidente che il diavolo “tenta” nel senso di provare, ma “provare” vuol dire anche “mettere alla prova” per cui “tentare” ecc. ecc.

Qui si torna alla semplice omofonia: ma, come spesso nel Campanile migliore, il qui pro quo propone un tema di riflessione. La forma che viene usata dal nostro autore resta, per così dire, in superficie: noi lettori abbiamo la scelta se limitarci a sorridere o entrare più in profondità. Peraltro, la riflessione su questi fenomeni di linguaggio ha intrigato buona parte della filosofia del Novecento: Wittengstein, Heidegger, i semiotici… Campanile ha dalla sua una profonda sensibilità per i fenomeni linguistici, non certo l'attitudine o la volontà di approfondirne natura e implicazioni; ma è probabile che, senza questa sensibilità, diventi impossibile anche solo porre tali problemi.

 

AMLETO IN TRATTORIA

Personaggi:

AMLETO

IL CAMERIERE

AVVENTORI, CAMERIERI, SIGARAIO, ECC.

In una trattoria di Danimarca, all’ora del pranzo.

 

AMLETO

esaminando il microscopico pollo che gli è stato servito:

Cameriere, che è questo che m’avete servito?

 

IL CAMERIERE

Oh, signore, era un pollo, ma ora e morto, pace all’anima sua, e non è più niente.

 

(Sipario)

 

Qui siamo nella filosofia vera e propria. Con uno scarto ironico che fa pensare a Socrate, si parla sul serio. La morte non è ironia, pure si presta al gioco verbale, come del resto ogni cosa al mondo: questo può essere un forte argomento a favore della tesi che il gioco verbale sia esattamente il mondo che conosciamo. L'essenza della morte è quella di cambiare tutte le cose, livellandole nel segno del nulla. Ma cos'è il nulla? Se lo poniamo fuori del linguaggio? Ci è impossibile concepirlo, se non in forma di qualcosa, ossia del radicalmente altro da sé. Quello che Amleto si aspettava, era un pollo. Morto, certo ma non nulla. E difatti, un pollo, microscopico ma non annullato, l'ha avuto. Dal suo punto di vista, non è quel qualcosa che voleva, però. E ben se ne rende conto il cameriere: che sostiene di aver portato appunto un ente che è nulla. Da tutta la situazione si ricava che il nulla è soggettivo, che è un per me non condivisibile: il che per un umorista non è poco, e sempre meglio che niente.

 

CATTIVO GIUOCO

Personaggi

IL TEMPO

LA GIOVINEZZA

L’AMORE

LA VITA

All’alzarsi del sipario, IL TEMPO, LA GIOVINEZZA , L’AMOR e LA VI ­TA giocano a bridge. Sono state distribuite le carte.

 

IL TEMPO

Passo.

 

LA GIOVINEZZA

Passo.

 

L’AMORE

Passo.

 

LA VITA

Passo.

 

Buttano via le carte.

 

(Sipario)

 

Stesso tema esistenziale del precedente; con in più l’insinuazione che lo scorrere della vita sia un gioco. D’azzardo, certo. Al quale sappiamo bene chi perde. Ma è tanto squallido che gli stessi giocatori pensano bene di andarsene: cioè, vita, tempo, giovinezza, amore, se ne vanno, se ne vanno. L'intera "tragedia" qui funziona come un'allegoria animata: sembra di vederli i nostri personaggi, addobbati di tutto ciò la tradizione figurativa li ha forniti. Clessidre, fiori, fili da tessere, frecce, cuori e quant'altro ingombrano questa scena che potrebbe essere secentesca. In fondo, il vecchio Zurbarán raccontava le stesse cose, con i suoi spogli e pensosi teatri di teschi e libri; meno efficace, però, di Campanile, perché gli manca il grottesco, che qui funge da elemento di contrasto e quindi da sottolineatura per l'essenza tragica che Campanile vuole comunicare. Pirandello spiegava come l'umorismo fosse l'unica soluzione per sopportare il male del mondo; sì, ma al di fuori di ogni ipotesi consolatoria, perché lo esorcizza nel mentre lo sottolinea.

 

DRAMMA INCONSISTENTE

Personaggi

NESSUNO

La scena si svolge in nessun luogo.

 

NESSUNO

tace.

 

E qui si pone, di soppiatto, niente meno che l’antico, grande problema metafisico: ma insomma, il nulla, è o non è? Non che usciamo dal tema linguistico fin qui trattato: poiché, per noi come per Campanile, la predicazione è un fatto di linguaggio, che trova verità o falsità solamente dentro di esso.

 

5. Parentesi: Campanile e il futurismo

Le tragedie in due battute sono forse le opere in cui maggiore è la vicinanza di Campanile al futurismo: troviamo l’idea di sintesi («in due battute», come riassunto di ciò che si sarebbe detto da altri in pagine e pagine: Marinetti lo aveva affermano nel manifesto Il teatro futurista sintetico); in fondo, la tecnica che qui lo scrittore usa è quella del teatro del varietà, e l’impietoso umorismo che abita le sintesi teatrali di Marinetti e soci. Di questo côté futurista se ne accorse per tempo Anton Giulio Bragaglia, il maggiore uomo di teatro del gruppo, che si fece regista del nostro.

 

6. Funzione modellizzante della lingua sul mondo

 

(La rivolta delle sette -  parte seconda)

Ora bisogna sapere che le sette, in quel paese, erano una ventina, ma alla rivolta partecipavano soltanto sette di esse, e non fra le più importanti. Quindi fu necessario dire: «La rivolta delle sette sette», oppure: «La rivolta delle sette sette delle sette».

Ciò anche quando, prevalendo la tendenza unificatrice, le sette si ridussero a sette.

Ogni setta era composta di sette membri, i quali erano chiamati i sette delle sette sette, e il loro moto sovversivo si chiamò la rivolta dei sette delle sette sette delle sette.

La cosa grave è che c’era un’altra rivolta, o meglio una controrivolta, un movimento reazionario, insomma, i cui promotori nulla avevano a che fare con la prima e anzi erano contro di essa e contro ogni setta.

Disgraziatamente questi, ignorando che l’altra rivolta era fissata per le sette, fissarono per la stessa ora anche la loro. Non vi dico quello che successe fra i congiurati delle due parti, che fecero confusioni tremende, sicché gli antisette finirono fra le sette, verso le sette e mezzo, e le sette, fra gli antisette alle sette.

La controrivolta si chiamò la rivolta delle sette degli antisette contro la rivolta dei sette delle sette sette delle sette.

In attesa che essa scoppiasse, i congiurati giocavano a tressette. E questi giochi passarono alla storia come i tressette della rivolta antisette delle sette, contro quella dei sette delle sette sette delle sette.

 

Ulteriore complicazione: poiché “sette” nel senso di numero non è sempre la stessa cosa: dipende da quale serie di oggetti si conta.

Poi, la parola pare avere una sua autonoma capacità aggregativa: a scopo di chiarezza, per un desiderio di ordine. Col risultato che non è più la parola a descrivere il mondo, a esserne un surrogato simbolico, ma è il mondo che si adegua, si modella sullo stampo delle parole. Va a finire che le parole proiettano la loro ambiguità sul mondo, che si fa vieppiù incomprensibile.

Così si viene costruendo la Storia : ciò che sarebbe semplice fluire di comprensibili eventi (comprensibili se non ci ostiniamo ad attribuire loro un senso, se diamo un valore alla loro insensatezza) diventa spesso, mercé le parole, un accavallarsi insensato di contraddizioni.

La Storia ? ma per parlarne dobbiamo aprire un altro intermezzo. Non prima di aver notato che c’è un altro riflesso del fenomeno, più interessante, forse, poiché questa aggregazione meramente fonica, che satura l’espressione linguistica come un mantra, crea un altro ambito di significazione: quello del rito e della magia (altri parlerebbe di fonosimbolismo). Tutto si aggrega, qui, tutto si riduce alla ripetizione di due sillabe: set-te, set-te... Sarebbe facile notare come per sia in questo caso che in altri giochi di parole analoghi, pure incentrati sulla ripetizione, Campanile usa vocaboli ad alto potenziale evocativo: il numero sette ha valori di questo tipo.

Tale è il piano su cui tutto torna: la contraddizione è cancellata, tutto si acquieta, a patto che il mondo in cui ci siamo disposti ad abitare consista unicamente di parole. Lo sapeva consapevolmente Pascoli (che è grande poeta per questo); il nostro lo sa, probabilmente senza averne coscienza; così pone problemi senza averne l’aria, lasciando al lettore avvertito di individuarli e risolverli, senza conoscere magari questa sua funzione.

 

7. Polisemia e incomunicabilità

 

La lettera di Ramesse

(da In campagna è un’altra cosa, 1961, “romanzo” alla maniera di Campanile, più che una trama, un susseguirsi di giochi verbali)

Dolce era la sera sulle rive del sacro Nilo. I colori del tramonto indugiavano sulle acque, che si vedevano scintillare e tremolar fra le palme, dietro il tempio di Anubi. Si levò un sommesso canto di sacerdoti. Poi tutto tacque.

Ramesse passeggiava pensieroso e la solitudine del luogo, che pareva fatto per i convegni d'amore, aumentava la sua tristezza.

Coppie scivolavan tra le ombre, poco lontano. Egli soltanto non aveva una compagna. Qui l'aveva vista la prima volta, qualche giorno prima, e qui tornava ogni sera in amoroso pellegrinaggio, con. la speranza d'incontrarla di nuovo e palesarle l'amor suo.

Ma la ragazza non s'era rivista.

"L'amo", diceva a se stesso il giovine egizio, "l'amo appassionatamente. Ma come farglielo sapere? Ecco, le scriverò una lettera".

Corse a casa, si fece portare un papiro e s'accinse a buttar giù la dichiarazione d'amore, imprecando contro lo strano modo di scrivere degli egizi, che obbligava lui, poco forte in disegno, a esprimersi per mezzo di pupazzetti.

«Vedo con piacere che ti sei dato alla pittura», gli disse il padre, quando lo vide all'opera.

« No, sto scrivendo una lettera », spiegò Ramesse.

E si rimise al lavoro, pieno di buona volontà.

«Le dirò», fece: «Soave fanciulla…».

(E disegnò alla meno peggio una fanciulla cercando di darle un'aria quanto più fosse possibile soave).

... dal primo istante in cui vi ho vista...

(Cercò di disegnare un occhio aperto e appassionato).

… il mio pensiero vola a voi...

(Come esprimere questo concetto poetico? Ecco: tracciò sul papiro un uccello).

... Se non siete insensibile ai miei dardi d'amore...

(E disegnò una freccia scagliata).

 

... trovatevi fra sette mesi...

(Sette piccole lune s'allinearono sul papiro).

… lì dove il sacro Nilo fa un gomito...

(Questo era molto facile: all'innamorato bastò tracciare un fiumicello a zig-zag).

… e precisamente vicino al tempio di Anubi...

(Anche questo era piuttosto facile, l'immagine del dio dal corpo d'uomo e dalla testa di cane essendo nota a tutti).

… perché possa esternarvi i sensi di una rispettosa ammirazione...

(Disegnò se stesso che s'inginocchiava).

... Mi creda, con perfetta osservanza, eccetera, eccetera.

Terminata l'improba fatica, il giovine e intraprendente egizio consegnò la lettera al servitore :

« Portala alla figlia di Psammetico », disse. «È urgente».

« Oh », fece il vecchio analfabeta, « il grazioso cannocchiale! ».

« È un papiro, asino. C'è risposta ».

 

*           *          *

 

Dopo poco, la soave figlia di Psammetico decifrava i disegni non troppo riusciti del giovine Ramesse, dando ad essi la seguente interpretazione :

 

Detestabile zoppa...

… ho mangiato un uovo al tegamino...

… voi siete un'oca perfetta...

… ma, nel fisico, somigliate piuttosto a una lisca di pesce[1]...

Vi piglierò a sassate...

Siete un ignobile vermiciattolo...

... e avete bisogno della protezione di Anubi...

("Mascalzone!", pensò la fanciulla. "Anubi è il protettore delle mummie !").

... Ora smetto perché debbo pulirmi le scarpe.

Saluti, eccetera, eccetera.

« Grandissimo vigliacco », strillò la ragazza. « Ora ti accomodo io ! ».

Prese lo stilo e sotto la stessa lettera scrisse:

Se io sono un'oca...

… ma non mai una mummia...

… lei è un beccaccione...

... e io la prenderò a pugni.

Frase che ottenne disegnando con grande perizia un'oca, Anubi cancellato, un animale cornuto e un pugno chiuso.

Restituì la lettera al servitore di Ramesse, che tornò dal padrone.

Figurarsi la gioia di questi, quando credé di decifrare — sempre per la sua scarsa pratica di disegno — come segue i geroglifici della ragazza:

Anche il mio pensiero vola costantemente a voi...

 

… ma ritengo che non è prudente vedersi presso il tempio di Anubi;

… piuttosto, un buon posticino tranquillo credo si possa trovare nei paraggi del tempio del bue Api...

… dove vi concederò la mia mano.

 

*             *            *

 

Quattromila anni sono passati. Il papiro di Ramesse è stato tratto alla luce da un grande egittologo, il quale dopo due lustri di profondissimi studi è riuscito a ridare all'ammirazione degli uomini il brano di sublime poesia contenuto in esso.

Eccolo, nella traduzione integrale che ne ha fatto lo scienziato:

O Osiride che danzi stancamente

sul fiore del loto,

seguita dall'ibis, uccello a te sacro,

io t'offro la spiga del grano

e sette piccoli fagiuoli di fresco sgranati,

acciocché tu tenga lontano da me il serpente dell'invidia,

al sommo Anubi,

a cui mi prostro,

seguito anch'io dall'ibis sacro,

sacrificando un grasso vitello

che abbatterò di mio pugno.

 

I temi che emergono da questa “novella” sono fra quelli cruciali per la cultura del Novecento: l’incomunicabilità fra gli uomini e l’impossibilità della storia, che di essa è figlia “potenziata”.

Incomunicabilità: il linguaggio, si è visto a iosa, è equivoco, poiché le sue parole sono spesso polisemiche; ma lo è, in maniera anche più “profonda”, radicale per così dire: non vi è identità di codice fra mittente e destinatario, ognuno in realtà conosce la propria lingua, che solo in parte coincide con quella dell’altro.

Di qui la misinterpretation, l’equivoco nella pragmatica della comunicazione. Di qui le incomprensioni, che portano, come nel caso del malcapitato Ramesse, all’infelicità. È il tema, fra gli altri contemporanei di Campanile, di Pirandello. O del cinema di Antonioni.

Storia: già da secoli (forse il primo a notarlo fu, nel Cinquecento, Guicciardini[2]) si era capito che la storia è impossibile, poiché vi è diversità di linguaggio e contesto fra il mondo dello storico e quello storicizzato, per cui, come osservò Croce, si fa storia sempre di se stessi. Qui, come sempre succede, lo storico —  un'anima bella, si direbbe, persa in qualche dilavata nebbiolina poetica —  racconta non certo la quotidianità del mondo antico, ma proprie sensazioni ed emozioni: forse è un'esagerazione romantica, se però consideriamo tanta storia a noi contemporanea. troviamo esempi neanche tanto differenti.

 (La rivolta delle sette — parte terza e ultima)

Un caso curioso avvenne quando uno dei sette congiurati della ri­volta delle sette contro quella dei sette delle sette sette, gio­cando al tressette verso le sette, si fece un sette ai pantaloni; e questo si dovette chiamarlo il sette del tressette d’uno dei sette della rivolta antisette delle sette contro quella dei sette delle sette sette delle sette.

Dal che si vede che un altro schema retorico prediletto da Campanile è l’accumulazione di elementi preferibilmente omologhi… e sono, se i lettori sono stati attenti, sette sette, cioè sette volte sette, ossia si è detto sette sette volte. Mica male come apoteosi: poiché sette è un numero proprio del divino (che è giustamente evocato anche dal tressette, dove compaiono tutti i numeri della perfezione, il tre, il sette appunto, e il dieci somma dei due, caro a Pitagora e bel rappresentato nel suo Divino Triangolo)… è ormai una specie, se può mai esistere una cosa così, di teologia comica... Ironica, eppure... Delirante, forse: però…

 

8. Conclusione (?)

1. Campanile è un grande scrittore?

No, se si pensa che un «grande scrittore» è un tale che esprime compiutamente il suo tempo in ciò che scrive. A Campanile manca, in altre parole, l’ispirazione universale. E pure l'attenzione alla storia, alla politica, alla società del suo tempo. Egli è, piuttosto, afflitto da una sorta di idea fissa, una mania sul linguaggio.

2. E allora, perché diavolo discorrerne?

Perché è passato accanto ad alcuni dei grandi temi del secolo, che ha posto, ritengo in modo inconsapevole, al centro della propria opera. La questione che più lo intriga è quella della lingua: e riesce in costruzioni che i grandi scrittori, proprio perché ne erano troppo consapevoli, non avrebbero saputo tentare. Insomma, un grande scrittore non si sarebbe abbassato a dire queste cose pure fondamentali.

3. Tutto qui?

No: perché emergono, sia pure con cospicuo impegno del critico, altri temi importanti: l’incomunicabilità, soprattutto, e la difficoltà del concetto di  storia. Anche una certa visione della vita, assolutamente novecentesca nel suo pessimismo, la considerazione fra preoccupata e sardonica che il Tutto si ridurrà al Nulla.

4. Dunque sono questi grandi temi che consigliano di leggere Cam­panile?

Ma no, via: c’è di meglio: Pirandello, Kafka, Ionesco; o, per la lingua, Pascoli, Gadda, Landolfi. A questi livelli, non scherziamo, Campanile non arriva né si sogna di arrivare.

5. Ma allora, perché leggerlo?

Che diamine, ma perché è divertente!

 



[1] La freccia di Ramesse non era, difatti, molto ben riuscita. (Nota di Campanile).

[2] Cfr. Ricordi, 141, (testo di Raffaele Spongano, nell'ediz. Roma, Editori Riuniti, Ricordi, Diari, Memorie, 1981.

[i] (Nota 2001) Tutti questi fenomeni rinviano a un moderno sviluppo della teoria linguistica: la pragmatica, che studia le condizioni concrete in cui la comunicazione avviene o è pregiudicata e il cui campo di studio privilegiato è la conversazione. Si aprirebbe qui un altro ampio discorso sul nostro autore che, attentissimo agli usi comunicativi verbali, esplora pressappoco gli stessi campi della pragmatica. Non a caso un suo libro di racconti si intitola Manuale di conversazione.